CASSAZIONE

Se il curatore resta inerte il contribuente dichiarato fallito può impugnare l’accertamento

Tributi – IVA – Avvisi di accertamento – Fallimento di un contribuente insolvente – Atti impositivi notificatigli antecedentemente – Legittimazione straordinaria del fallito all’impugnazione – Presupposto necessario – Diritto fallimentare – Art. 43 l. fall. – Inerzia del curatore – Difetto di legittimazione – Rapporto d’imposta anteriore al fallimento – Impugnazione–Legittimazione processuale del fallito

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con la sentenza n. 11287 del 28 aprile 2023, intervenendo su una questione di massima di particolare importanza, relativa al presupposto per la legittimazione straordinaria del contribuente insolvente a impugnare atti impositivi relativi a crediti concorsuali sorti prima della dichiarazione di fallimento rappresentato dalla mera inerzia del curatore, ha affermato i seguenti principi di diritto: “In caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 l. fall., in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato;  l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo”.

Le SS. UU. hanno di fatto riconosciuto la legittimazione processuale del contribuente dichiarato fallito, occorrendo a tal fine la sola inerzia “pura e semplice” del curatore. Tuttavia, se non ricorre l’inerzia del curatore così intesa, scatta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo, che andrà rilevato anche d’ufficio dal giudice, in ogni stato e grado del processo. Ciò significa che si tratta di un difetto di legittimazione assoluto da poter e dover essere rilevato d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite.

In buona sostanza gli Ermellini hanno statuito che in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 L. fall., a condizione che il curatore si sia astenuto dall’impugnazione e che, cioè, abbia assunto un comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato.

Va comunque ricordato in proposito anche quanto precedentemente affermato dalle stesse SS.UU. con la pronuncia n. 2951/2016, chiamate a pronunciarsi sulla portata della titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico dedotto in giudizio, ne hanno chiarito la differenza con la legittimazione ad agire dirimendo un forte contrasto giurisprudenziale. L’intervento di allora era stato sollecitato dal contrasto presente nella giurisprudenza di legittimità e la richiesta scaturisce dal fatto che “la giurisprudenza di legittimità non è unanime in materia di contestazione della reale titolarità attiva o passiva del diritto sostanziale dedotto in giudizio”.

Gli Ermellini enunciano allora alcuni importanti principi di diritto che possiamo così riassumere: – la legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne il titolare. La sua carenza può essere eccepita in ogni stato e grado del giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice;cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva vantata in giudizio che attiene al merito della causa; la titolarità della posizione soggettiva è un elemento costitutivo del diritto fatto valere con la domanda, che l’attore ha l’onere di allegare e di provare; può essere provata in positivo dall’attore, ma può dirsi provata anche in forza del comportamento processuale del convenuto, qualora quest’ultimo riconosca espressamente detta titolarità oppure svolga difese che siano incompatibili con la negazione della titolarità; la difesa con la quale il convenuto si limiti a dedurre, ed eventualmente argomentare (senza contrapporre e chiedere di provare fatti impeditivi, estintivi o modificativi), che l’attore non è titolare del diritto azionato, è una mera difesa. Non è un’eccezione, con la quale si contrappone un fatto impeditivo, estintivo o modificativo, né quindi un’eccezione in senso stretto, a pena di decadenza, solo in sede di costituzione in giudizio e non rilevabile d’ufficio. Essa pertanto può essere proposta in ogni fase del giudizio (in cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato). A sua volta il giudice può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d’ufficio; la contumacia del convenuto non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall’altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori e non vale in particolare ad escludere che l’attore debba fornire la prova di tutti i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio. Però il convenuto, costituendosi tardivamente accetta il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni maturate. Gli sarà preclusa la possibilità di basare la negazione della titolarità del diritto sull’allegazione e prova di fatti impeditivi, modificativi o estintivi non rilevabili dagli atti.

La vicenda posta oggi all’attenzione delle SS. UU. ha inizio quando  la  V sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25373/2022, ha rimesso gli atti al Primo presidente per valutare il rinvio della causa alle sezioni unite civili, per la definizione delle questioni oggi esaminate. In particolare, i giudici della V sezione chiedevano se, al fine di ritenere sussistente la legittimazione straordinaria del contribuente insolvente a impugnare atti impositivi, rilevi la mera inerzia del curatore intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale, ovvero se occorra accertare se l’inerzia sia o meno frutto di una valutazione ponderata da parte degli organi della procedura concorsuale, e gli effetti di tale soluzione sulla natura (relativa o assoluta) dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese, al riguardo del contribuente. Inoltre, veniva posta la seconda questione riguardante gli effetti della soluzione alla predetta questione sulla natura, relativa o assoluta, dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese del contribuente, e le possibili ripercussioni al di fuori della materia tributaria.

Sul punto la Corte, prima di procedere alla definizione di un indirizzo comune da seguire, a fronte dei molteplici e difformi orientamenti della giurisprudenza in materia, ha voluto ricordare che nel tempo si sono formati due orientamenti.  

Quello definibile come tradizionale sostiene l’impugnabilità da parte del contribuente, giustificata dal diverso interesse che ha il contribuente insolvente rispetto al curatore del fallimento. Il curatore ha interesse a opporsi a una pretesa tributaria solo se il contenzioso possa incidere astrattamente sulla ripartizione dell’attivo; il contribuente ha un interesse diverso che gli deriva da riflessi anche di carattere sanzionatorio o da eventuali effetti positivi possibili alla chiusura del fallimento, ad esempio, nel giudizio di esdebitazione. Più chiaramente, secondo questo orientamento, la regola è che il contribuente sia legittimato a impugnare gli atti impositivi (salvo l’eccezione del curatore) presumendosi l’inerzia degli organi concorsuali in caso di mancato avvio dell’azione giurisdizionale. Unica eccezione è il caso in cui il curatore non si attivi dopo aver instaurato un giudizio tributario, ritenuto successivamente inopportuno da coltivare. Si afferma che l’avvio di un giudizio tributario da parte del curatore fallimentare sia idoneo a escludere il realizzarsi del presupposto dell’inerzia e precluda la legittimazione straordinaria del contribuente. 

Varie pronunce di legittimità hanno ammesso de plano il fallito ad agire in giudizio per il solo fatto, appunto obiettivamente rilevato, che il curatore si fosse astenuto dal farlo; più esattamente, si tratta di decisioni che sembrano dare per scontato che la capacità processuale del fallito discenda da una condizione di inerzia pura e semplice del curatore, senza necessità di indagarne le cause, le giustificazioni o gli scopi. In questa ottica l’inattività del curatore costituisce quindi elemento necessario e sufficiente a che la tutela giudiziaria venga esperita direttamente e personalmente dal fallito (v. Cass. n. 8990/07; Cass n. 11117/13). Si delinea la presunzione secondo cui la mancata prosecuzione del giudizio o l’omessa impugnazione della sentenza che lo conclude derivano da una specifica valutazione degli organi della procedura: in tal caso l’eccezione di difetto di legittimazione diviene assoluta, rilevabile anche d’ufficio.

All’orientamento tradizionale se ne è opposto, di recente, uno diverso, in base al quale l’inerzia non ricorre in ogni caso in cui vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore, sfociata nella mancata impugnazione dell’atto impositivo. Tale eventualità, pertanto, non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia impugnato l’atto impositivo, ma solo se la mancata impugnazione sia stata causata da un totale disinteresse. Occorre volta per volta esaminare l’omessa proposizione dell’azione di impugnazione da parte del curatore per comprendere se sia frutto di ponderata valutazione.

Pertanto, la questione rimessa alle Sezioni risulta essere quindi di particolare importanza, in quanto suscettibile di ripercussioni anche al di fuori della stretta competenza tributaria, visto che l’attenzione riguarda il presupposto stesso della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente in caso di inerzia del curatore e gli effetti di tale soluzione sulla natura (relativa o assoluta) dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese, al riguardo, del contribuente.

Relativamente alla prima questione, l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite sopravanza ogni distinzione venutasi a creare nel panorama giurisprudenziale con riguardo al tipo di inerzia del curatore, visto che ai fini della legittimazione del contribuente fallito occorre la “pura e semplice” inerzia e non, dunque, l’inerzia consapevole o qualificata o che dir si voglia.

Come chiarito dai giudici, tale soluzione evita di creare “un disequilibrio eccessivo in tutti quei casi in cui l’inerzia del curatore non si giustifica tanto con un convincimento di effettiva e vagliata infondatezza, in fatto o diritto, della contestazione della pretesa tributaria, quanto in una prognosi economica del tutto contingente di sua certa o verosimile incapienza (tenuto conto dei privilegi di legge de cui è assistita) in sede di riparto”.

Al riguardo le Sezioni Unite chiariscono che “… il solo fatto che il curatore si sia attivato in sede giurisdizionale in relazione al medesimo rapporto patrimoniale dedotto in giudizio dal fallito – sia nel medesimo processo da quest’ultimo intentato, sia in altro separato processo di cui si abbia contezza – denota l’interesse del medesimo per la lite e, con ciò, l’apprensione del rapporto stesso al concorso; il che integra appunto, con il difetto di inerzia e dismissione, il presupposto della regola generale di cui all’articolo 43 l. fall., in base alla quale per questo genere di rapporti ‘sta in giudizio il curatore’ e non altri”.

In nocciolo, secondo gli Ermellini, il fatto che il vigente apparato sanzionatorio tributario sia fondato secondo uno stampo di tipo penalistico unitamente alla considerazione della certa finalità afflittivo-deterrente delle sanzioni amministrativo-tributarie, indurrebbe ad ammettere che il contribuente fallito possa impugnare in proprio l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore.

Più recentemente si è però formato un indirizzo giurisprudenziale volto a escludere lo stato di inerzia ogniqualvolta vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore di non intraprendere la tutela giurisdizionale avverso l’atto impositivo, ovvero di preventivamente rinunciarvi per la ritenuta non convenienza o inutilità, per la massa dei creditori, dell’iniziativa giudiziaria (tra le più recenti, Cass. nn. 36894/21; 34529/21; 28973/21; 13800/21; 5953/21; 4105/20 ed altre). Si tratta di un indirizzo, pertinente al caso di specie, in base al quale l’inerzia “non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia fatto ricorso alla tutela giurisdizionale, ma solo se il mancato ricorso alla tutela giurisdizionale sia stato causato, a sua volta, da un totale disinteresse all’azione, circostanza che non sussisterebbe in caso di valutazione ponderata degli organi della procedura di non impugnare l’atto impositivo”, con la conseguenza che in questa ipotesi di inerzia sarebbe onere del contribuente fallito dimostrare di volta in volta la propria legittimazione processuale, il cui difetto sarebbe esposto a eccezione di tipo assoluto così da poter essere rilevato anche d’ufficio dal giudice. Del resto lo stesso obiettivo del consolidato indirizzo di legittimità circa la necessità di notificazione dell’avviso anche al contribuente fallito, in modo tale da porre quest’ultimo in condizione di impugnarlo, verrebbe non poco svilito se tale impugnazione venisse poi impedita da una diversa valutazione degli organi della procedura.

Tanto premesso e tornando al caso di specie, al fallito sono notificati due avvisi di accertamento in relazione a periodi d’imposta anteriori alla dichiarazione di fallimento. Il curatore consegna al fallito la documentazione contabile relativa a detti accertamenti e comunica che “… la documentazione contabile relativa agli accertamenti in questione, comunicandogli nell’occasione che il giudice delegato al fallimento aveva dato parere favorevole alla rinuncia al credito Iva compreso nell’attivo della massa fallimentare”. Il contribuente, rivolgendosi allora alla giustizia tributaria, incappava in sede regionale in un arresto dellerichieste, in quanto l’incapacità del fallito non poteva essere rilevata dalla Commissione tributaria d’ufficio in assenza di eccezione sollevata dal curatore.

Con ordinanza interlocutoria n. 25373 del 25 agosto 2022, la Sezione Tributaria di questa Corte rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Alla luce di tali assunti, le SS. UU. civili hanno cassato la decisione con cui la CTR aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal contribuente ravvisando il suo difetto di legittimazione in conseguenza della mancata inerzia della curatela, la quale aveva rinunciato a impugnare gli avvisi di accertamento all’esito di specifiche valutazioni fatte di concerto con il giudice delegato. Le Sezioni Unite hanno quindi affermato che “…Nel caso di specie, il giudice delegato aveva valutato la non convenienza ad opporre gli avvisi di accertamento e quindi non è ravvisabile inerzia degli organi della procedura intesa come ‘totale disinteresse’. E’ vero che il contribuente era anche socio della fallita (srl, nde), ma i suoi interessi personali sono strettamente connessi e conseguenti alla valutazione degli avvisi di accertamento relativi alla società tal che, se si ritenesse sussistente la sua legittimazione, si determinerebbe una confliggente sovrapposizione dei suoi interessi personali con quelli della procedura” (Cass. Sez. 5^ n. 13800/21 ord.). Attraverso quello che non sembra potersi definire tanto un conclamato contrasto di indirizzi, quanto un percorso di progressiva definizione della fattispecie legittimante dell’inerzia mediante l’introduzione in essa di un quid pluris, si assiste in tal modo – nel panorama giurisprudenziale – al passaggio, non del tutto avvertito, da una nozione di inerzia semplice o essenziale ad una nozione di inerzia consapevole o qualificata o vestita che dir si voglia. La prima libera la capacità sostitutiva del fallito, la seconda la preclude. Varie sono le conseguenze pratiche sortite sul processo a seconda dell’opzione prescelta, posto che mentre la tesi dell’inerzia semplice esonera il fallito che agisce dall’onere di allegare qualcosa di più e di diverso dal solo fatto oggettivo della inattività del curatore comunque determinatasi, la tesi dell’inerzia qualificata ostativa presuppone l’assenza di una valutazione negativa e ponderata di astensione da parte del curatore; il che suscita un accertamento fattuale, in sede di verifica preliminare dei presupposti processuali, la cui complessità e potenziale vaghezza possono risultare tanto maggiori quanto più si ammetta che questa valutazione negativa ponderata possa desumersi anche per implicito o per facta concludentia, cioè in assenza di un formale provvedimento del giudice delegato (del resto previsto dall’art. 25 n.6) l. fall. per stare in giudizio, non anche per non starci) che autorizzi il curatore all’astensione. Inoltre, come anche osservato dai giudici remittenti, se ci si muova dal presupposto che il curatore adempia con diligenza la pubblica funzione che gli è demandata e che, pertanto, valuti sempre attentamente il da farsi nel perseguimento dell’interesse dei creditori e, in generale, degli scopi della procedura concorsuale, l’esistenza di una scelta consapevole e responsabile di inazione sarebbe sempre sostenibile, fatta eccezione soltanto per le marginali situazioni di ignoranza del rapporto o del processo, ovvero nelle quali il curatore resti inattivo per mera negligenza o disavventura. Il pur naturale richiamo ad una fattispecie tipica di inerzia, quella di trascurato esercizio del diritto o dell’azione ex art. 2900 cod.civ., non apporta un contributo decisivo all’interpretazione dell’art. 43 l. fall.. Con riguardo all’azione in parola, la giurisprudenza è costante nell’escludere l’inerzia ogniqualvolta “il debitore abbia posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del rapporto” (Cass. Sez. 2^ nn. 34940/22, 5805/12 ed altre), con ciò negandosi efficacia legittimante al contegno omissivo del debitore titolare del diritto non coltivato, quando questo mancato esercizio derivi appunto non da trascuratezza e disinteresse, ma da una precisa e deliberata opzione gestoria, risultante anche da comportamenti concludenti, di non-esercizio. E tuttavia, la fattispecie qui in esame (impugnativa di un atto impositivo dell’erario) si pone su un piano del tutto differente, sia da quello strettamente patrimoniale-privatistico intercorrente tra debitore e creditore (posto che il fallito che agisce sostitutivamente non è creditore del curatore inerte), sia da quello dell’esercizio processuale eccezionalmente surrogatorio di un diritto altrui (dal momento che il rapporto tributario non trapassa in capo al curatore, ma resta del fallito il quale, agendo, fa valere un diritto di cui ha mantenuto la titolarità). Neppure sembra che sulla soluzione del problema possa interferire la regola di automatica interruzione del processo per effetto dell’apertura del fallimento (art. 43, co. 3^, come introdotto dalla legge n. 5 del 2006). Non solo perché questa disposizione non può che riguardare i soli processi pendenti al momento della sentenza dichiarativa, ma anche perché una cosa è prevedere l’interruzione automatica del processo, e tutt’altra è stabilire se ed a quali condizioni tra i soggetti abilitati a riassumerlo vi possa essere, oltre al curatore, anche il fallito. Il che ci riporta esattamente al cuore della questione. § 2.3 La giurisprudenza della Sezione Tributaria di questa Corte è costante nell’affermare che l’avviso di accertamento per debiti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento va notificato, non solo al curatore, ma anche al contribuente dichiarato fallito; si precisa anzi che, nei confronti di quest’ultimo, l’avviso non diventa definitivo fino ad avvenuta notifica, tanto che se ne ammette l’impugnabilità da parte del fallito, ex artt.19 e 21 d.lgs. 546/92, con decorrenza del relativo termine appunto dalla presa di conoscenza, quand’anche questo stesso termine risulti già decorso in capo al curatore: v. Cass. Sez.5^ nn. 5392/16; 8132/18 cit.; 2910/09; 29642/08; 16816/14 ed altre. Ha osservato Cass. Sez.5^ n. 34529/21 cit. che: “in linea di principio, il fallito conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all’inerzia della curatela, sicché, in caso di omessa notifica allo stesso dell’avviso di accertamento per debiti tributari anteriori alla dichiarazione di fallimento, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l’atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d’impugnazione instaurato dal curatore”, ciò in accordo con: Cass., Sez. 5^ n. 5671/06; Cass., Sez. 5^, n. 6393/06; Cass., Sez. 5^. n. 9434/14; Cass. Sez. 5^ n. 5392/16 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 8132/18 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 3393/20; Cass., Sez. 6^- 5^, n. 4105/20; Cass., Sez. 6^ – 5^ n. 9953/21; Cass. Sez.6^-5^ n. 28973/21, ord. Si è anche precisato che il curatore non è semplicemente gravato da un onere di informazione, ma senz’altro obbligato a portare l’avviso di accertamento a conoscenza del fallito (Cass. Sez.1^ n. 3667/97). Viene fatta salva solo l’ipotesi – perché antitetica ed incompatibile con quella dell’inerzia – in cui il curatore impugni egli stesso l’atto impositivo, posto che in questa evenienza deve trovare normale vigore la regola generale ed invalicabile di cui all’art. 43 l. fall. per la quale in caso di fallimento sta in giudizio il curatore, tanto da non constare “alcun residuo interesse del fallito a dolersi dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fine di contestarlo” (Cass. Sez.5^ n. 26506/21). Orbene, questo consolidato indirizzo, volto a garantire che il contribuente dichiarato fallito sia posto a conoscenza – non per generica informativa ma in funzione specifica della sua impugnazione in caso di inerzia del curatore – della pretesa erariale nei suoi confronti (indipendentemente dal fatto che quest’ultima esprima una volontà di prelievo piuttosto che un diniego di rimborso) si fa carico della specialità dell’obbligazione tributaria e della peculiarità del rapporto giuridico d’imposta in quanto modellato su uno statuto suo proprio, non riscontrabile nelle altre obbligazioni e negli altri rapporti di diritto privato attratti al concorso. E questa specialità non può non influire – nel senso della necessità e sufficienza dell’inerzia che abbiamo definito ‘semplice’ – sulla soluzione del problema posto dall’ordinanza di rimessione. Si tratta di una specialità che trova radice nel carattere pubblicistico-costituzionale, imperativo, indisponibile dell’obbligazione tributaria, la quale trova diretta matrice nella legge secondo parametri solidaristici di capacità contributiva (artt.23 e 53 Cost.). Il che si riflette, tra il resto, sulle modalità di accertamento dell’obbligazione tributaria (demandata ad un giudice diverso da quello ordinario) e di sua attuazione in caso di inadempimento (attraverso un regime di riscossione che si discosta da quello ordinario dell’espropriazione forzata), sicchè non è possibile una piena equiparazione tra l’inadempimento delle obbligazioni di diritto privato e quello delle obbligazioni tributarie, “oggetto, per la particolarità dei presupposti e dei fini, di disciplina diversa da quella civilistica” (C.Cost. sent. nn. 157/1996, 291/1997, 90/2018). Nell’applicazione dell’art. 6 CEDU anche la Corte di Strasburgo (già con la decisione Ferrazzini c/Italia 12.7.2001 C- 44759/98) ha rimarcato il fatto che “la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché resta predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività”, con ciò ponendo anch’essa il fulcro dell’obbligo tributario in una relazione coattiva che si articola su un tipico binomio non paritetico ma di potestà-soggezione. Come si è anticipato, la peculiarità dell’obbligazione tributaria emerge non solo sul piano della disciplina sostanziale, nella quale l’applicazione delle previsioni del codice civile può avvenire solo in mancanza di prescrizioni tributarie specifiche e con i limiti generali di compatibilità ed analogia, ma anche su quello dell’accertamento giurisdizionale. Accertamento che, sottratto alla vis attractiva del foro fallimentare, è demandato in via esclusiva al giudice tributario, tanto che il credito dall’ente impositore insinuato al passivo fallimentare sulla base di un avviso non definitivo – se contestato – deve essere ammesso dal giudice delegato con riserva fin visto l’esito del contenzioso tributario (da ultimo, Cass. Sez. 1^ n. 37006/22); ma appunto perché credito demandato alla verifica di un giudice diverso da quello fallimentare, una volta che il credito impositivo sia divenuto definitivo per mancata impugnazione dell’avviso da parte della curatela e così ammesso al concorso, nessun altro margine di contestazione potrebbe residuare in capo al contribuente fallito (non legittimato ad impugnare i crediti ammessi ex art.98 l. fall.), neppure entro i ristrettissimi ambiti del contraddittorio facoltativo in sede di verifica dei crediti ex art. 95, pen.co., l. fall.. E la definitività dell’atto impositivo non impugnato nel termine decadenziale produrrebbe tutti i suoi effetti, nei confronti del debitore, anche dopo la chiusura del fallimento. Tutti questi aspetti, unitariamente riconducibili al carattere pubblicistico dell’obbligazione tributaria, danno ragione del fatto che il rapporto giuridico d’imposta basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa – fermi gli obblighi formali e dichiarativi gravanti sul curatore – permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura, potendo esso condizionare (a seconda dell’esistenza ed entità dell’esposizione debitoria tributaria e di tutte le circostanze che la caratterizzano) il futuro rapporto con l’Amministrazione Finanziaria quanto, ad esempio, a valutazione della personalità del contribuente ed a sua affidabilità fiscale complessiva ex art.7 d.lgs 472/97, così come ad an e quantum delle sanzioni pecuniarie amministrative applicabili. E, più in generale, il concreto atteggiarsi del rapporto giuridico d’imposta inadempiuto può sortire effetto sulle stesse prospettive di esdebitazione ex art. 142 l. fall. (disposizione che, al pari dell’art.278 u. co. CCII, espressamente esclude da essa le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario non accessorie a debiti estinti) e di ripresa una volta che il debitore sia tornato in bonis. E proprio l’aspetto sanzionatorio rende particolarmente eclatante il divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto comune e, con ciò, la diversa intensità delle ragioni di difesa che vanno riconosciute al debitore-contribuente anche se in stato di fallimento. Nel caso in cui l’inadempimento tributario possa correlarsi – in tema di imposte sui redditi e di Iva – ad un reato ai sensi del d.lgs. 74/2000, il fallito deve essere posto in grado di impugnare l’atto impositivo quali che siano le ragioni che hanno indotto il curatore a non farlo. Se è vero che è ormai da tempo estraneo all’Ordinamento ogni meccanismo di pregiudizialità tributaria (definitivamente espunto con la legge n.516/82), vigendo oggi l’opposto principio di autonomia e separatezza (sostanziale e processuale) degli accertamenti giurisdizionali rispettivamente demandati al giudice tributario ed al giudice penale (finanche con possibilità di diverse quantificazioni del credito erariale), resta tuttavia indubitabile l’influenza che l’accertamento in sede amministrativa-tributaria può sortire sull’indagine penale, sia nel convalidare o meno la notitia criminis in presenza di ritenuto superamento delle soglie legali di punibilità, sia nel costituire quest’ultimo accertamento un elemento, non vincolante, ma comunque probatoriamente utilizzabile dalle parti e dal giudice nel procedimento penale che ne sia scaturito. Con ciò riscontrandosi una logica di tutela non distante da quella accordata al fallito dallo stesso art. 43 l. fall. con riguardo ai giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per bancarotta. Altrettanto però è a dirsi nel caso in cui l’inadempimento tributario sia presidiato dall’applicazione di sanzioni pecuniarie di natura non penale ma amministrativa, dovendosi in proposito considerare la transizione impressa in materia dal d.lgs.472/97 (di adeguamento dell’ambito tributario ai principi generali di cui alla legge 689/81), con passaggio da una concezione patrimoniale-risarcitoria della sanzione (già propria della legge n. 4 del 1929), ad una di natura più marcatamente personale-afflittiva. Da qui il richiamo di legge ad istituti tipici del regime penale, quanto a principio di legalità e favor rei, ad imputabilità e colpevolezza, a cause di non punibilità, a continuazione, a recidiva, a concorso soggettivo nell’illecito, a non trasmissibilità agli eredi. Non è questa la sede per rievocare l’articolato dibattito ed il fitto dialogo tra le Corti che, a vari fini ma in particolare nell’esaminare la compatibilità di un regime di ‘doppio binario’ con il divieto di bis in idem di cui al diritto europeo (sia ex art.4 Prot.7 CEDU, sia ex art. 50 Carta di Nizza), ha affrontato il problema della natura della disciplina sanzionatoria interna in materia tributaria per quanto concerne le sovrattasse e le maggiorazioni d’imposta: se amministrativa ovvero ‘sostanzialmente penale’ secondo i noti criteri Engel elaborati dalla CEDU. Ai presenti fini si ritiene sufficiente ricordare quanto recentemente osservato – seppure in diverso contesto – da questa Corte in ordine al fatto che il vigente apparato sanzionatorio tributario, proprio per il recepimento di quegli istituti e di quei principi, risponda in ogni caso ad ‘uno stampo di tipo penalistico’ (v. Cass. SSUU civ. n. 13145/22). E questa sola considerazione, unita alla certa finalità afflittivodeterrente delle sanzioni in esame indipendentemente dalla natura giuridica sostanziale che si voglia in esse riconoscere, induce – anche ed in primo luogo sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 43 l.fall. costituzionalmente orientata ex art.24 Cost. – ad ammettere il contribuente fallito ad impugnare ‘in proprio’ l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore. Già Cass.Sez.5^ n. 2910/09, nel richiamare l’indirizzo interpretativo della legittimazione eccezionale del fallito per il solo fatto dell’inerzia del curatore, ebbe, in motivazione, ad osservare quanto segue: “Secondo i giudici di appello gli odierni ricorrenti non avrebbero recuperato la capacità processuale perché mancherebbe il presupposto della inerzia del curatore, il quale invece, nella specie si era attivato, benché senza successo, per contrastare la pretesa erariale. Ritiene il collegio che tale assunto non sia condivisibile, perché nei fatti gli odierni ricorrenti non hanno potuto agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e nessuno lo ha fatto in loro vece. Per cui, l’interpretazione recepita dalla CTR, ove mai fosse corretta, sarebbe certamente in contrasto con il dettato costituzionale, laddove all’art. 24, viene garantito ‘a tutto tondo’ il diritto di difesa”; si aggiunge poi che: “È evidente che la decisione del giudice delegato sulla opportunità di autorizzare l’azione nei confronti del fisco (la cui motivazione, nella specie, non è nota) è basata su considerazioni che possono anche prescindere dai profili che riguardano personalmente il fallito (che non sono soltanto quelle previste dall’art. 43, comma 2, della risalente L. Fall.) e, quindi, non è un filtro che può garantire, in linea di principio, il completo esercizio del diritto di difesa”. Non sfugge, sul piano pratico, che l’opposta soluzione (quella che subordina l’impugnazione del fallito all’assenza di un’inerzia qualificata, perché consapevole e deliberata) finirebbe con il creare anche un disequilibrio eccessivo in tutti quei casi in cui l’inerzia del curatore non si giustifica tanto con un convincimento di effettiva e vagliata infondatezza, in fatto o diritto, della contestazione della pretesa tributaria, quanto in una prognosi economica del tutto contingente di sua certa o verosimile incapienza (tenuto conto dei privilegi di legge de cui è assistita) in sede di riparto. In modo tale che oggettivamente non convenga impegnare la massa nei costi, nei tempi e nell’alea di un contenzioso extra moenia sostanzialmente ininfluente per le sorti della procedura. Né il sacrificio del diritto di difesa del contribuente fallito potrebbe trovare bilanciamento e giustificazione nell’esigenza di apprestare preminente protezione ai creditori concorrenti per il caso di esito infausto del giudizio, posto che il giudicato sfavorevole in ipotesi formatosi sull’impugnazione proposta dal fallito non sarebbe ad essi opponibile, fermo restando il vantaggio di un giudicato favorevole di annullamento totale o parziale dell’atto impositivo. Ricorre sul punto quanto stabilito da Cass. Sez. 1^, n. 12854/18, secondo cui: “il contribuente fallito conserva eccezionalmente la legittimazione a impugnare l’ accertamento tributario o a coltivare l’ impugnazione in precedenza proposta nell’ inerzia degli organi fallimentari; sicché il permanere di questa legittimazione, operante sotto il controllo del curatore secondo una logica di interesse della massa dei creditori, fa sì che quest’ ultimo, al fine di salvaguardare il medesimo interesse collettivo, possa avvalersi dell’ esito favorevole dell’ azione promossa dal solo contribuente fallito, eccependo il relativo giudicato, onde limitare nel quantum la pretesa del concessionario insinuatosi al passivo per il recupero dell’ intero credito tributario contestato. Pertanto, ove il curatore manifesti il suo interesse a estendere al fallimento l’operatività del giudicato favorevole ottenuto dal fallito a seguito della sua iniziativa individuale, il giudice del merito dovrà ammettere al passivo il credito tributario nei limiti della minor somma acclarata in via definitiva in sede contenziosa ovvero, in caso di mancata formazione del giudicato, ammettere l’intera somma con riserva, da sciogliere poi all’ esito della lite”. In definitiva, lo stesso obiettivo del consolidato indirizzo di legittimità, su ricordato, circa la necessaria notificazione dell’avviso (anche) al contribuente fallito, in modo tale da porre quest’ultimo in condizione di impugnarlo, verrebbe non poco svilito se tale impugnazione venisse poi impedita da una diversa ed acquiescente valutazione degli organi della procedura; e ciò, lo si è visto, senza che una simile compressione del diritto di difesa trovi ragionevole compensazione nell’interesse del concorso. § 2.4 Quanto al regime di rilevabilità del difetto di capacità processuale del fallito – questione pure posta dall’ordinanza di rimessione – si riscontrano nella giurisprudenza di legittimità (come anche in dottrina) non convergenti orientamenti. In base ad un primo indirizzo, si verterebbe di un difetto di legittimazione non assoluto ma relativo, in modo tale che esso potrebbe essere rilevato solo su eccezione della curatela nell’interesse della massa dei creditori, dunque non dalla controparte né tantomeno dal giudice d’ufficio. Alla radice di questo convincimento vi è un allineamento del dato processuale a quello sostanziale, nel senso che così come il fallito – che resta titolare del rapporto giuridico e del patrimonio affidato ex art. 31 l. fall. alla disponibilità ed all’amministrazione del curatore – può porre validamente in essere atti negoziali e pagamenti anche successivamente alla dichiarazione di fallimento, ferma restando la loro inefficacia-inopponibilità rispetto ai creditori (art. 44 l. fall.), altrettanto dovrebbe dirsi con riguardo all’attività processuale, la quale sarebbe validamente compiuta, pur in difetto dei requisiti di legittimazione di cui all’articolo 43 l. fall., fino a che il curatore, ritenendone inopportuna l’acquisizione alla massa, questo difetto non eccepisca (v. Cass. Sez. 6^-5^ n. 27277/16 con richiami). In ragione di un secondo indirizzo, trattandosi di questione che non attiene alla titolarità del diritto ma ad una carenza di capacità o legittimazione attinente ai presupposti processuali ed il cui verificarsi è subordinato alla attivazione del curatore, il relativo vizio avrebbe invece carattere assoluto, così da poter e dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite. In presenza di questo palesato interesse (vale a dire, del difetto di un’inerzia obiettivamente intesa) il rapporto litigioso deve ritenersi ex lege acquisito al fallimento, così da rendere “inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito” (Cass. Sez. 2^ n. 31313/18 con richiami) ed il difetto di capacità processuale di quest’ultimo non rientra più nella sola disponibilità del curatore, assumendo piuttosto uno spessore ordinamentale, cioè assoluto (Cass. Sez.5^, n. 21765/15 ed altre). Tanto più alla luce della soluzione che si è indicata in ordine al presupposto della legittimazione sostitutiva del fallito in ambito tributario (inerzia semplice), si ritiene che debba essere preferita questa seconda interpretazione, del resto già argomentabile da Cass. SSUU n. 27346/09, secondo cui: “in seguito all’apertura della procedura, in relazione ai rapporti patrimoniali in essa compresi, sussiste una legittimazione processuale del fallito e dei soggetti sottoposti a liquidazione coatta amministrativa suppletiva, in deroga alla legittimazione esclusiva degli organi della procedura, in relazione a detti rapporti, nel solo caso d’inattività e disinteresse di questi, mentre ove riguardo al rapporto in questione essi si siano attivati, detta legittimazione suppletiva non sussiste e la sua carenza può essere rilevata d’ufficio”. Dunque, il solo fatto che il curatore si sia attivato in sede giurisdizionale in relazione al medesimo rapporto patrimoniale dedotto in giudizio dal fallito – sia nel medesimo processo da quest’ultimo intentato, sia in altro separato processo di cui si abbia contezza – denota l’interesse del medesimo per la lite e, con ciò, l’apprensione del rapporto stesso al concorso; il che integra appunto, con il difetto di inerzia e dismissione, il presupposto della regola generale di cui all’articolo 43 l. fall., in base alla quale per questo genere di rapporti “sta in giudizio il curatore” e non altri. La soluzione non muta – ed anzi, trova in ciò ulteriore conforto di sistema – qualora il giudizio sia stato validamente ed efficacemente intrapreso dal debitore prima della dichiarazione di fallimento, posto che in tal caso il regime previsto dal terzo comma dell’articolo 43 l. fall. impone, come già osservato, l’interruzione automatica e d’ufficio del processo ogniqualvolta si abbia notizia della sentenza dichiarativa, e ciò proprio per la sopravvenuta perdita della capacità processuale della parte dichiarata insolvente; il che dà modo al curatore di valutare l’interesse della massa ad eventualmente riassumere e coltivare il giudizio interrotto, e fermo restando che anche in questo caso – ed alla stessa maniera – in presenza di attivazione della curatela, l’incapacità del fallito a proseguire il giudizio non potrà che essere rilevata d’ufficio. La conclusione qui accolta – che si affranca dalle criticità derivanti da un troppo stretto parallelismo tra piano sostanziale e piano processuale e, in particolare, dall’estensione a quest’ultimo del regime di inefficacia proprio essenzialmente degli atti negoziali e dei pagamenti ex art. 44 cit. – tanto più si avvalora in ragione delle peculiarità del rapporto tributario e delle modalità del suo accertamento giurisdizionale. Ciò perché sono evidenziabili nella disciplina processuale di cui al d.lgs. 546/92 tanto un tassativo ed rilievo ufficioso della legittimazione e della capacità di stare in giudizio delle parti del rapporto tributario (artt. 10 segg.), quanto una regola di unitarietà decisionale e di necessaria concentrazione soggettiva ed oggettiva di tutti i procedimenti aventi ad oggetto il medesimo atto impositivo (v. artt. 14 e 29), così da quantomeno sollecitare e favorire l’emersione di quel requisito di interesse mediante attivazione giurisdizionale della curatela che si è detto essere alla base della rilevabilità d’ufficio del difetto di capacità del contribuente fallito. § 2.5 Vanno allora affermati i seguenti principi di diritto: – in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 l. fall., in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato; – l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto , già dichiarato fallito in proprio, ravvisando il suo difetto di legittimazione in conseguenza della mancata inerzia della curatela, la quale aveva rinunciato ad impugnare gli avvisi di accertamento all’esito di specifiche valutazioni fatte di concerto con il giudice delegato. Questa ratio decidendi, adeguatamente censurata ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ. con l’unico motivo di ricorso, si pone effettivamente in contrasto con quanto appena stabilito, ed ha portato a dichiarare inammissibile un ricorso che invece tale non era”.

Corte di Cassazione Sezioni Unite – Sentenza 28 aprile 2023, n. 11287

sul ricorso 17076-2016 proposto da:

F. I.  in proprio e quale amministratore della  società (Omissis)

Elettivamente domiciliato in ROMA, (Omissis), presso lo studio dell’avv. (Omissis)

– ricorrente –

Contro l’Agenzia delle Entrate in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la stessa domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

Avverso la sentenza n.2361/2016 della C.T.R. di Napoli depositata il 9/03/2016

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dal consigliere GIACOMO MARIA STALLA

Lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale MAURO VITIELLO, il quale chiede che la Corte di Cassazione voglia rigettare il ricorso

Fatti di causa e ragioni della decisione.

§ 1.1 F. I. ha proposto un motivo di ricorso per la cassazione della sentenza n. 2361/16 con la quale la Commissione Tributaria Regionale della Campania, a conferma della prima decisione, ha ritenuto inammissibile il ricorso da lui proposto contro due avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva disconosciuto costi non documentati e recuperato l’Iva con riguardo ad altrettanti periodi di imposta. La Commissione Tributaria Regionale, in particolare, ha osservato che:

• con sentenza 3 gennaio 2006 il Tribunale di Napoli aveva dichiarato il fallimento della E. C. di I. F. & c. sas, nonché dello stesso I. in proprio, quale socio accomandatario;

• in base all’articolo 43 l. fall., nelle controversie riguardanti il fallito sta in giudizio il curatore, solo eccezionalmente individuandosi una legittimazione residua del fallito in caso di inerzia del curatore medesimo; • nella fattispecie non era ravvisabile alcun disinteresse o inerzia da parte della curatela, la cui rinuncia ad impugnare gli avvisi di accertamento in questione costituiva infatti l’esito “di valutazioni fatte previo parere conforme del giudice delegato”;

• a nulla rilevava che, nel corso del giudizio di primo grado, l’I. fosse tornato in bonis a seguito della chiusura del fallimento, posto che la legittimazione ad agire doveva riguardarsi al momento della notificazione degli accertamenti e della proposizione della impugnativa.

§ 1.2 Con l’unico motivo di ricorso l’I. deduce – ex art.360, co.1^, nn.3) e 4) cod.proc.civ. – nullità della sentenza e violazione o falsa applicazione degli articoli 24 Cost., 43 l. fall. e 19 d.lgs 546/92, stante l’erronea affermazione di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto di legittimazione, posto che:

• i due avvisi di accertamento impugnati si riferivano ad annualità di imposta (2002 e 2004) antecedenti alla dichiarazione di fallimento (2006), e proprio per questa ragione erano stati notificati (5.5.09) anche a lui medesimo, non incidendo quella dichiarazione sulla sua posizione di soggetto passivo del rapporto obbligatorio d’imposta;

• il curatore gli aveva consegnato (17.6.09) la documentazione contabile relativa agli accertamenti in questione, comunicandogli nell’occasione “che il giudice delegato al fallimento aveva dato parere favorevole alla rinuncia al credito Iva compreso nell’attivo della massa fallimentare”;

• contrariamente a quanto affermato dalla Commissione Tributaria Regionale, e sulla base di quanto più volte affermato dalla S.C. (Cass. nn.6937/02; 14987/00; 3667/97 ed altre), quest’ultima circostanza era irrilevante ad escludere la legittimazione del fallito, dal momento che l’inerzia della curatela, che tale legittimazione fondava, consisteva “nella semplice circostanza dell’omesso esercizio da parte del curatore del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo”, ricorrendo in questa ipotesi l’esigenza di dare attuazione al diritto di difesa di cui all’articolo 24 Cost.;

• né l’incapacità del fallito poteva essere rilevata dalla Commissione Tributaria d’ufficio, cioè in assenza di eccezione sollevata dal curatore;

• in ogni caso, nel corso del giudizio di primo grado era intervenuta la chiusura del fallimento (8.7.10), con conseguente suo ritorno in bonis;

• nel merito, i due avvisi di accertamento opposti andavano annullati per violazione degli articoli 6, 7, 10 Statuto del Contribuente (l.212/00); dell’articolo 39 co.2 lett. d) bis d.P.R. 600/73 (insussistenza dei presupposti dell’accertamento induttivo); dell’art.32 d.P.R. 600/73 come integrato dall’art.25 l. 28/99 (illegittimo esercizio dei poteri accertativi dell’Ufficio).

§ 1.3 Con ordinanza interlocutoria n. 25373 del 25 agosto 2022 – in esito ad udienza pubblica e senza costituzione in giudizio dell’Agenzia delle Entrate – la Sezione Tributaria di questa Corte rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ex art.374 cod.proc.civ., della questione di massima di particolare importanza, ritenuta suscettibile di ripercussioni anche al di fuori della materia tributaria, riguardante “sia il presupposto della legittimazione straordinaria del contribuente insolvente (se rilevi la mera inerzia del curatore intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale, ovvero se occorra accertare se l’inerzia sia o meno frutto di una valutazione ponderata da parte degli organi della procedura concorsuale), sia gli effetti di tale soluzione sulla natura (relativa o assoluta) dell’eccezione di difetto di legittimazione e sulle difese, al riguardo, del contribuente”.

Osservano i giudici remittenti che:

• fatte salve alcune ipotesi specificamente previste dalla legge, il fallito è in linea generale privo della capacità di stare in giudizio nelle controversie concernenti rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, spettando tale capacità solo al curatore ex art.43 l. fall.;

• la giurisprudenza di questa Corte ha tuttavia costantemente affermato che il fallito mantiene legittimazione ad agire, e ad impugnare provvedimenti incidenti sui rapporti patrimoniali appresi al fallimento, nel caso di inerzia degli organi della procedura, e ciò anche con specifico riguardo all’impugnazione di atti impositivi basati su presupposti antecedenti all’apertura della procedura concorsuale (Cass. nn. 26506/21; 9434/14; 2910/09 ed altre);

• il fondamento di questa legittimazione straordinaria viene individuato:

 – nella persistenza in capo al fallito della qualità di contribuente e nella rilevanza, anche costituzionale, del rapporto tributario (artt.23 e 53 Cost.);

– nell’esistenza di un interesse personale alla contestazione della pretesa tributaria per la rilevanza che quest’ultima potrebbe avere in sede penale e comunque ex art.33 l. fall.;

– nell’ulteriore interesse a contenere l’entità del passivo in vista della esdebitazione (anche ai fini Iva) dopo la chiusura della procedura;

 – nella divergenza di questi obiettivi rispetto al disinteresse del curatore nei confronti di crediti concorsuali destinati a non trovare capienza nell’attivo fallimentare;

• dal riconoscimento della legittimazione straordinaria del contribuente dichiarato fallito discendono poi, sempre in base alla giurisprudenza di legittimità, vari corollari quali:

– la rilevabilità del difetto di questa legittimazione da parte del solo curatore (eccezione relativa) che non sia rimasto inerte ed abbia adito l’autorità giudiziaria (ad esempio intervenendo nel giudizio o proponendo l’impugnazione) nell’interesse preminente della massa (Cass. nn.17240/22, 21896/21, 13991/17, 614/16 ed altre);

– la conseguente insussistenza di un onere in capo al contribuente fallito di dimostrare in giudizio il proprio interesse ad agire, essendo quest’ultimo insito nell’inerzia degli organi della procedura la quale, in questa ottica, “rileva per il semplice fatto che il curatore non abbia fatto ricorso tout court alla tutela giurisdizionale”;

– la non integrazione dello stato di inerzia quando il curatore che abbia originariamente introdotto il giudizio, si astenga poi dall’ulteriormente coltivarlo proponendo l’impugnazione nei gradi successivi, con la conseguenza che, in questo caso, il difetto di legittimazione del fallito diventa assoluto, così da poter-dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice (Cass. nn.5571/11; 31313/18 ed altre);

• più recentemente si è però formato un indirizzo giurisprudenziale volto ad escludere lo stato di inerzia ogniqualvolta vi sia stata una espressa valutazione da parte del curatore di non intraprendere la tutela giurisdizionale avverso l’atto impositivo, ovvero di preventivamente rinunciarvi per la ritenuta non convenienza o inutilità, per la massa dei creditori, dell’iniziativa giudiziaria (tra le più recenti, Cass.nn. 36894/21; 34529/21; 28973/21; 13800/21; 5953/21; 4105/20 ed altre);

• si tratta di un indirizzo, pertinente al caso di specie, in base al quale l’inerzia “non rileva per il solo fatto che il curatore non abbia fatto ricorso alla tutela giurisdizionale, ma solo se il mancato ricorso alla tutela giurisdizionale sia stato causato, a sua volta, da un totale disinteresse all’azione, circostanza che non sussisterebbe in caso di valutazione ponderata degli organi della procedura di non impugnare l’atto impositivo”, con la conseguenza che in questa ipotesi di inerzia sarebbe onere del contribuente fallito dimostrare di volta in volta la propria legittimazione processuale, il cui difetto sarebbe esposto ad eccezione di tipo assoluto così da poter essere rilevato anche d’ufficio dal giudice;

• posto che, di norma, il curatore diligente, operando nell’interesse della massa, non rimane mai propriamente inerte, ma valuta ‘sempre’ se proporre o meno l’azione giudiziaria, spesso sottoponendo al visto del giudice delegato anche l’opzione di non agire, l’inerzia legittimante in via eccezionale l’azione del fallito residuerebbe, in pratica, nella sola ipotesi di disattenzione o dimenticanza, in modo tale che verrebbero di fatto ad avvantaggiarsi i contribuenti falliti che si pongano in relazione con curatori ‘disattenti’, rispetto a quelli che abbiano a che fare con curatori ‘virtuosi’.

§ 1.4 Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso, osservando che:

 • in punto legittimazione vicaria del fallito, le pur indubbie peculiarità (tanto di diritto sostanziale quanto di diritto processuale) del rapporto obbligatorio erariale, non scevre di risvolti pubblicistici e di conseguenze anche personali, non sono tali da indurre a disattendere l’indirizzo di legittimità secondo cui non vi è inerzia ogniqualvolta gli organi della procedura valutino di non agire;

• in punto rilevabilità della carenza di legittimazione, la soluzione, diversamente da quanto prevalentemente affermato nella giurisprudenza, dovrebbe individuarsi nell’affermazione generalizzata del carattere assoluto dell’eccezione: “una volta affermato che la legittimazione processuale vicaria del contribuente fallito sia condizionata alla natura non meditata dell’inerzia processuale della curatela, la mancanza di tale presupposto può essere rilevata anche d’ufficio dal giudice sia quando il fallito non alleghi l’esistenza di un’inerzia non deliberata, sia ove il giudice abbia comunque evidenza della carenza del presupposto (così Cass. SSUU n. 27346/09, n. 7200/98), in coerenza con il principio generale secondo cui la legittimazione ad agire integra una condizione dell’azione, si fonda sulle prospettazioni ed allegazioni della domanda ed il relativo difetto è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado, fatti salvi i limiti del giudicato (per tutte, Cass. n. 28 ottobre 2015 n. 21925)”.

§ 1.5 Chiamata all’udienza pubblica odierna, la causa è stata trattata in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, del decreto-legge n. 137 del 2020, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020 (e proroghe successive), senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

§ 2.1 Stabilisce l’art. 43 l. fall. che:

“(Rapporti processuali). Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico o se l’intervento e’ previsto dalla legge. L’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo. (…)”.

 Per quanto non applicabile alla presente controversia, non è inutile osservare come la stessa formulazione si ritrovi – con ciò palesandosi la permanente attualità della questione – anche nell’art. 143 del d.lgs. 14/2019 (Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza). Si tratta di una previsione correlata alla perdita, da parte del fallito, del potere di disposizione dei beni e dei rapporti patrimoniali appresi al fallimento (art.42 l. fall.) e direttamente incidente sulla sua capacità di stare in giudizio; essa si pone come applicazione in ambito concorsuale della regola generale di cui all’art. 75 cod.proc.civ., per cui sono capaci di stare in giudizio solo “le persone che hanno il libero esercizio dei diritti” che in esso si fanno valere, mentre quelle persone che tale libero esercizio non hanno non possono stare in giudizio se non rappresentate, assistite o autorizzate “secondo le norme che regolano la loro capacità”. Ora, siccome l’effetto di spossessamento non è totale – ammettendosi che esso non operi con riguardo alle posizioni di natura strettamente personale del debitore ed a quelle non apprese al concorso perché ritenute rispetto a questo ininfluenti e prive di interesse – alla stessa maniera neppure l’incapacità processuale del fallito, come sancita dall’art. 43 cit., è priva di eccezioni. Per quanto questo aspetto non trovi esplicita previsione nella lettera della norma – salvo (co. 2^) che per l’ipotesi di intervento specificamente consentito dalla legge, ovvero per i giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per il reato di bancarotta – dottrina e giurisprudenza sono unanimi nell’affermare che il fallito mantiene la capacità processuale con riguardo alle posizioni estranee agli interessi ed alle funzioni del concorso, come appunto quelle di natura strettamente personale o comunque non incidenti sulla sorte dei creditori. E questa capacità residuale trova argomento implicito a contrario nella lettera della legge, là dove l’art.43 stabilisce sì che in giudizio, al posto del fallito, stia il curatore, ma alla doppia condizione che si tratti di controversie “relative a rapporti di diritto patrimoniale” e che questi rapporti si ritrovino “compresi nel fallimento”.

Così viene ammesso che il fallito possa agire in giudizio anche riguardo a rapporti patrimoniali se non compresi, in linea di diritto (art.46 l. fall.) o di fatto, nel fallimento.

Nella sua marginalità rispetto alla regola generale, il fondamento della capacità processuale del fallito anche in ordine a questi rapporti viene individuato, in maniera altrettanto unanime, nella posizione di ‘inerzia’ che il curatore eventualmente assuma rispetto ad essi. Nozione, quest’ultima, in realtà nemmeno essa contemplata dall’art.43, eppure a questa disposizione non estranea, quantomeno nella considerazione che la mancata attivazione del curatore nella tutela giudiziaria di quei rapporti ben può fondare la loro ritenuta indifferenza rispetto agli scopi della procedura concorsuale e, in definitiva, la loro sostanziale non-apprensione alle ragioni della massa. Si rinvengono costantemente affermazioni giurisprudenziali di questo tipo:

• la eccezionale legittimazione processuale suppletiva del fallito sussiste nel caso di inerzia dell’amministrazione fallimentare, ma questa legittimazione “è ammissibile solo quando l’inerzia sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass., Sez. 2^, n. 15369/05); • in tema di legittimazione processuale suppletiva del fallito per il caso di disinteresse od inerzia degli organi fallimentari, “la negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia è sufficiente ad escludere detta legittimazione, allorquando venga espressa con riguardo ad una controversia della quale il fallimento sia stato parte, poiché, in tal caso, è inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito, mentre non lo è allorquando si tratti di una controversia alla quale il fallimento sia rimasto del tutto estraneo, ed in particolare quando alla negativa valutazione si accompagni l’espresso riconoscimento della facoltà del fallito di provvedere in proprio e con suo onere” (Cass. Sez.2^, n. 4448/12);

• alla regola di cui all’art. 43 l. fall. fanno eccezione soltanto l’ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali e quella in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio: “situazione che non si verifica ove l’inerzia degli organi fallimentari costituisca il risultato di una ponderata valutazione negativa” (Cass. Sez.1^, n. 24159/13);

• “(…) se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass. Sez. 6^ – 1^ n. 13814/16, così, Cass. Sez. 1^ n. 2626/18);

• la legittimazione del fallito è riconosciuta nel caso di inerzia della curatela, ma non già quando “vi sia stata una valutazione negativa del giudice delegato sulla utilità della proposizione del giudizio o del gravame (…) Risulta, infatti, chiara la posizione del giudice delegato al riguardo, che ha specificamente escluso ogni interesse del fallimento all’impugnazione, così valutando negativamente l’utilità del giudizio per il fallimento. Di qui la carenza di legittimazione dell’odierno ricorrente, rilevabile anche d’ufficio (Cass. SU n. 27346 del 2009, seguita da Cass. n. 5571 del 2011 e 24159 del 2013) non potendo sussistere sovrapposizione o contrapposizione di ruoli tra fallimento e fallito” (Cass.Sez.2^ n. 20163/15).

Dal che si evince come il concetto di inerzia – per quanto etimologicamente e semanticamente chiaro ed univoco nell’indicare una condizione di assenza di azione, cioè di staticità, di immobilità e di quiete obiettivamente rilevabile – si presti in realtà ad importanti distinguo se trasposto nel mondo giuridico e processuale. Infatti il termine in questione nulla dice, né si propone di dire, in ordine alle cause ed alle ragioni della inazione (consapevoli e volontarie o no) da parte del soggetto (agente mancato) al quale l’azione competerebbe là dove, nell’applicazione giurisprudenziale dell’art.43 l.fall., sono invece emerse sfumature dirimenti, volte a definire e discernere gli esatti contorni di questo vuoto di azione e delle conseguenze che ne possono derivare sul processo.

§ 2.2 Ciò anche, ed in particolare, con riguardo all’ambito tributario, nel quale il problema risente delle speciali connessioni tra esigenze del concorso, natura dell’obbligo fiscale e carattere impugnatorio decadenziale del giudizio avverso l’atto impositivo.

Come anche segnala l’ordinanza di rimessione, l’indirizzo di legittimità in materia non registra sul punto esiti perfettamente sovrapponibili. Varie pronunce di legittimità hanno ammesso de plano il fallito ad agire in giudizio per il solo fatto, appunto obiettivamente rilevato, che il curatore si fosse astenuto dal farlo; più esattamente, si tratta di decisioni che sembrano dare per scontato che la capacità processuale del fallito discenda da una condizione di inerzia pura e semplice del curatore, senza necessità di indagarne le cause, le giustificazioni o gli scopi.

In questa ottica, l’inattività del curatore costituisce quindi elemento necessario e sufficiente a che la tutela giudiziaria venga esperita direttamente e personalmente dal fallito, con il solo limite (v. Cass. Sez.5^, n. 8990/07; Cass. Sez. 3^ n. 11117/13) che si tratti di inattività originaria, perché mai si ammette, neppure in base a questo orientamento, che il fallito possa impugnare la sentenza nell’inerzia del curatore quando questi, pur prestando acquiescenza, si sia tuttavia attivato nel precedente grado di giudizio. Si è così stabilito che: • in materia di contenzioso tributario, quando al curatore del fallimento sia notificato un accertamento con riguardo ai redditi dichiarati dall’imprenditore fallito e l’ufficio fallimentare si disinteressi del rapporto tributario in contestazione, “si deve ritenere – giusta l’interpretazione sistematica degli artt. 43 legge fall. e 16 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 636, conforme al precetto costituzionale (art. 24, primo e secondo comma, Cost.) – che il fallito conserva la capacità processuale in ordine alle situazioni giuridiche non comprese di fatto nella massa fallimentare, con la conseguenza che il termine per impugnare decorre solo dal momento in cui l’accertamento stesso sia portato a sua conoscenza” (Cass. Sez.1^, n. 3094/95);

• l’accertamento tributario in materia di I.V.A., ove inerente a crediti i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente o nel periodo d’imposta in cui tale dichiarazione è intervenuta, “deve essere notificato non solo al curatore – in ragione della partecipazione di detti crediti al concorso fallimentare, o, comunque, della loro idoneità ad incidere sulla gestione delle attività e dei beni acquisiti al fallimento – ma anche al contribuente, il quale non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario e resta esposto ai riflessi, anche di carattere sanzionatorio, che conseguono alla “definitività” dell’atto impositivo. Da ciò deriva che il fallito, nell’inerzia degli organi fallimentari – ravvisabile, ad es., nell’omesso esercizio, da parte del curatore, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’atto impositivo -, è eccezionalmente abilitato ad esercitare egli stesso tale tutela alla luce dell’interpretazione sistematica del combinato disposto degli art. 43 della legge fallimentare e dell’art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972, conforme ai principi, costituzionalmente garantiti (art. 24, comma primo e secondo, Cost.) del diritto alla tutela giurisdizionale ed alla difesa” (Cass. Sez. 5^ n. 4235/06; così Cass. Sez.5^, n. 5671/06; Cass. Sez.5^, n.9434/14).

Altre sentenze, per vero più recenti, hanno invece ritenuto – secondo un approccio concettuale non dissimile da quello maturato nella materia extratributaria – di dover arricchire la fattispecie dell’inerzia di un elemento ulteriore, implicante sempre una più o meno approfondita indagine sulle ragioni che hanno indotto il curatore ad astenersi dal giudizio; nel senso che in tanto il fallito può agire personalmente, in quanto l’inerzia del curatore non sia consapevole e voluta, cioè frutto di una mirata ponderazione e di una specifica valutazione di opportunità e convenienza per la massa. L’idea di fondo che sostiene quest’ultimo indirizzo (non è inerte, ex art. 43 l. fall, il curatore che decida di esserlo) muove dalla osservazione che anche una condotta abdicativa e di astensione, appunto se consapevole e voluta, può equivalere ad un atto di disposizione e di amministrazione (seppure in negativo) del diritto appreso al concorso cosicché, a ben vedere, in tal caso neppure potrebbe ontologicamente ravvisarsi una vera e propria inerzia del curatore, quanto una valutazione discrezionale e deliberata di abbandono, in base alla quale la massa dei creditori trova più vantaggio e convenienza nel non impugnare l’atto, piuttosto che nell’impugnarlo. Si è così, ad esempio, stabilito che:

• la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell’art. 43 l. fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore; se, però, l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, “sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia” (Cass. n. Sez. 5^ n. 34529/21, con richiamo a Cass.Sez.5^ n. 13814/16, ord. ed a Cass. Sez.5^ n. 8132/18, ord.);

• “(…) “Nel caso di specie, il giudice delegato aveva valutato la non convenienza ad opporre gli avvisi di accertamento e quindi non è ravvisabile inerzia degli organi della procedura intesa come ‘totale disinteresse’. E’ vero che il contribuente era anche socio della fallita (srl, nde), ma i suoi interessi personali sono strettamente connessi e conseguenti alla valutazione degli avvisi di accertamento relativi alla società tal che, se si ritenesse sussistente la sua legittimazione, si determinerebbe una confliggente sovrapposizione dei suoi interessi personali con quelli della procedura” (Cass. Sez. 5^ n. 13800/21 ord.). Attraverso quello che non sembra potersi definire tanto un conclamato contrasto di indirizzi, quanto un percorso di progressiva definizione della fattispecie legittimante dell’inerzia mediante l’introduzione in essa di un quid pluris, si assiste in tal modo – nel panorama giurisprudenziale – al passaggio, non del tutto avvertito, da una nozione di inerzia semplice o essenziale ad una nozione di inerzia consapevole o qualificata o vestita che dir si voglia. La prima libera la capacità sostitutiva del fallito, la seconda la preclude.

Varie sono le conseguenze pratiche sortite sul processo a seconda dell’opzione prescelta, posto che mentre la tesi dell’inerzia semplice esonera il fallito che agisce dall’onere di allegare qualcosa di più e di diverso dal solo fatto oggettivo della inattività del curatore comunque determinatasi, la tesi dell’inerzia qualificata ostativa presuppone l’assenza di una valutazione negativa e ponderata di astensione da parte del curatore; il che suscita un accertamento fattuale, in sede di verifica preliminare dei presupposti processuali, la cui complessità e potenziale vaghezza possono risultare tanto maggiori quanto più si ammetta che questa valutazione negativa ponderata possa desumersi anche per implicito o per facta concludentia, cioè in assenza di un formale provvedimento del giudice delegato (del resto previsto dall’art. 25 n.6) l. fall. per stare in giudizio, non anche per non starci) che autorizzi il curatore all’astensione. Inoltre, come anche osservato dai giudici remittenti, se ci si muova dal presupposto che il curatore adempia con diligenza la pubblica funzione che gli è demandata e che, pertanto, valuti sempre attentamente il da farsi nel perseguimento dell’interesse dei creditori e, in generale, degli scopi della procedura concorsuale, l’esistenza di una scelta consapevole e responsabile di inazione sarebbe sempre sostenibile, fatta eccezione soltanto per le marginali situazioni di ignoranza del rapporto o del processo, ovvero nelle quali il curatore resti inattivo per mera negligenza o disavventura. Il pur naturale richiamo ad una fattispecie tipica di inerzia, quella di trascurato esercizio del diritto o dell’azione ex art. 2900 cod.civ., non apporta un contributo decisivo all’interpretazione dell’art. 43 l. fall.

Con riguardo all’azione in parola, la giurisprudenza è costante nell’escludere l’inerzia ogniqualvolta “il debitore abbia posto in essere comportamenti idonei e sufficienti a far ritenere utilmente espressa la sua volontà in ordine alla gestione del rapporto” (Cass. Sez. 2^ nn. 34940/22, 5805/12 ed altre), con ciò negandosi efficacia legittimante al contegno omissivo del debitore titolare del diritto non coltivato, quando questo mancato esercizio derivi appunto non da trascuratezza e disinteresse, ma da una precisa e deliberata opzione gestoria, risultante anche da comportamenti concludenti, di non-esercizio. E tuttavia, la fattispecie qui in esame (impugnativa di un atto impositivo dell’erario) si pone su un piano del tutto differente, sia da quello strettamente patrimoniale-privatistico intercorrente tra debitore e creditore (posto che il fallito che agisce sostitutivamente non è creditore del curatore inerte), sia da quello dell’esercizio processuale eccezionalmente surrogatorio di un diritto altrui (dal momento che il rapporto tributario non trapassa in capo al curatore, ma resta del fallito il quale, agendo, fa valere un diritto di cui ha mantenuto la titolarità). Neppure sembra che sulla soluzione del problema possa interferire la regola di automatica interruzione del processo per effetto dell’apertura del fallimento (art. 43, co. 3^, come introdotto dalla legge n. 5 del 2006). Non solo perché questa disposizione non può che riguardare i soli processi pendenti al momento della sentenza dichiarativa, ma anche perché una cosa è prevedere l’interruzione automatica del processo, e tutt’altra è stabilire se ed a quali condizioni tra i soggetti abilitati a riassumerlo vi possa essere, oltre al curatore, anche il fallito. Il che ci riporta esattamente al cuore della questione. § 2.3 La giurisprudenza della Sezione Tributaria di questa Corte è costante nell’affermare che l’avviso di accertamento per debiti fiscali i cui presupposti si siano determinati prima della dichiarazione di fallimento va notificato, non solo al curatore, ma anche al contribuente dichiarato fallito; si precisa anzi che, nei confronti di quest’ultimo, l’avviso non diventa definitivo fino ad avvenuta notifica, tanto che se ne ammette l’impugnabilità da parte del fallito, ex artt.19 e 21 d.lgs. 546/92, con decorrenza del relativo termine appunto dalla presa di conoscenza, quand’anche questo stesso termine risulti già decorso in capo al curatore: v. Cass. Sez.5^ nn. 5392/16; 8132/18 cit.; 2910/09; 29642/08; 16816/14 ed altre.

Ha osservato Cass. Sez.5^ n. 34529/21 cit. che: “in linea di principio, il fallito conserva la qualità di soggetto passivo del rapporto tributario, pur essendo condizionata la sua impugnazione all’inerzia della curatela, sicché, in caso di omessa notifica allo stesso dell’avviso di accertamento per debiti tributari anteriori alla dichiarazione di fallimento, la pretesa tributaria è inefficace nei suoi confronti e l’atto impositivo non diventa definitivo, tenuto conto che, peraltro, costui non è parte necessaria del giudizio d’impugnazione instaurato dal curatore”, ciò in accordo con: Cass., Sez. 5^ n. 5671/06; Cass., Sez. 5^, n. 6393/06; Cass., Sez. 5^. n. 9434/14; Cass., Sez. 5^ n. 5392/16 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 8132/18 cit.; Cass., Sez. 5^ n. 3393/20; Cass., Sez. 6^- 5^, n. 4105/20; Cass., Sez. 6^ – 5^ n. 9953/21; Cass. Sez.6^-5^ n. 28973/21, ord.

Si è anche precisato che il curatore non è semplicemente gravato da un onere di informazione, ma senz’altro obbligato a portare l’avviso di accertamento a conoscenza del fallito (Cass. Sez.1^ n. 3667/97).

Viene fatta salva solo l’ipotesi – perché antitetica ed incompatibile con quella dell’inerzia – in cui il curatore impugni egli stesso l’atto impositivo, posto che in questa evenienza deve trovare normale vigore la regola generale ed invalicabile di cui all’art. 43 l. fall. per la quale in caso di fallimento sta in giudizio il curatore, tanto da non constare “alcun residuo interesse del fallito a dolersi dell’omessa notifica dell’avviso di accertamento al fine di contestarlo” (Cass. Sez.5^ n. 26506/21).

Orbene, questo consolidato indirizzo, volto a garantire che il contribuente dichiarato fallito sia posto a conoscenza – non per generica informativa ma in funzione specifica della sua impugnazione in caso di inerzia del curatore – della pretesa erariale nei suoi confronti (indipendentemente dal fatto che quest’ultima esprima una volontà di prelievo piuttosto che un diniego di rimborso) si fa carico della specialità dell’obbligazione tributaria e della peculiarità del rapporto giuridico d’imposta in quanto modellato su uno statuto suo proprio, non riscontrabile nelle altre obbligazioni e negli altri rapporti di diritto privato attratti al concorso.

E questa specialità non può non influire – nel senso della necessità e sufficienza dell’inerzia che abbiamo definito ‘semplice’ – sulla soluzione del problema posto dall’ordinanza di rimessione.

Si tratta di una specialità che trova radice nel carattere pubblicistico-costituzionale, imperativo, indisponibile dell’obbligazione tributaria, la quale trova diretta matrice nella legge secondo parametri solidaristici di capacità contributiva (artt.23 e 53 Cost.). Il che si riflette, tra il resto, sulle modalità di accertamento dell’obbligazione tributaria (demandata ad un giudice diverso da quello ordinario) e di sua attuazione in caso di inadempimento (attraverso un regime di riscossione che si discosta da quello ordinario dell’espropriazione forzata), sicchè non è possibile una piena equiparazione tra l’inadempimento delle obbligazioni di diritto privato e quello delle obbligazioni tributarie, “oggetto, per la particolarità dei presupposti e dei fini, di disciplina diversa da quella civilistica” (C.Cost. sent. nn. 157/1996, 291/1997, 90/2018). Nell’applicazione dell’art. 6 CEDU anche la Corte di Strasburgo (già con la decisione Ferrazzini c/Italia 12.7.2001 C- 44759/98) ha rimarcato il fatto che “la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché resta predominante la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività”, con ciò ponendo anch’essa il fulcro dell’obbligo tributario in una relazione coattiva che si articola su un tipico binomio non paritetico ma di potestà-soggezione. Come si è anticipato, la peculiarità dell’obbligazione tributaria emerge non solo sul piano della disciplina sostanziale, nella quale l’applicazione delle previsioni del codice civile può avvenire solo in mancanza di prescrizioni tributarie specifiche e con i limiti generali di compatibilità ed analogia, ma anche su quello dell’accertamento giurisdizionale. Accertamento che, sottratto alla vis attractiva del foro fallimentare, è demandato in via esclusiva al giudice tributario, tanto che il credito dall’ente impositore insinuato al passivo fallimentare sulla base di un avviso non definitivo – se contestato – deve essere ammesso dal giudice delegato con riserva fin visto l’esito del contenzioso tributario (da ultimo, Cass. Sez. 1^ n. 37006/22); ma appunto perché credito demandato alla verifica di un giudice diverso da quello fallimentare, una volta che il credito impositivo sia divenuto definitivo per mancata impugnazione dell’avviso da parte della curatela e così ammesso al concorso, nessun altro margine di contestazione potrebbe residuare in capo al contribuente fallito (non legittimato ad impugnare i crediti ammessi ex art.98 l. fall.), neppure entro i ristrettissimi ambiti del contraddittorio facoltativo in sede di verifica dei crediti ex art. 95, pen.co., l. fall.. E la definitività dell’atto impositivo non impugnato nel termine decadenziale produrrebbe tutti i suoi effetti, nei confronti del debitore, anche dopo la chiusura del fallimento. Tutti questi aspetti, unitariamente riconducibili al carattere pubblicistico dell’obbligazione tributaria, danno ragione del fatto che il rapporto giuridico d’imposta basato su presupposti antecedenti alla sentenza dichiarativa – fermi gli obblighi formali e dichiarativi gravanti sul curatore – permane in capo al debitore anche in costanza della procedura fallimentare e pur dopo la sua chiusura, potendo esso condizionare (a seconda dell’esistenza ed entità dell’esposizione debitoria tributaria e di tutte le circostanze che la caratterizzano) il futuro rapporto con l’Amministrazione Finanziaria quanto, ad esempio, a valutazione della personalità del contribuente ed a sua affidabilità fiscale complessiva ex art.7 d.lgs 472/97, così come ad an e quantum delle sanzioni pecuniarie amministrative applicabili. E, più in generale, il concreto atteggiarsi del rapporto giuridico d’imposta inadempiuto può sortire effetto sulle stesse prospettive di esdebitazione ex art. 142 l. fall. (disposizione che, al pari dell’art.278 u. co. CCII, espressamente esclude da essa le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario non accessorie a debiti estinti) e di ripresa una volta che il debitore sia tornato in bonis. E proprio l’aspetto sanzionatorio rende particolarmente eclatante il divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto comune e, con ciò, la diversa intensità delle ragioni di difesa che vanno riconosciute al debitore-contribuente anche se in stato di fallimento. Nel caso in cui l’inadempimento tributario possa correlarsi – in tema di imposte sui redditi e di Iva – ad un reato ai sensi del d.lgs. 74/2000, il fallito deve essere posto in grado di impugnare l’atto impositivo quali che siano le ragioni che hanno indotto il curatore a non farlo. Se è vero che è ormai da tempo estraneo all’Ordinamento ogni meccanismo di pregiudizialità tributaria (definitivamente espunto con la legge n.516/82), vigendo oggi l’opposto principio di autonomia e separatezza (sostanziale e processuale) degli accertamenti giurisdizionali rispettivamente demandati al giudice tributario ed al giudice penale (finanche con possibilità di diverse quantificazioni del credito erariale), resta tuttavia indubitabile l’influenza che l’accertamento in sede amministrativa-tributaria può sortire sull’indagine penale, sia nel convalidare o meno la notitia criminis in presenza di ritenuto superamento delle soglie legali di punibilità, sia nel costituire quest’ultimo accertamento un elemento, non vincolante, ma comunque probatoriamente utilizzabile dalle parti e dal giudice nel procedimento penale che ne sia scaturito. Con ciò riscontrandosi una logica di tutela non distante da quella accordata al fallito dallo stesso art. 43 l.fall. con riguardo ai giudizi dai quali possa dipendere una sua imputazione per bancarotta.

Altrettanto però è a dirsi nel caso in cui l’inadempimento tributario sia presidiato dall’applicazione di sanzioni pecuniarie di natura non penale ma amministrativa, dovendosi in proposito considerare la transizione impressa in materia dal d.lgs.472/97 (di adeguamento dell’ambito tributario ai principi generali di cui alla legge 689/81), con passaggio da una concezione patrimoniale-risarcitoria della sanzione (già propria della legge n. 4 del 1929), ad una di natura più marcatamente personale-afflittiva. Da qui il richiamo di legge ad istituti tipici del regime penale, quanto a principio di legalità e favor rei, ad imputabilità e colpevolezza, a cause di non punibilità, a continuazione, a recidiva, a concorso soggettivo nell’illecito, a non trasmissibilità agli eredi. Non è questa la sede per rievocare l’articolato dibattito ed il fitto dialogo tra le Corti che, a vari fini ma in particolare nell’esaminare la compatibilità di un regime di ‘doppio binario’ con il divieto di bis in idem di cui al diritto europeo (sia ex art.4 Prot.7 CEDU, sia ex art. 50 Carta di Nizza), ha affrontato il problema della natura della disciplina sanzionatoria interna in materia tributaria per quanto concerne le sovrattasse e le maggiorazioni d’imposta: se amministrativa ovvero ‘sostanzialmente penale’ secondo i noti criteri Engel elaborati dalla CEDU. Ai presenti fini si ritiene sufficiente ricordare quanto recentemente osservato – seppure in diverso contesto – da questa Corte in ordine al fatto che il vigente apparato sanzionatorio tributario, proprio per il recepimento di quegli istituti e di quei principi, risponda in ogni caso ad ‘uno stampo di tipo penalistico’ (v. Cass. SSUU civ. n. 13145/22). E questa sola considerazione, unita alla certa finalità afflittivo deterrente delle sanzioni in esame indipendentemente dalla natura giuridica sostanziale che si voglia in esse riconoscere, induce – anche ed in primo luogo sulla scorta di un’interpretazione dell’art. 43 l. fall. costituzionalmente orientata ex art.24 Cost. – ad ammettere il contribuente fallito ad impugnare ‘in proprio’ l’atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non provveda, per qualsiasi ragione, il curatore. Già Cass.Sez.5^ n. 2910/09, nel richiamare l’indirizzo interpretativo della legittimazione eccezionale del fallito per il solo fatto dell’inerzia del curatore, ebbe, in motivazione, ad osservare quanto segue: “Secondo i giudici di appello gli odierni ricorrenti non avrebbero recuperato la capacità processuale perché mancherebbe il presupposto della inerzia del curatore, il quale invece, nella specie si era attivato, benché senza successo, per contrastare la pretesa erariale. Ritiene il collegio che tale assunto non sia condivisibile, perché nei fatti gli odierni ricorrenti non hanno potuto agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e nessuno lo ha fatto in loro vece. Per cui, l’interpretazione recepita dalla CTR, ove mai fosse corretta, sarebbe certamente in contrasto con il dettato costituzionale, laddove all’art. 24, viene garantito ‘a tutto tondo’ il diritto di difesa”; si aggiunge poi che: “È evidente che la decisione del giudice delegato sulla opportunità di autorizzare l’azione nei confronti del fisco (la cui motivazione, nella specie, non è nota) è basata su considerazioni che possono anche prescindere dai profili che riguardano personalmente il fallito (che non sono soltanto quelle previste dall’art. 43, comma 2, della risalente L. Fall.) e, quindi, non è un filtro che può garantire, in linea di principio, il completo esercizio del diritto di difesa”.

Non sfugge, sul piano pratico, che l’opposta soluzione (quella che subordina l’impugnazione del fallito all’assenza di un’inerzia qualificata, perché consapevole e deliberata) finirebbe con il creare anche un disequilibrio eccessivo in tutti quei casi in cui l’inerzia del curatore non si giustifica tanto con un convincimento di effettiva e vagliata infondatezza, in fatto o diritto, della contestazione della pretesa tributaria, quanto in una prognosi economica del tutto contingente di sua certa o verosimile incapienza (tenuto conto dei privilegi di legge de cui è assistita) in sede di riparto. In modo tale che oggettivamente non convenga impegnare la massa nei costi, nei tempi e nell’alea di un contenzioso extra moenia sostanzialmente ininfluente per le sorti della procedura. Né il sacrificio del diritto di difesa del contribuente fallito potrebbe trovare bilanciamento e giustificazione nell’esigenza di apprestare preminente protezione ai creditori concorrenti per il caso di esito infausto del giudizio, posto che il giudicato sfavorevole in ipotesi formatosi sull’impugnazione proposta dal fallito non sarebbe ad essi opponibile, fermo restando il vantaggio di un giudicato favorevole di annullamento totale o parziale dell’atto impositivo. Ricorre sul punto quanto stabilito da Cass. Sez. 1^, n. 12854/18, secondo cui: “il contribuente fallito conserva eccezionalmente la legittimazione a impugnare l’ accertamento tributario o a coltivare l’ impugnazione in precedenza proposta nell’ inerzia degli organi fallimentari; sicché il permanere di questa legittimazione, operante sotto il controllo del curatore secondo una logica di interesse della massa dei creditori, fa sì che quest’ ultimo, al fine di salvaguardare il medesimo interesse collettivo, possa avvalersi dell’ esito favorevole dell’ azione promossa dal solo contribuente fallito, eccependo il relativo giudicato, onde limitare nel quantum la pretesa del concessionario insinuatosi al passivo per il recupero dell’ intero credito tributario contestato. Pertanto, ove il curatore manifesti il suo interesse a estendere al fallimento l’operatività del giudicato favorevole ottenuto dal fallito a seguito della sua iniziativa individuale, il giudice del merito dovrà ammettere al passivo il credito tributario nei limiti della minor somma acclarata in via definitiva in sede contenziosa ovvero, in caso di mancata formazione del giudicato, ammettere l’ intera somma con riserva, da sciogliere poi all’ esito della lite”. In definitiva, lo stesso obiettivo del consolidato indirizzo di legittimità, su ricordato, circa la necessaria notificazione dell’avviso (anche) al contribuente fallito, in modo tale da porre quest’ultimo in condizione di impugnarlo, verrebbe non poco svilito se tale impugnazione venisse poi impedita da una diversa ed acquiescente valutazione degli organi della procedura; e ciò, lo si è visto, senza che una simile compressione del diritto di difesa trovi ragionevole compensazione nell’interesse del concorso. § 2.4 Quanto al regime di rilevabilità del difetto di capacità processuale del fallito – questione pure posta dall’ordinanza di rimessione – si riscontrano nella giurisprudenza di legittimità (come anche in dottrina) non convergenti orientamenti. In base ad un primo indirizzo, si verterebbe di un difetto di legittimazione non assoluto ma relativo, in modo tale che esso potrebbe essere rilevato solo su eccezione della curatela nell’interesse della massa dei creditori, dunque non dalla controparte né tantomeno dal giudice d’ufficio. Alla radice di questo convincimento vi è un allineamento del dato processuale a quello sostanziale, nel senso che così come il fallito – che resta titolare del rapporto giuridico e del patrimonio affidato ex art. 31 l. fall. alla disponibilità ed all’amministrazione del curatore – può porre validamente in essere atti negoziali e pagamenti anche successivamente alla dichiarazione di fallimento, ferma restando la loro inefficacia-inopponibilità rispetto ai creditori (art. 44 l. fall.), altrettanto dovrebbe dirsi con riguardo all’attività processuale, la quale sarebbe validamente compiuta, pur in difetto dei requisiti di legittimazione di cui all’articolo 43 l. fall., fino a che il curatore, ritenendone inopportuna l’acquisizione alla massa, questo difetto non eccepisca (v. Cass. Sez. 6^-5^ n. 27277/16 con richiami). In ragione di un secondo indirizzo, trattandosi di questione che non attiene alla titolarità del diritto ma ad una carenza di capacità o legittimazione attinente ai presupposti processuali ed il cui verificarsi è subordinato alla attivazione del curatore, il relativo vizio avrebbe invece carattere assoluto, così da poter e dover essere rilevato anche d’ufficio dal giudice ogniqualvolta emerga dagli atti di causa l’interesse della curatela per il rapporto dedotto in lite. In presenza di questo palesato interesse (vale a dire, del difetto di un’inerzia obiettivamente intesa) il rapporto litigioso deve ritenersi ex lege acquisito al fallimento, così da rendere “inconcepibile una sovrapposizione di ruoli fra fallimento e fallito” (Cass. Sez. 2^ n. 31313/18 con richiami) ed il difetto di capacità processuale di quest’ultimo non rientra più nella sola disponibilità del curatore, assumendo piuttosto uno spessore ordinamentale, cioè assoluto (Cass. Sez.5^, n. 21765/15 ed altre). Tanto più alla luce della soluzione che si è indicata in ordine al presupposto della legittimazione sostitutiva del fallito in ambito tributario (inerzia semplice), si ritiene che debba essere preferita questa seconda interpretazione, del resto già argomentabile da Cass. SSUU n. 27346/09, secondo cui: “in seguito all’apertura della procedura, in relazione ai rapporti patrimoniali in essa compresi, sussiste una legittimazione processuale del fallito e dei soggetti sottoposti a liquidazione coatta amministrativa suppletiva, in deroga alla legittimazione esclusiva degli organi della procedura, in relazione a detti rapporti, nel solo caso d’inattività e disinteresse di questi, mentre ove riguardo al rapporto in questione essi si siano attivati, detta legittimazione suppletiva non sussiste e la sua carenza può essere rilevata d’ufficio”.

Dunque, il solo fatto che il curatore si sia attivato in sede giurisdizionale in relazione al medesimo rapporto patrimoniale dedotto in giudizio dal fallito – sia nel medesimo processo da quest’ultimo intentato, sia in altro separato processo di cui si abbia contezza – denota l’interesse del medesimo per la lite e, con ciò, l’apprensione del rapporto stesso al concorso; il che integra appunto, con il difetto di inerzia e dismissione, il presupposto della regola generale di cui all’articolo 43 l. fall., in base alla quale per questo genere di rapporti “sta in giudizio il curatore” e non altri.

La soluzione non muta – ed anzi, trova in ciò ulteriore conforto di sistema – qualora il giudizio sia stato validamente ed efficacemente intrapreso dal debitore prima della dichiarazione di fallimento, posto che in tal caso il regime previsto dal terzo comma dell’articolo 43 l. fall. impone, come già osservato, l’interruzione automatica e d’ufficio del processo ogniqualvolta si abbia notizia della sentenza dichiarativa, e ciò proprio per la sopravvenuta perdita della capacità processuale della parte dichiarata insolvente;

il che dà modo al curatore di valutare l’interesse della massa ad eventualmente riassumere e coltivare il giudizio interrotto, e fermo restando che anche in questo caso – ed alla stessa maniera – in presenza di attivazione della curatela, l’incapacità del fallito a proseguire il giudizio non potrà che essere rilevata d’ufficio.

La conclusione qui accolta – che si affranca dalle criticità derivanti da un troppo stretto parallelismo tra piano sostanziale e piano processuale e, in particolare, dall’estensione a quest’ultimo del regime di inefficacia proprio essenzialmente degli atti negoziali e dei pagamenti ex art. 44 cit. – tanto più si avvalora in ragione delle peculiarità del rapporto tributario e delle modalità del suo accertamento giurisdizionale.

Ciò perché sono evidenziabili nella disciplina processuale di cui al d.lgs. 546/92 tanto un tassativo ed rilievo ufficioso della legittimazione e della capacità di stare in giudizio delle parti del rapporto tributario (artt. 10 segg.), quanto una regola di unitarietà decisionale e di necessaria concentrazione soggettiva ed oggettiva di tutti i procedimenti aventi ad oggetto il medesimo atto impositivo (v. artt. 14 e 29), così da quantomeno sollecitare e favorire l’emersione di quel requisito di interesse mediante attivazione giurisdizionale della curatela che si è detto essere alla base della rilevabilità d’ufficio del difetto di capacità del contribuente fallito.

§ 2.5 Vanno allora affermati i seguenti principi di diritto: – in caso di rapporto d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l’atto impositivo lo può impugnare, ex art. 43 l. fall., in caso di astensione del curatore dalla impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato;

– l’insussistenza di uno stato di inerzia del curatore, così inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Regionale ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto, già dichiarato fallito in proprio, ravvisando il suo difetto di legittimazione in conseguenza della mancata inerzia della curatela, la quale aveva rinunciato ad impugnare gli avvisi di accertamento all’esito di specifiche valutazioni fatte di concerto con il giudice delegato.

Questa ratio decidendi, adeguatamente censurata ex art.360, co. 1^ n.3, cod.proc.civ. con l’unico motivo di ricorso, si pone effettivamente in contrasto con quanto appena stabilito, ed ha portato a dichiarare inammissibile un ricorso che invece tale non era.

Ne segue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Campania la quale, in diversa composizione, esaminerà nel merito la fattispecie, decidendo U anche sulle spese del presente procedimento.

P.Q.M.

 La Corte accoglie il ricorso;

cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Campania in diversa composizione.

Così deciso nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili in data 7 marzo 2023

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