CASSAZIONE

Se c’è l’illecito anche gli eventuali proventi sono soggetti a tassazione

Imposte sui redditi – Omessa dichiarazione – Finanziamento illecito – Incidenza fiscale del vantaggio patrimoniale – Avviso di accertamento – Fallimento società – Socio/amministratore – Condanna perbancarotta patrimoniale per distrazione – Art. 6, primo comma, del d.P.R. n. 917/1986 – Postergazione 

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28629 del 18 ottobre 2021, occupandosi di imposte sui redditi e in particolare di proventi che provengono da fatti illeciti, ha ricordato che la ripresa a tassazione è legittima anche nel caso specifico che vede l’ex socio-amministratore restituirsi illecitamente un finanziamento che, in violazione del principio di postergazione, aveva comportato la condanna per il reato di bancarotta, affermando il seguente principio di diritto: “… In tema di imposte sui redditi, costituiscono proventi derivanti da fatti illeciti, da sottoporre a tassazione anche allorquando non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 1, anche i vantaggi patrimoniali conseguenti all’avere evitato un danno”.

Seguendo un preciso orientamento della Corte di legittimità, gli Ermellini hanno ritenuto che il presupposto dell’imposizione è soltanto il possesso di un reddito, indipendentemente dalla sua provenienza, statuendo quindi che i proventi illeciti, in qualsiasi forma percepiti, devono essere assoggettati a tassazione anche quando risultino effettuati per aver evitato un danno patrimoniale.  

Il comma 141 della legge di stabilità 2016 (L. n. 208/2015) ha integrato l’art. 14 della legge 537/1993, che assoggetta a tassazione i proventi illeciti non sottoposti a confisca o sequestro: in caso di violazione che comporti obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. con possibile provento o vantaggio illecito, le autorità inquirenti devono darne immediata notizia all’Agenzia delle entrate ai fini di accertamento tributario. In altre parole, tutte le attività illecite devono essere perseguite, non solo penalmente, ma anche fiscalmente con la tassazione dei relativi proventi e, quindi, per effetto del citato art. 14, c. 4 della legge 537/1993, i Giudici ora ricordano anche che: “Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale”.

In buona sostanza gli Ermellini hanno considerato che le attività illecite si configurano come attività contrarie all’ordinamento giuridico che si svolgono in violazione di un dovere o di un diritto istituito da una norma giuridica, e hanno conseguentemente condiviso il principio giurisprudenziale  che ritiene i proventi derivanti da fatti illeciti da sottoporre a tassazione anche quando non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, primo comma, del DPR 917/1986. Il pretium sceleris si deve quindi sempre considerare come reddito imponibile, e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento dei danni cagionati.  

Peraltro la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27357 del 24 ottobre 2019, aveva ben chiarito alcuni rilevanti profili in tema di tassazione dei proventi illeciti, argomentando fra l’altro che questi, anche laddove non rientrino nelle categorie previste dall’art. 6 del TUIR, comma 1, devono essere sottoposti a tassazione e che il provento illecito conseguente alla commissione di un reato non va inteso in senso solo positivo (incremento patrimoniale), ma anche in senso negativo (perdita evitata).

In senso più generale si sottolinea che quando il dibattito sull’introduzione della norma di cui alla legge 537/1993 venne introdotta, la dottrina, per parte sua, affrontò l’argomento basandosi su due distinte posizioni. L’una, per così dire, a carattere “giuridico”, contraria all’imponibilità dei proventi illeciti e l’altra, per così dire, a carattere “economico”, tendente invece ad ammetterla.

Secondo la prima tesi, i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non erano suscettibili di imposizione tributaria, dato che l’attività illecita non poteva essere considerata presupposto d’imposta, costituendo il risultato ottenuto pretium sceleris e non reddito tecnicamente e giuridicamente inteso; diversamente, secondo tale tesi, si sarebbe pervenuti alla conseguenza di chiedere all’autore dell’illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo in sostanza con l’autodenunciarsi (in aperta violazione del noto principio nemo tenetur se detegere).

A sostegno, invece, della tesi della tassabilità poi prevalsa, restava la considerazione che il presupposto dell’imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta “economica”), indipendentemente dalla sua provenienza. In parole più semplici, chi trae proventi dall’attività illecita realizza, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo: per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento, dunque, non vige alcuna immunità fiscale. In base all’articolo 53 della Costituzione, del resto, ciascuno deve contribuire alle spese pubbliche. E vi deve dunque contribuire (a maggior ragione) anche chi delinque, o comunque ottiene proventi da attività illecite. Invero, si tratta di un’impostazione coerente rispetto alla conclusione cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità, secondo cui i costi sono connessi ad attività penalmente rilevanti poiché sorti in un contesto antigiuridico del tutto estraneo alla normale conduzione delle attività aziendali. Più precisamente, “… in questi casi manca il nesso d’inerenza, atteso che la spesa non nasce più nell’impresa, ma in un atto o fatto antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale. La spesa non deriva, dunque, da un’attività connessa al corretto esercizio dell’impresa stessa e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo, trattandosi di condotta non soltanto autonoma ed esterna rispetto alla normale vita aziendale, ma antitetica rispetto al corretto svolgimento di tale attività” (Cass. n. 19702/2011, Cass. n. 23626/2011 e, Cass. n. 200524/2014). 

Appare infine utile rammentare che rientrano nel perimetro della postergazione tutti i crediti effettuati dai soci in qualsiasi forma, scaduti e non scaduti, mentre non vi rientra il credito del socio sorto prima che questo acquisisca tale qualità. I creditori postergati si considerano di pari grado, per la loro soddisfazione, a prescindere dalla data in cui sono sorti i relativi crediti. Si può allora richiamare l’arresto avvenuto con la  Sentenza n. 12994/2019, dove i Supremi Giudici si sono pronunciati sulla natura della postergazione dei finanziamenti prevista dall’art. 2467 c.c. nonché sulla natura dell’eccezione sulla sua applicabilità, affermando che: “ … La postergazione disposta dall’art. 2467 c.c. opera già durante la vita della società e non solo nel momento in cui si apra un concorso formale con gli altri creditori sociali, integrando una condizione di inesigibilità legale e temporanea del diritto del socio alla restituzione del finanziamento, sino a quando non sia superata la situazione prevista dalla norma. La società è tenuta a rifiutare al socio il rimborso del finanziamento, in presenza della situazione di difficoltà economico-finanziaria indicata dalla legge, ove sussistente sia al momento della concessione del finanziamento, sia al momento della richiesta di rimborso, che è compito dell’organo gestorio riscontrare mediante la previa adozione di un adeguato assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. In caso di azione giudiziale di restituzione proposta dal socio, il giudice del merito è chiamato a verificare se la situazione di crisi prevista dall’art. 2467 c.c. comma 2, sussista, oltre che al momento della concessione del finanziamento, altresì al momento della sua decisione. Lo stato di eccessivo squilibrio nell’indebitamento o di una situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, prevista dall’art. 2467 c.c. comma 2, è fatto impeditivo del diritto alla restituzione del finanziamento operato dal socio in favore della società, rilevabile dal giudice d’ufficio, in quanto oggetto di un’eccezione in senso lato, sempre che la situazione predetta risulti provata ex actis, secondo quanto dedotto e prodotto in giudizio”.

Tanto premesso e tornando al caso de quo, la vicenda ha inizio quando un’ex socio amministratore di una Srl veniva condannato per il reato di bancarotta avendo disposto il rimborso, nei suoi confronti, di un prestito effettuato alla società in violazione delle norme in materia di postergazione.

Attivato il giudizio tributario, per potersi opporre al conseguente avviso di accertamento proposto dall’Agenzia delle entrate, otteneva soddisfazione in entrambi i gradi di giudizio dove, peraltro, la CTR evidenziava che la somma in oggetto rappresentava il rimborso di un prestito effettuato alla società, poi fallita, e che la condanna penale era intervenuta in ragione dell’omessa postergazione della restituzione del finanziamento, non potendo detta restituzione integrare un provento illecitamente percepito in ragione del delitto commesso. L’Agenzia delle entrate non aveva condiviso questa interpretazione e si era rivolta alla Suprema Corte lamentando essenzialmente, nell’unico motivo di ricorso, che la CTR avrebbe erroneamente escluso dai proventi illeciti la somma che il contribuente aveva illegittimamente prelevato dalle casse della società fallita, così evitando una perdita. La decisione cui è giunta la Suprema Corte muove innanzitutto dalla considerazione, assai interessante, che la commissione del reato non va intesa solo in senso positivo, e dunque come incremento patrimoniale, ma anche in senso negativo, ovvero come perdita evitata.

Considerato che il credito indebitamente restituito andava postergato e che non è stata provata l’eventuale capienza dell’attivo fallimentare, la Corte ha ritenuto ragionevole ritenere che il danno evitato fosse pari all’intero ammontare del credito; sulla base del vantaggio patrimoniale così quantificato vanno calcolate le imposte conseguentemente dovute. 

In particolare la Suprema Corte sottolinea che: “… è noto che i proventi da attività illecita, anche laddove non rientrino nelle categorie previste dall’art. 6, comma 1, TUIR, devono essere sottoposti a tassazione (Cass. n. 31026 del 28/12/2017; Cass.n. 26440 del 19/10/2018); 2.2. orbene, è pacifico, in punto di fatto, che S. C., quale amministratore di M. s.r.l. è stato condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione in quanto, avendo finanziato la società fallita nella qualità di socio della stessa, ha provveduto al rimborso del proprio credito postergato in violazione della par condicio creditorum; un simile comportamento non è solo incauto, perché avrebbe condotto al fallimento della società, come sostenuto dalla CTR, ma è delittuoso e ha comportato indiscutibilmente un vantaggio patrimoniale per l’amministratore/creditore (qualità non scindibili: cfr. Cass. pen. n. 27132 del 13/08/2020), tale da integrare un provento tassabile; come correttamente sostenuto dall’Amministrazione finanziaria, infatti, il provento illecito conseguente alla commissione di un reato non va inteso in senso solo positivo (incremento patrimoniale), ma anche in senso negativo (perdita evitata); 2.5. nel caso di specie, l’amministratore non avrebbe potuto restituire (a se stesso) il finanziamento erogato come socio (tanto che S. C. è stato condannato per bancarotta), sicché sarà compito del giudice di merito quantificare l’incidenza fiscale del vantaggio patrimoniale conseguito dal contribuente con il suo comportamento illecito, anche in considerazione del fatto che, in assenza di prova della eventuale capienza dell’attivo fallimentare circa il credito indebitamente restituito (credito che andava all’evidenza postergato: cfr. Cass. n. 20649 del 31/07/2019), è ragionevole ritenere che il danno evitato da quest’ultimo sia pari al suo intero ammontare; va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: «In tema di imposte sui redditi, costituiscono proventi derivanti da fatti illeciti, da sottoporre a tassazione anche allorquando non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, primo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, anche i vantaggi patrimoniali conseguenti all’avere evitato un danno»”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 18 ottobre 2021, n. 28629

sul ricorso iscritto al n. 9303/2014 R.G. proposto da

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro C. S., elettivamente domiciliato in Roma, via Orestano n. 21, presso lo studio dell’avv. Fabio Pontesilli, rappresentato e difeso dall’avv. Giancarlo Zannier giusta procura speciale in calce al CO ntroricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia n. 104/11/13, depositata il 30 ottobre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 febbraio 2021 dal Consigliere Giacomo Maria Nonno.

RILEVATO CHE

1. con sentenza n. 104/11/13 del 30/10/2013 la Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia (di seguito CTR) respingeva l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Pordenone (di seguito CTP) n. 127/01/12, con la quale veniva accolto il ricorso di S. C. nei confronti di un avviso di accertamento per IRPEF, IRAP e IVA relative all’anno d’imposta 2006;

1.1. come si evince dalla sentenza della CTR, l’avviso di accertamento riguardava, tra l’altro, l’omessa dichiarazione della somma di euro 573.935,17 di cui il contribuente si sarebbe appropriato quale legale rappresentante di M. s.r.l., giusta sentenza penale di condanna per bancarotta;

1.2. nel rigettare l’appello dell’Amministrazione finanziaria, la CTR evidenziava, per quanto ancora interessa in questa sede, che la somma di euro 573.935,17 rappresentava il rimborso di un prestito effettuato alla menzionata società, poi fallita, e la condanna penale era intervenuta in ragione dell’omessa postergazione della restituzione del finanziamento, non potendo detta restituzione integrare un provento illecitamente percepito in ragione del delitto commesso;

2. avverso la sentenza della CTR l’Agenzia delle entrate proponeva ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo;

3. S. C. resisteva con controricorso.

CONSIDERATO CHE

1. con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 14, comma 4, della I. 24 dicembre 1993, n. 2, dell’art. 36 del d.l.. 4 luglio 2006, n. 223, conv. con modif. nella L. 4 agosto 2006, n. 248, e degli artt. 6 e 67 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi – TUIR), evidenziando che la CTR avrebbe erroneamente escluso dai proventi illeciti la somma che il contribuente ha illegittimamente prelevato dalle casse della società fallita, così evitando una perdita;

2. il motivo è fondato;

2.1. è noto che i proventi da attività illecita, anche laddove non rientrino nelle categorie previste dall’art. 6, comma 1, TUIR, devono essere sottoposti a tassazione (Cass. n. 31026 del 28/12/2017; Cass.n. 26440 del 19/10/2018);

2.2. orbene, è pacifico, in punto di fatto, che S. C., quale amministratore di M. s.r.l. è stato condannato per bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione in quanto, avendo finanziato la società fallita nella qualità di socio della stessa, ha provveduto al rimborso del proprio credito postergato in violazione della par condicio creditorum;

2.3. un simile comportamento non è solo incauto, perché avrebbe condotto al fallimento della società, come sostenuto dalla CTR, ma è delittuoso e ha comportato indiscutibilmente un vantaggio patrimoniale per l’amministratore/creditore (qualità non scindibili: cfr. Cass. pen. n. 27132 del 13/08/2020), tale da integrare un provento tassabile;

2.4. come correttamente sostenuto dall’Amministrazione finanziaria, infatti, il provento illecito conseguente alla commissione di un reato non va inteso in senso solo positivo (incremento patrimoniale), ma anche in senso negativo (perdita evitata); 2.5. nel caso di specie, l’amministratore non avrebbe potuto restituire (a se stesso) il finanziamento erogato come socio (tanto che S. C. è stato condannato per bancarotta), sicché sarà compito del giudice di merito quantificare l’incidenza fiscale del vantaggio patrimoniale conseguito dal contribuente con il suo comportamento illecito, anche in considerazione del fatto che, in assenza di prova della eventuale capienza dell’attivo fallimentare circa il credito indebitamente restituito (credito che andava all’evidenza postergato: cfr. Cass. n. 20649 del 31/07/2019), è ragionevole ritenere che il danno evitato da quest’ultimo sia pari al suo intero ammontare;

2.5. va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: «In tema di imposte sui redditi, costituiscono proventi derivanti da fatti illeciti, da sottoporre a tassazione anche allorquando non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, primo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, anche i vantaggi patrimoniali conseguenti all’avere evitato un danno»;

3. in conclusione, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla CTR del Friuli Venezia Giulia per nuovo esame e per le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia anche per le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma il 10 febbraio 2021.

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