CASSAZIONE

Spesa per incrementi patrimoniali: si presume sostenuta con redditi conseguiti a partire dai cinque anni precedenti

Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico del reddito – Incrementi patrimoniali antecedenti alle modifiche del 2010 – Versamenti per aumento di capitale sociale – Calcolo incidenza sui redditi dichiarati – Determinazione del reddito medio di riferimento – Art. 38, co. 4 del DPR 600/1973 -Spese sostenute nei 5 anni precedenti

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8483 del 15 marzo 2022, intervenendo sul tema dell’accertamento del reddito col metodo sintetico precedente al periodo d’imposta 2009, ha ricordato che la spesa si presume sostenuta con i redditi conseguiti a partire dai 5 anni precedenti, affermando anche che tale presunzione può essere superata documentando un reddito fiscalmente irrilevante superiore o all’intero esborso contestato o alla parte di spese imputata nel singolo anno, al fine di valutarne lo scostamento in relazione al reddito medio dei medesimi anni. Nel caso in esame gli anni in contestazione sono 6, ossia l’anno in cui è stato accertato l’incremento patrimoniale (1997), e i 5 anni precedenti. Pertanto, ai fini dell’accertamento sintetico del reddito, una volta accertata la spesa per incrementi patrimoniali in un determinato anno, tale spesa deve essere spalmata non solo nell’anno in cui è stata effettuata, ma già a partire dai 5 anni precedenti. Inoltre, va considerato che al contribuente è consentito fornire la prova contraria, dimostrando che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

In altre parole la Suprema Corte ha stabilito alcuni punti essenziali sul tema, affermando che per l’accertamento sintetico per incrementi patrimoniali nella versione antecedente alla modifica del 2010, la spesa si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai 5 anni precedenti, in misura costante. E’ evidente che buona parte della questione ruota attorno alla corretta interpretazione del disposto di cui all’art. 38 del DPR 600/1973, che al quarto comma vigente nel periodo d’imposta 1995 sanciva che in caso di determinazione sintetica del reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, “la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui e’ stata effettuata e nei cinque precedenti”, fatta salva la facoltà del contribuente di dimostrare e documentare che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. Il decreto di attuazione, il Dm 24 dicembre 2012, titolato “Contenuto induttivo degli elementi indicativi di capacità contributiva sulla base dei quali può essere fondata la determinazione sintetica del reddito”, ha poi stabilito che gli incrementi patrimoniali vengono assunti al netto dei disinvestimenti dell’anno e di quelli netti dei 4 anni precedenti. In questo modo si è voluto rappresentare figurativamente che è senz’altro necessario valutare un certo arco temporale – non solo il singolo anno – per valutare la capacità di sostenimento di un investimento.

In tema di accertamento del reddito con metodo sintetico, la normativa di riferimento (art. 38, DPR 600/1973) è stata oggetto di diverse modifiche. Con riferimento al periodo a cui si riferisce la controversia esaminata (1997), la norma prevedeva che “qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti”. Inoltre, “il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

In proposito la Corte di Cassazione ha più volte affermato (ex multis Cass. Sent. n. 1510/2017) che la norma stabilisce una presunzione di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai 5 anni precedenti in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. La Corte Suprema ha precisato che solo nel 2005 la norma è stata modificata, prevedendo che “…la spesa per incrementi patrimoniali si presume sostenuta, salvo prova contraria, nell’anno in cui è stata effettuata e nei 4 anni precedenti”: con la modifica normativa gli anni da prendere in considerazione sono passati da 6 a 5. Con la circolare 24/E/2013 è stato poi rappresentato che il contribuente potrà fornire la prova che la provvista necessaria all’investimento è stata realizzata anche in periodi diversi dai 4 anni precedenti. La stessa circolare prevede che il contribuente dovrà fornire ulteriormente la prova dell’utilizzo della provvista e può superare la presunzione documentando un reddito fiscalmente irrilevante che sia superiore o all’intero esborso contestato dall’Ufficio o alla parte di spesa imputata nel singolo anno. Nel primo caso la prova elimina il fondamento della presunzione del maggior reddito per tutti gli anni in cui opera la presunzione, nel secondo solo per il singolo periodo d’imposta oggetto di contestazione.

L’accertamento sintetico del reddito, di cui il redditometro costituisce una species, è sempre stato uno degli strumenti più incisivi di controllo del tenore di vita dei contribuenti e, dunque, delle eventuali sacche di evasione. A fronte di elementi e dati di fatto certi occorre contrapporre prove concrete sulla propria capacità contributiva, rispondendo con questo all’elementare concetto che se si spende una certa cifra è necessario aver guadagnato (o risparmiato) importi congrui a sostenere tale spesa. È opportuno, preliminarmente, precisare che la previgente formulazione dell’art. 38 (ante modifiche di cui all’art. 22 del D.L. 78/2010) si poteva applicare sino al 31 dicembre 2013.

Con l’art. 22 del D.L. 78/2010 sono state introdotte profonde modifiche all’accertamento sintetico e al redditometro. La norma stabiliva che, per adeguare lo strumento accertativo al mutato contesto socio-economico, si sono sostituiti i commi da 4 a 8 dell’art. 38 del DPR 600/1973, riguardanti l’accertamento sintetico. In tal modo viene completamente riscritta la disciplina, che si discosta parecchio da quella precedente. Il nuovo art. 38, al comma 4 stabilisce che: “… l’ufficio, indipendentemente dalle disposizioni recate dai commi precedenti e dall’art.39, può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento è avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile”.

Per quanto attiene l’aspetto relativo all’incremento della spesa patrimoniale, il “Nuovo redditometro”, per gli accertamenti dal 2009, recita che “… La rettifica può basarsi su ogni spesa sostenuta dal contribuente nel periodo d’imposta”,mentre peril “Vecchio redditometro”, cioè per gli accertamenti sino al 2008, “… La spesa per incrementi patrimoniali si presume effettuata, per quote costanti, nell’anno in cui è stata sostenuta e nei quattro precedenti”.

In tale contesto si è inserita – aprendo nuovi scenari – la pronuncia della Corte di Cassazione (Sent. n. 23554/12) che ha stabilito che l’accertamento sintetico disciplinato dal DPR 600/1973, art. 38, già nella formulazione anteriore a quella successivamente modificata dal D.L. 78/2010, art. 22, tendeva a determinare, attraverso l’utilizzo di presunzioni semplici, il reddito complessivo presunto del contribuente mediante i c.d. elementi indicativi di capacità contributiva stabiliti dai decreti ministeriali con periodicità biennale. La Suprema Corte, qualificando come “semplice” la presunzione dell’accertamento sintetico “già nella formulazione anteriore a quella successivamente modificata”, con la sentenza n. 17663/2014 ha introdotto poi importanti principi in relazione all’onere della prova incombente sul contribuente.

Superando un precedente orientamento, il giudice di legittimità ha di fatto ritenuto sufficiente per il contribuente dimostrare l’esisten­za della provvista per un determinato periodo di tempo. La Cassazione, dunque, ha ritenuto che la disposizione ex art. 38, comma 6, DPR 600/1973, pur non prevedendo esplicitamente la prova diretta che determinati redditi siano stati utilizzati per coprire determinate spese contestate dal fisco, richiede d’ora innanzi una mera prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere. Viene così accantonato il nesso eziologico ovvero la prova diretta tra provvista patrimoniale e spesa contestata. Una congrua valutazione del rapporto tra entità e durata della provvista, in relazione alla spesa contestata, costituisce sufficiente elemento fattuale e circostanza probatoria atta a superare la presunzione sintetica.

L’accertamento sintetico si basa, quindi, su una presunzione legale relativa a cui il contribuente può opporre la dimostrazione, fornita anche prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, che il maggior reddito determinato sinteticamente sia costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, con l’accortezza di documentare in maniera adeguata l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso.

Sul punto la Corte di legittimità ha oggi aderito a quanto già recentemente attestato dalla Sent. n. 3403 del 2019 secondo cui “… Conformemente all’orientamento assolutamente prevalente espresso da questa Corte (cfr., ex multis, Cass. Sez. 6-5, n. 12207 del 16/05/2017; Cass. Sez. 5, n. 1510 del 20/05/2017), al quale il Collegio intende dare continuità, la norma di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 5 – a mente della quale, secondo il testo applicabile ratione temporis (anteriore alla modifica introdotta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, comma 1, conv. in L. 30 luglio 2010, n. 122), “qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque anni precedenti” – detta una presunzione (iuris tantum) di favore per il contribuente: quella, cioè, che la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’Ufficio sia sostenuta dal contribuente con redditi conseguiti non nel solo anno in cui la spesa risulta effettuata (e in misura pari al suo intero ammontare) ma già a partire dai cinque anni precedenti in misura costante (e ovviamente minore) pari ad una frazione dell’esborso per ciascuno degli anni contemplati dalla norma. Come puntualmente osservato da Cass. Sez. 5, n. 1510/17, citata, “tale disciplina implica necessariamente che, per ciascuno dei detti anni, la spesa per incremento patrimoniale autorizza bensì la determinazione sintetica ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, di maggior reddito (…) ma lascia intatti – per ciascun anno – la facoltà e l’onere per il contribuente di dimostrare “che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta”, con documentazione idonea a comprovare “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso”.

Segnaliamo infine anche la sentenza n. 20800/2013, dove la Corte ha ricordato come nell’ambito degli accertamenti dell’imposta sui redditi e al fine della determinazione sintetica del reddito annuale complessivo, anche la sottoscrizione di un atto pubblico contenente la dichiarazione di pagamento di una somma di denaro da parte del contribuente può costituire elemento sulla cui base determinare induttivamente il reddito da quello posseduto, in base all’applicazione di presunzioni semplici che l’ufficio finanziario è legittimato ad applicare per l’accertamento sintetico, risalendo dal fatto noto a quello ignoto.

Tanto premesso e tornando alla vicenda oggi in esame, l’Agenzia delle entrate accertava, attraverso il metodo cd. “sintetico”, un maggior reddito nei confronti del contribuente derivante da incrementi patrimoniali rappresentati da versamenti per aumento di capitale sociale in una società partecipata. La parte contribuente si rivolgeva alla giustizia tributaria per la rettifica di un maggior reddito imponibile relativo al 1995 sinteticamente determinato in base alla spesa per incrementi patrimoniali, la CTR accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate, rilevando che il versamento effettuato dal contribuente a titolo di aumento di capitale in una società di lire 225.000.000, effettuato nel 1997, era ampiamente incompatibile con i propri redditi dichiarati.

I giudici tributari ritenevano legittimo l’accertamento, rilevando lo scostamento di oltre un quarto dell’importo accertato attribuito per anno con il reddito medio di riferimento, quest’ultimo però calcolato prendendo a base gli ultimi 3 anni. Il contribuente presentava allora ricorso per Cassazione, denunciando, con quattro motivi, essenzialmente la violazione dell’art. 38, co. 4, del DPR 600/1973 vigente all’epoca dei fatti, e per non aver la CTR tenuto in considerazione i redditi dichiarati negli anni precedenti a quello in contestazione, che avrebbero potuto giustificare la spesa per incrementi patrimoniali. La Suprema Corte ha accolto il ricorso e cassato con un nuovo rinvio la sentenza impugnata, affermando che: “… Per questa Corte, in tema di accertamento con metodo cd. sintetico, è legittima l’applicazione dell’art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 22 del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010) il quale reca una presunzione “iuris tantum” di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall”Ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai cinque anni precedenti, in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (Cass., 6 febbraio 2019, n. 3403).Pertanto, gli anni in contestazione sono 6, l’anno in cui è stato l’incremento patrimoniale per lire 225.000.000,00, che è il 1997, ed i 5 anni precedenti, quindi dal 1996 sino al 1992. Solo successivamente, nel testo dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, in vigore dal 3 dicembre 2005 al 30 maggio 2010, al comma 5, si prevede che la spesa per incrementi patrimoniali si presume sostenuta, salvo prova contraria, nell’anno in cui è stata effettuata e nei 4 anni precedenti. Con la modifica normativa, quindi, gli anni da prendere in considerazione erano divenuti 5, e non più 6. Va, però, chiarito che l’art. 38 comma 5 d.P.R. 600/1973 detta una presunzione di favore per il contribuente, in quanto una volta accertata la spese per incrementi patrimoniali in un determinato anno, tale spese viene “spalmata” non solo nell’anno in cui è stata effettuata (per esempio nel 1997, data di versamento dei 3/10 dell’aumento di capitale sociale, ossia la somma di lire 225.000.000,00, a fronte di quella complessiva di lire 725.000.000,00), ma già a partire dai cinque anni precedenti, quindi dal 1992 al 1996. Va, poi, considerato che il comma 6 dell’art. 38 d.P.R. 600/1973 consente al contribuente di fornire la prova contraria, dimostrando che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. Pertanto, il contribuente ha due possibilità (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2017, n. 1510; Cass., sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14509; Cass., sez. 5, 6 febbraio 2019, n. 3403). In primo luogo, può dimostrare che, in uno dei sei anni coperti dalla presunzione, ha percepito redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta per un ammontare superiore, non solo alla quota di maggior redditi presunta per quell’anno, ma anche all’intero esborso, in quanto tali redditi sono superiori alla spesa per incrementi patrimoniali. Pertanto, può dimostrare, ad esempio, che nel 1997 (uno dei sei anni tra il 1992 ed il 1997) ha avuto reddito esenti proprio per lo stesso importo della spesa per incrementi. Tale prova elimina il fondamento della presunzione del maggior reddito non solo per l”anno 1997, ma per ciascuno dei cinque anni. Oppure, in alternativa, ed è questa la seconda possibilità, il contribuente può dimostrare che in uno di tali anni, per esempio nel 1997, ha percepito un reddito esente o assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo di imposta pari alla quota della spesa spalmata per ogni anno o di poco superiore. In tal caso, tale prova supera la presunzione di maggior reddito per quell’anno, ma non anche per ciascuno degli altri anni (1992, 1993, 1994, 1995 e 1996). Nella specie, invece, in modo del tutto contraddittorio ed incomprensibile il giudice d’appello, da un lato, ha ritenuto che la spesa per incrementi patrimoniali pari a lire 225.000.000,00, dovesse essere spalmata “nell’arco di 5 anni”, con un valore medio di lire 45.000.000,00, senza tenere conto che gli anni di “spalmatura” erano 6 e non 5, ma, dall’altro, ha preso in considerazione solo i redditi dichiarati per 3 anni, ossia nel 1994, per la somma di lire 43.099.000, nel 1995, per la somma di lire 5.442.000,00, e nel 1996 per la somma di lire 18.061.000,00. In tal modo, oltre ad aver errato nella “spalmatura” delle spese per incrementi patrimoniali in 5 anni, in luogo di 6, in base alla disciplina normativa vigente per l’anno in contestazione, ha anche errato nel non tenere conto dei redditi dei 6 anni, quindi dal 1992 sino al 1997. Peraltro, avendo confermato “l’operato dell’ufficio” che “risulta legittimo”, ha anche violato il giudicato ormai formatosi, a seguito della sentenza di questa corte che aveva cassato con rinvio (n. 17406/2010), individuando le spese per incrementi patrimoniali nella somma di lire 225.000.000,00 nel 1997, in luogo di quella determinata dall’Agenzia delle entrate pari a lire 725.000.000,00. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Sentenza 15 marzo 2022, n. 8483

sul ricorso iscritto al n. 6890/2013 R.G. proposto da:

G. F., rappresentato e difeso, giusta procura a margine del ricorso, dall’Avv. Valerio Freda, elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Venezia n. 11 c/o ASSONIME – Avv. Nicola Pennella

– ricorrente –

contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici domicilia in Roma, via dei Portoghesi, n. 12

-resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, n. 5/4/2012, depositata l’11 gennaio 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 marzo 2022 dal Consigliere Luigi D’Orazio, ai sensi dell’art. 23, comma 8-bis, della legge n. 176 del 2020.

Lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Giuseppe Fichera, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso

Fatti di causa

1. Questa Corte, con sentenza n. 17406/2010, depositata il 23 luglio 2010, accoglieva il ricorso presentato dall”Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno (n.169/02/2005), che aveva rigettato l’appello proposto dall’Ufficio avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Avellino (n.399/02/2001), che aveva accolto il ricorso presentato da F. G. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno 1995, dall’Agenzia delle Entrate, con metodo “sintetico” ex art. 38, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, con accertamento di un maggiore reddito di lire 143.344.000,00, ai fini Irpef e lire 48.302.000,00 ai fini ILOR. In particolare questa Corte evidenziava che il giudice d’appello non aveva fornito adeguata motivazione avendo accertato il versamento di lire 225.000.000,00 nel 1997, corrispondente a poco più dei 3/10 rispetto alla maggiore somma, per aumento del capitale sociale della E. s.r.l., di lire 725.000.000,00 indicata dall’Ufficio, avendo ritenuto tale somma “oggetto di regolare dichiarazione nell’anno in corso e nei 5 anni precedenti, laddove un semplice calcolo aritmetico dimostrava invece che la quota imponibile ad anno eccedeva ampiamente l’ammontare dei redditi dichiarati negli anni precedenti e su cui in base al principio fissato dall’art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973, la somma sborsata andava spalmata”. Aggiungeva che l’Ufficio nel ricorso aveva dedotto che il contribuente aveva dichiarato redditi lordi di lire 43.099.000,00 nel 1994, di lire 15.442.000,00 nel 1995, di lire 18.061.000,00 nel 1996, “non certo compatibili col superiore principio.

2. La Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, nel giudizio di rinvio, accoglieva l’appello dell’Ufficio evidenziando che l’importo di lire 225.000.000,00 doveva essere spalmato nell’arco di 5 anni, con un valore medio di lire 45.000.000,00, mentre dovevano essere presi in esame i redditi del 1994 di lire 43.099.000,00, del 1996 di lire 18.061.000,00 e del 1995 di lire 5.443.000,00, il cui valore medio era pari a lire 25.534.000,00; di qui si evinceva che “il reddito medio ottenuto risulta inferiore di oltre 1/4 all’importo accertato attribuito per anno, con la conseguenza che l”operato dell’ufficio risulta legittimo”.

3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il contribuente.

4. L’Agenzia delle Entrate ha depositato “atto di costituzione”, al solo fine di ricevere l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione della causa.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo di impugnazione il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione vigente ratione temporis. Il giudice d’appello ha violato la disposizione in epigrafe sotto un duplice profilo: ha determinato il reddito medio dichiarato dal contribuente in lire 25.534.000,00, calcolato però erroneamente solo sulla base dei redditi dichiarati in tre anni, e segnatamente i redditi del 1994, del 1995 e del 1996, anziché tenere conto dei si anni previsti dalla norma; ha determinato la spesa per incrementi media in lire 45.000.000,00, calcolata però erroneamente spalmando la spesa per incrementi di lire 225.000.000,00 nell’arco di 5 anni, in luogo di 6 anni. In realtà, se il giudice d’appello avesse correttamente applicato la norma avrebbe individuato la spesa per incrementi patrimoniali in lire 37.500.000,00, pari alla somma di lire 225.000.000,00 divisa per i 6 anni in esame (dal 1997 al 1992). Inoltre, la somma dei redditi dichiarati dal contribuente dall’anno 1992 all’anno 1997 era di lire 536.573.000,00, che portavano il reddito medio annuo a lire 89.428.833, ossia lire 573.000.000,00 diviso 6. È evidente che il reddito medio corretto di lire 89.428.893 era superiore alla spesa media per incrementi annua di lire 37.500.000,00.

2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la “motivazione omessa o insufficiente circa un punto decisivo della controversia “. Il giudice d’appello ha trascurato molti elementi istruttori dedotti dal ricorrente, avendo tenuto conto esclusivamente dei redditi dichiarati per gli anni 1994, 1995 e 1996, trascurando completamente i redditi dichiarati dalla G. negli anni 1992, 1993, e 1997. Allo stesso modo, avrebbe dovuto dividere la somma per spese relative ad incrementi patrimoniali di lire 225.000.000,00, in quella annua di lire 37.500.000,00, tenendo conto dei 6 anni in contestazione, e non solo per 3 anni.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia”. Invero, il giudice d’appello dopo aver spalmato le spese per incrementi patrimoniali pari a lire 225.000.000,00 in 5 anni, inspiegabilmente ha fatto riferimento ai redditi solo per 3 anni, cioè agli anni 1994, 1995 e 1996. Avrebbe invece dovuto tenere conto anche dei redditi dichiarati dal contribuente nei 6 anni in contestazione, ossia dal 1992 sino al 1997.

4. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la “motivazione contraddittoria circa un punto decisivo della controversia”. Il giudice d’appello, infatti, ha ritenuto che l’operato dell’ufficio risulta legittimo, confermando l’avviso di accertamento impugnato nella sua integrale portata impositiva, che era però basata sulla spesa per incrementi di lire 725.000.000,00, ritenuta poche righe prima, invece, dallo stesso giudice come infondata.

5. I motivi primo, secondo, terzo e quarto, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono fondati.

6. Si premette che la sentenza del giudice d’appello è stata depositata l’11 gennaio 2012, sicché il ricorrente ha correttamente formulato il vizio di motivazione, ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nella formulazione vigente prima della novella di cui al decreto-legge n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11 settembre 2012.

6.1 Invero, l’art. 38 comma 5 d.P.R. 600/1973, in vigore dal 31 luglio 1994 all’11 agosto 1997, prevede che “qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si presume sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti in quote costanti, nell’anno in cui è stata effettuata e nei cinque precedenti”.

Ai sensi del comma 6 dell’art. 38, poi, si dispone che “il contribuente ha facoltà di dimostrare, anche prima della notificazione dell’accertamento, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta. L’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”.

6.2 Per questa Corte, in tema di accertamento con metodo cd. sintetico, è legittima l’applicazione dell’art. 38, comma 5, del d.P.R. n. 600 del 1973 (nel testo antecedente alla modifica apportata dall’art. 22 del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010) il quale reca una presunzione “iuris tantum” di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall”Ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai cinque anni precedenti, in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (Cass., 6 febbraio 2019, n. 3403).

Pertanto, gli anni in contestazione sono 6, l’anno in cui è stato l’incremento patrimoniale per lire 225.000.000,00, che è il 1997, ed i 5 anni precedenti, quindi dal 1996 sino al 1992.

Solo successivamente, nel testo dell’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973, in vigore dal 3 dicembre 2005 al 30 maggio 2010, al comma 5, si prevede che la spesa per incrementi patrimoniali si presume sostenuta, salvo prova contraria, nell’anno in cui è stata effettuata e nei 4 anni precedenti. Con la modifica normativa, quindi, gli anni da prendere in considerazione erano divenuti 5, e non più 6.

6.3 Va, però, chiarito che l’art. 38 comma 5 d.P.R. 600/1973 detta una presunzione di favore per il contribuente, in quanto una volta accertata la spese per incrementi patrimoniali in un determinato anno, tale spese viene “spalmata” non solo nell’anno in cui è stata effettuata (per esempio nel 1997, data di versamento dei 3/10 dell’aumento di capitale sociale, ossia la somma di lire 225.000.000,00, a fronte di quella complessiva di lire 725.000.000,00), ma già a partire dai cinque anni precedenti, quindi dal 1992 al 1996.

6.4 Va, poi, considerato che il comma 6 dell’art. 38 d.P.R. 600/1973 consente al contribuente di fornire la prova contraria, dimostrando che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

6.5 Pertanto, il contribuente ha due possibilità (Cass., sez. 5, 20 gennaio 2017, n. 1510; Cass., sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14509; Cass., sez. 5, 6 febbraio 2019, n. 3403). In primo luogo, può dimostrare che, in uno dei sei anni coperti dalla presunzione, ha percepito redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta per un ammontare superiore, non solo alla quota di maggior redditi presunta per quell’anno, ma anche all’intero esborso, in quanto tali redditi sono superiori alla spesa per incrementi patrimoniali. Pertanto, può dimostrare, ad esempio, che nel 1997 (uno dei sei anni tra il 1992 ed il 1997) ha avuto reddito esenti proprio per lo stesso importo della spesa per incrementi. Tale prova elimina il fondamento della presunzione del maggior reddito non solo per l’anno 1997, ma per ciascuno dei cinque anni.

Oppure, in alternativa, ed è questa la seconda possibilità, il contribuente può dimostrare che in uno di tali anni, per esempio nel 1997, ha percepito un reddito esente o assoggettato a ritenuta alla fonte a titolo di imposta pari alla quota della spesa spalmata per ogni anno o di poco superiore. In tal caso, tale prova supera la presunzione di maggior reddito per quell’anno, ma non anche per ciascuno degli altri anni (1992, 1993, 1994, 1995 e 1996).

7. Nella specie, invece, in modo del tutto contraddittorio ed incomprensibile il giudice d’appello, da un lato, ha ritenuto che la spesa per incrementi patrimoniali pari a lire 225.000.000,00, dovesse essere spalmata “nell’arco di 5 anni”, con un valore medio di lire 45.000.000,00, senza tenere conto che gli anni di “spalmatura” erano 6 e non 5, ma, dall’altro, ha preso in considerazione solo i redditi dichiarati per 3 anni, ossia nel 1994, per la somma di lire 43.099.000, nel 1995, per la somma di lire 5.442.000,00, e nel 1996 per la somma di lire 18.061.000,00.

In tal modo, oltre ad aver errato nella “spalmatura” delle spese per incrementi patrimoniali in 5 anni, in luogo di 6, in base alla disciplina normativa vigente per l’anno in contestazione, ha anche errato nel non tenere conto dei redditi dei 6 anni, quindi dal 1992 sino al 1997.

Peraltro, avendo confermato “l’operato dell’ufficio” che “risulta legittimo”, ha anche violato il giudicato ormai formatosi, a seguito della sentenza di questa corte che aveva cassato con rinvio (n. 17406/2010), individuando le spese per incrementi patrimoniali nella somma di lire 225.000.000,00 nel 1997, in luogo di quella determinata dall’Agenzia delle entrate pari a lire 725.000.000,00.

8. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 marzo 2022

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