CASSAZIONE

Professionista di studio associato: i compensi di revisore sono soggetti a IRAP soprattutto se lo prevede lo statuto

Tributi – IRAP – Professionista di studio associato – Compensi per attività di sindaco e revisore – Attività esercitata in forma individuale – Onere della prova della mancanza di autonoma organizzazione – Sussistenza ed oggetto – Fattispecie

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9597 del 25 maggio 2020, tornando a occuparsi dei presupposti per l’applicazione dell’IRAP ha stabilito che i compensi per l’incarico di amministratore o sindaco di società del professionista associato a uno studio sono imponibili IRAP in quanto imputabili all’associazione, a maggior ragione, poi, se tale situazione è anche prevista nello statuto della stessa. Di conseguenza, non è possibile procedere al riconoscimento automatico del rimborso IRAP per le attività di revisore e sindaco del professionista dello studio associato.  Il contribuente, in ogni caso, può sempre fornire la prova contraria, dimostrando non solo di aver svolto determinate attività in maniera individuale, ma anche senza aver fruito dei benefici organizzativi derivanti dalla sua partecipazione allo studio associato. In caso contrario verrebbe certamente meno il presupposto stesso dell’imposta.

Al riguardo, anche recentemente, i Giudici di legittimità avevano affermato, con la sentenza n. 766/2019, un importante principio nel quale si dichiarava che “ … In tema di IRAP, il professionista (nella specie, commercialista) il quale sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella espletata in forma associata, ha l’onere di dimostrare, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’imposta, la mancanza di autonoma organizzazione, ossia di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività – materiali e professionali – da parte di colleghi di studio, l’utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l’utilizzazione di servizi collettivi e quant’altro caratterizzi l’attività svolta in associazione professionale.

Il presupposto dell’IRAP così definito è quindi quell’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi. La nozione di autonoma organizzazione è stata di frequente oggetto di controversie fra l’Erario e i professionisti e sul relativo obbligo al versamento dell’imposta, dove però l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, con molte e significative pronunce, ha cercato di portare luce sui diversi ambiti di applicazione.

I presupposti applicativi dell’IRAP sono peraltro definiti dal D.lgs. n. 466/1997, (art. 2, c. 1), nel quale si afferma che il presupposto dell’imposta consiste nell’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni o alla prestazione di servizi: l’attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le Amministrazioni dello Stato, costituisce in ogni caso presupposto per l’imposta. Un’attività che deve essere organizzata, situazione che si presenta tutte le volte che per lo svolgimento della stessa il titolare si avvale di beni strumentali ulteriori o in più, rispetto a quelli indispensabili per l’esercizio dell’attività stessa, come anche dell’utilizzo del lavoro altrui, e non necessariamente di lavoro dipendente.

Pertanto, a differenza di altri tributi, il presupposto dell’imposta non è fondato su una capacità contributiva ma sulla semplice presenza di un’attività “autonomamente organizzata” diretta a produrre o scambiare beni, ovvero a produrre e prestare servizi, in modo abituale.

Ricordiamo, in proposito, anche quanto dichiarato dai Supremi Giudici con l’ordinanza n. 28302/2019, che hanno spiegato che in tutte le circostanze in cui ci si avvale della collaborazione di un altro professionista, pur senza formale rapporto associazione, ai fini IRAP si ravvisa una autonoma organizzazione e spetterà al giudice di merito accertare la sussistenza del presupposto impositivo.

La quantità del contenzioso riscontrato negli ultimi anni ha comunque generato un produttivo confronto fra le parti, dal quale in linea generale è scaturito un orientamento che ha tracciato in maniera netta la non assoggettabilità dell’imposta regionale ai lavoratori autonomi che esercitano la propria attività in assenza di capitali e lavoro altrui. 

Gli elementi fondamentali emersi negli innumerevoli interventi da parte dei Supremi Giudici, e in parte anche dalla stessa Amministrazione finanziaria, possono essere sinteticamente riassunti con due fattispecie dove può affermarsi l’ipotesi di non assoggettabilità all’imposta regionale.

Nel primo caso, quando l’autonoma organizzazione è riscontrabile quando un professionista si avvale non occasionalmente di lavoro di terzi o utilizzi beni strumentali eccedenti il minimo ritenuto indispensabile per l’esercizio dell’attività; nel secondo, invece, quando la mancanza di elementi di organizzazione è sufficientemente ravvisabile.

L’orientamento giuridico prevalente esclude dall’IRAP la quota di base imponibile che un lavoratore autonomo, esercente una professione intellettuale se conseguita senza avvalersi di un’autonoma organizzazione.

L’organizzazione allora evidentemente costituisce il requisito necessario per l’applicazione dell’IRAP e in applicazione di tale principio, è stato riconosciuto che i compensi derivanti dall’esercizio degli uffici di amministratore e sindaco di società non siano da assoggettare a IRAP solo quando tale attività viene svolta senza ricorrere a un’autonoma struttura organizzativa, come emerge dall’ Ordinanza (n. 12052/2018) in cui si afferma che: “ … il commercialista che svolge anche attività di sindaco e revisore di società, non è soggetto ad IRAP per il reddito netto di tali attività, in quanto soggetta ad imposizione è unicamente l’eccedenza dei compensi rispetto alla produttività auto-organizzata, fermo l’onere del contribuente di provare la separatezza dei redditi di cui predica lo scorporo”.

Come principio generale, dunque, la Corte di Cassazione non afferma che i redditi derivanti dall’attività di amministratore e sindaco siano automaticamente esclusi da IRAP, ma ne viene ammessa l’esclusione solo se vi è la concreta possibilità di scorporare i compensi derivanti da tali attività da quelli relativi alle altre attività svolte o se vi è la prova dell’espletamento di tali attività senza aver fatto ricorso a un’autonoma struttura organizzativa, magari presente, ma asservita alle sole altre attività professionali esercitate.

Ulteriore arresto in questo senso avviene con la pronunzia Cass. n. 30873/2019, che seguendo l’orientamento delle SS.UU. espresso con le sentenze n.7291 e n. 7371, entrambe del 2016, viene evidenziato che “… L’esercizio di arti e professioni in forma societaria, così come mediante associazioni senza personalità giuridica, costituisce “ex lege” presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive, senza che occorra accertare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione, questa essendo implicita nella forma di esercizio dell’attività, salva la facoltà del contribuente di dimostrare l’insussistenza dell’esercizio in forma associata dell’attività stessa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione della CTR che aveva erroneamente ritenuto sussistere, in maniera automatica, il diritto al rimborso IRAP dei compensi percepiti per lo svolgimento, da parte degli associati, dell’attività di componenti di collegi sindacali, senza considerare che la relativa istanza proveniva da uno studio associato”.

Tanto premesso, e tornando al caso de quo, esso trae origine dal contenzioso instaurato da un professionista associato in uno studio professionale avverso il diniego al rimborso dell’IRAP opposto dall’Agenzia delle Entrate. L’Ufficio non riteneva fondate le richieste e pertanto veniva instaurato un contenzioso.

Dai giudici tributari aditi, che accoglievano il ricorso presentato dal contribuente, emergeva l’orientamento con cui si affermava che non potessero essere assoggettati a IRAP i suindicati compensi percepiti da uno degli associati nell’associazione professionale, perché “riconducibili a reddito derivato in via esclusiva dall’attività del singolo professionista”.

L’Ufficio proponeva ricorso per Cassazione, affidato a un unico motivo, con il quale si confermava che i compensi in questione dovevano essere attribuiti allo studio associato, anche perché la CTR aveva omesso di considerare una specifica clausola statutaria che, appunto, prevedeva l’imputazione allo studio anche di tutti i ricavi provenienti da incarichi degli associati per sindaco, revisore o amministratore.

Gli Ermellini hanno riconosciuto la validità delle ragioni prospettate dall’Avvocatura Erariale, specificando anche che “… Questa Corte ha affermato che in materia di IRAP ricorrono ex se i presupposti per l’applicazione dell’IRAP in ipotesi di studio associato senza che occorra accertare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione, questa essendo implicita nella forma di esercizio dell’attività, salva la facoltà del contribuente di dimostrare l’insussistenza dell’esercizio in forma associata dell’attività stessa (ex multis n. 30873 del 26/11/2019). Ciò però a meno che non venga dimostrato che l’attività di sindaco e componente di organi di amministrazione e controllo di enti di un componente dello studio associato avvenga in modo individuale e separato con conseguente dimostrazione a carico del soggetto richiedente (Cass. n. 14077/2017, 14996/2017, 3790/2018).

È stato in proposito statuito che (Sez. 5 n. 766 del 15/01/2019) in tema di IRAP, il professionista il quale sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella espletata in forma associata, ha l’onere di dimostrare, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’imposta, la mancanza di autonoma organizzazione, ossia di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività – materiali e professionali – da parte di colleghi di studio, l’utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l’utilizzazione di servizi collettivi e quant’altro caratterizzi l’attività svolta in associazione professionale. In ogni caso l’onere della prova relativa alla modalità di conseguimento del reddito – volta a dimostrare che l’attività è stata espletata in modo individuale e senza fruire dei benefici organizzativi derivanti dall’adesione alla associazione – grava sul contribuente, in modo ancor più pregante in ipotesi, come quella in esame, di richiesta di rimborso.

Nella fattispecie la CTR non si è attenuta agli indicati principi, laddove ha riconosciuto il diritto al rimborso, senza tener conto della clausola espressamente prevista dallo statuto dell’associazione, e riportata dall’Agenzia delle entrate, che imputa all’associazione tutti i ricavi, anche quelli derivanti dagli incarichi di consigliere d’amministrazione di sindaco o revisore, conseguiti dai soci.

La CTR ha pertanto errato, incorrendo nel dedotto vizio, ritenendo attribuibili in via esclusiva al socio i redditi conseguiti in base alle fatture emesse per le attività di sindaco e revisore, elementi questi idonei solo a dimostrare i ricavi e la loro provenienza, ma non già a dimostrare la non riconducibilità all’associazione di tali redditi né il loro conseguimento senza fruire dei benefici organizzativi derivanti dall’appartenenza all’associazione professionale.

Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla CTR della Campania, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 25 maggio 2020, n. 9597

sul ricorso 34171-2018 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro STUDIO LEGALE TRIBUTARIO D.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASTIGLIONE 55, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO VOGLINO, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO BENINCASA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3741/14/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 17/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 30/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ENZA LA TORRE.

Ritenuto che

L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza  della CTR della Campania, meglio indicata in epigrafe, che, in controversia su impugnazione avverso distinti dinieghi di rimborso dell’IRAP per gli anni 2011, 2012 e 2013, ha rigettato l’appello dell’Ufficio, riconoscendo il diritto al rimborso del contribuente.

In particolare, la CTR ha ritenuto che “i compensi percepiti da C.D. – associato nell’associazione professionale Studio legale Tributario D. – per l’attività di sindaco e revisore espletata in favore della N.P. srl, dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, della Fondazione dell’Avvocatura Napoletana per l’Alta formazione Forense, non sono soggetti ad IRAP, giacché riconducibili a reddito derivato in via esclusiva dall’attività del singolo professionista.

Lo Studio si costituisce con controricorso.

Considerato che

Con l’unico motivo di ricorso l’Ufficio denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 comma 1, lett. c) e 8 co. 1, d. Igs. 446/1997, nonché art. 50, co. 1, lett. c-bis) d.P.R. 917/1986, ex art. 360 n. 3 c.p.c., per non avere la CTR ritenuto tutti i compensi percepiti dal contribuente quali redditi attribuibili in via esclusiva allo studio associato, soggetto come tale a IRAP, omettendo l’esame di una specifica clausola dell’atto costitutivo dell’associazione professionale (pag. 6 ricorso, doc. 1, atto costitutivo società, art. 6: “I ricavi correlati all’esercizio di attività professionali sia di natura giudiziale, sia stragiudiziale, sia di consulenza, sia di assistenza, saranno comunque imputati all’associazione […] All’associazione saranno altresì imputati gli eventuali proventi derivanti dagli incarichi di consigliere d’amministrazione, di sindaco o revisore di società e/o enti ricoperti dai singoli associati”).

Il motivo è fondato.

Questa Corte ha affermato che in materia di IRAP ricorrono ex se i presupposti per l’applicazione dell’IRAP in ipotesi di studio associato senza che occorra accertare in concreto la sussistenza di un’autonoma organizzazione, questa essendo implicita nella forma di esercizio dell’attività, salva la facoltà del contribuente di dimostrare l’insussistenza dell’esercizio in forma associata dell’attività stessa (ex multis n. 30873 del 26/11/2019).

Ciò però a meno che non venga dimostrato che l’attività di sindaco e componente di organi di amministrazione e controllo di enti di un componente dello studio associato avvenga in modo individuale e separato con conseguente dimostrazione a carico del soggetto richiedente (Cass. n. 14077/2017, 14996/2017, 3790/2018). È stato in proposito statuito che (Sez. 5 n. 766 del 15/01/2019) in tema di IRAP, il professionista il quale sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella espletata in forma associata, ha l’onere di dimostrare, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’imposta, la mancanza di autonoma organizzazione, ossia di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire agli aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta quali, ad esempio, le sostituzioni in attività – materiali e professionali – da parte di colleghi di studio, l’utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni, la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate, l’utilizzazione di servizi collettivi e quant’altro caratterizzi l’attività svolta in associazione professionale.

In ogni caso l’onere della prova relativa alla modalità di conseguimento del reddito – volta a dimostrare che l’attività è stata espletata in modo individuale e senza fruire dei benefici organizzativi derivanti dall’adesione alla associazione – grava sul contribuente, in modo ancor più pregante in ipotesi, come quella in esame, di richiesta di rimborso.

Nella fattispecie la CTR non si è attenuta agli indicati principi, laddove ha riconosciuto il diritto al rimborso, senza tener conto della clausola espressamente prevista dallo statuto dell’associazione, e riportata dall’Agenzia delle entrate, che imputa all’associazione tutti i ricavi, anche quelli derivanti dagli incarichi di consigliere d’amministrazione di sindaco o revisore, conseguiti dai soci.

La CTR ha pertanto errato, incorrendo nel dedotto vizio, ritenendo attribuibili in via esclusiva al socio i redditi conseguiti in base alle fatture emesse per le attività di sindaco e revisore, elementi questi idonei solo a dimostrare i ricavi e la loro provenienza, ma non già a dimostrare la non riconducibilità all’associazione di tali redditi né il loro conseguimento senza fruire dei benefici organizzativi derivanti dall’appartenenza all’associazione professionale.

Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla CTR della Campania, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Campania, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Roma, 30 gennaio 2020.

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