ECONOMIA FISCALITA

Operazione di fusione per incorporazione

Una società per azioni italiana, mediante un atto di fusione del 2015 con efficacia dal 2016, ha incorporato una società residente in Lussemburgo: l’operazione di fusione è stata realizzata in continuità giuridica ai sensi del D.L.vo 30 maggio 2008, n. 108, che ha recepito nell’ordinamento civilistico italiano i principi della direttiva 2005/56/CE. A seguito dell’operazione, le attività e passività della società estera sono confluite nel patrimonio della S.p.A.

Nel dettaglio, l’attivo della società lussemburghese è costituito da una stabile organizzazione ubicata in Lituania, rappresentata da un immobile concesso in locazione e da partecipazioni in diverse società europee ed extraeuropee proprietarie di cespiti immobiliari. Il passivo, invece, è rappresentato da debiti verso altre società del gruppo.

Con una istanza di interpello, la S.p.A. chiede se l’operazione descritta rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 166-bis del Testo unico delle imposte sui redditi, che stabilisce le modalità per attribuire il valore fiscale ai beni appartenenti ai soggetti che si trasferiscono nel territorio dello Stato.

In particolare, l’istanza è composta da tre quesiti:

1) se le società di capitali costituite in Stati membri dell’Unione Europea rientrino fra “i soggetti che esercitano imprese commerciali” cui fa riferimento, appunto, l’art. 166-bis del TUIR, indipendentemente dal tipo di attività esercitata;

2) se la disposizione in questione possa essere applicata al trasferimento in Italia della società estera, che ha la particolarità di realizzarsi tramite una fusione per incorporazione;

3) se la valorizzazione di cui al citato art. 166-bis risulti rilevante anche per quelle attività e passività che, a seguito della fusione, non risultino iscritte in bilancio perché, ad esempio, sono state totalmente ammortizzate o che siano iscritte al costo per un importo inferiore rispetto al valore normale.

La società istante evidenzia che il dubbio deriva dal fatto che la fusione oggetto di interpello è trattata in base ai principi contabili nazionali in continuità contabile e, “qualora il valore fiscale dei beni sia pari a quello normale ai sensi dell’articolo 9 del TUIR, si tratterà di un valore superiore a quello che risulta dalla contabilità”.

 

La tesi della società istante

La incorporante ritiene che la società estera rientri fra i soggetti che esercitano imprese commerciali cui sono destinati i contenuti dell’art. 166-bis del TUIR, poiché la stessa ha una forma giuridica che rientra fra quelle previste dalla direttiva n. 2011/96/UE – la cosiddetta direttiva madre-figlia – e dalla direttiva n. 2009/133/CE, denominata direttiva fusioni-scissioni. Inoltre, la S.p.A. specifica che la norma in esame non deve essere intesa come destinata esclusivamente al trasferimento di sede ma va estesa, “in via analogica, alla fusione per incorporazione, poiché si realizza il medesimo effetto, cioè la società estera acquisisce la residenza nel territorio dello Stato”. La società istante sostiene, infine, che debbano assumere il valore normale anche quelle attività e passività della società incorporata che non erano iscritte in bilancio poiché, ad esempio, totalmente ammortizzate ovvero iscritte per un valore contabile inferiore al fair value. In questo caso, la deduzione del costo correlato ai maggiori valori fiscali dovrebbe essere svicolata dal requisito di previa imputazione a conto economico.

flag-italy-xl

 

Le risposte dell’Agenzia delle Entrate

L’Amministrazione finanziaria risponde al quesito con la risoluzione n. 69/E del 5 agosto2016, nella quale spiega, preliminarmente, che l’art. 12 del D.L.vo n. 147/2015 ha fortemente riformato la materia introducendo, a partire dal periodo di imposta 2015, l’art. 166-bis del TUIR (“Trasferimento della residenza nel territorio dello Stato”). In particolare, la norma in esame introduce una disciplina ad hoc per la valorizzazione dei beni che accedono per la prima volta nel nostro ordinamento, visto che in precedenza non era stabilito alcun criterio per attribuire il valore di ingresso ai beni dei soggetti che si trasferivano in Italia e, in assenza di disposizioni, si applicava il principio generale individuato dall’Amministrazione finanziaria nella risoluzione n. 345/E del 2008, ancora vigente per le annualità antecedenti al 2015. In pratica veniva riconosciuto il valore corrente degli asset quando lo Stato di provenienza assoggettava a tassazione in via ordinaria i maggiori valori ivi formatisi, mentre in caso contrario si faceva riferimento al costo storico, base degli ordinari principi di determinazione del reddito d’impresa.

Secondo la nuova previsione “i soggetti che esercitano imprese commerciali provenienti da Stati o territori inclusi nella lista di cui all’art. 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, che, trasferendosi nel territorio dello Stato, acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi assumono quale valore fiscale delle attività e delle passività il valore normale delle stesse, da determinarsi ai sensi dell’art. 9”.

Si tratta di soggetti provenienti da Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni con l’Italia, nei confronti dei quali viene riconosciuto il valore normale dei beni come determinato dall’art. 9 del TUIR, a prescindere dal pagamento di una exit tax nello Stato di “uscita”. In caso di trasferimento da Stati o territori diversi, invece, a meno di un accordo sul valore normale stipulato in base all’art. 31-ter del DPR n. 600/1973, è previsto che il valore fiscale delle attività e passività trasferite è pari, per le attività, al minore tra il costo di acquisto, il valore di bilancio e il valore normale, e al maggiore tra questi per le passività.

Il primo dei tre quesiti è associato all’attività esercitata dalla società lussemburghese, che nell’istanza è descritta come una holding che detiene partecipazioni in società immobiliari. Considerato che l’art. 166-bis del TUIR si applica ai soggetti che esercitano imprese commerciali, si pone il problema di stabilire se anche una società che nello Stato di provenienza non dispone di una vera e propria azienda funzionale all’esercizio di un’attività commerciale, ma si limita a detenere partecipazioni in altri enti – tra l’altro immobiliari – possa rientrare nell’ambito di applicazione della nuova disciplina. In sostanza, il dubbio deriva dal richiamo alla “commercialità” dell’attività svolta dalla società che si trasferisce. Il nuovo art. 166-bis introduce le modalità con cui sono valorizzati i beni in ingresso nel nostro ordinamento e in proposito, come si legge nella relazione illustrativa al provvedimento, sono stabilite “regole diverse in base allo Stato di provenienza”. Quello privilegiato, quindi, è un criterio “territoriale”, stante che il riconoscimento del valore normale è riservato ai soggetti provenienti da Stati collaborativi, che penalizza, invece, i soggetti che provengono da Stati diversi. L’Agenzia ritiene che il presupposto dell’esercizio di un’impresa commerciale, cui è subordinato il regime in esame, si deve intendere riferito a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa secondo l’ordinamento nazionale, a prescindere dall’attività economica effettivamente svolta dagli stessi: conclusione che risulta coerente con l’art. 166-bis del TUIR, “volto a ripartire correttamente la potestà impositiva tra le giurisdizione coinvolte nell’operazione di trasferimento ed evitare, conseguentemente, che plusvalori e minusvalori che sono maturati fuori dal reddito d’impresa italiano possano concorrere alla formazione dello stesso”. Nella risoluzione 69/E l’Agenzia ritiene che l’attività svolta dalla società lussemburghese non sia di ostacolo per l’applicazione dell’art. 166-bis del TUIR.

Il secondo quesito concerne la modalità con cui le attività e le passività della società estera accedono nel nostro sistema fiscale, la fusione per incorporazione in una società residente. “Sorge il dubbio che la disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 147 del 2015 sia destinata esclusivamente alle società che attuano un trasferimento di sede in Italia”, a parere delle Entrate, che evidenziano che l’art. 166-bis fa riferimento ai soggetti che “trasferendosi nel territorio dello Stato acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi”. In proposito, secondo l’Agenzia l’aspetto da chiarire è cosa si intenda per trasferimento in Italia e, in proposito, ricorda che la relazione illustrativa al decreto legislativo afferma che la nuova disciplina “regolamenta il trasferimento della residenza nel territorio dello Stato”, senza alcun riferimento alle modalità con le quali il soggetto si trasferisce in Italia. La relazione conferma, dunque, che la norma intende regolamentare gli effetti derivanti dall’acquisizione della residenza fiscale in Italia, con riguardo soprattutto agli aspetti sostanziali, più che alle concrete modalità con cui avviene il trasferimento.

Nella risoluzione si sottolinea che anche nelle operazioni di fusione intracomunitarie, come quella in questione, si rileva la criticità dell’attribuzione dei valori fiscali di ingresso dei beni che confluiscono nella società incorporante residente. Sotto il profilo fiscale, la norma che regola la neutralità di queste operazioni si limita a rinviare all’art. 172 del TUIR, riguardante le fusioni domestiche, in assenza del necessario adeguamento che tenga conto dell’estraneità dei beni in ingresso rispetto al sistema fiscale italiano.

L’Agenzia, relativamente al caso prospettato, evidenzia che la fusione oggetto dell’istanza causa la perdita della residenza fiscale in Lussemburgo della società incorporata e che tutti gli asset della stessa vanno a confluire nel patrimonio della S.p.A: in pratica, si verifica il trasferimento in Italia della società lussemburghese, con le stesse conseguenze che avrebbe un suo trasferimento di sede nel nostro Paese. Per quanto finora esposto, nel documento di prassi si ritiene che le previsioni dell’art. 166-bis del TUIR possano essere applicate nell’istanza presentata, nella quale il trasferimento nel territorio italiano si attua “a seguito e per effetto dell’operazione di fusione con una società italiana”.

Per quanto riguarda il terzo quesito prospettato, secondo le Entrate il valore normale, determinato ai sensi dell’art. 9 del TUIR, possa essere riconosciuto anche ai beni della società incorporata che non sono più presenti in bilancio in quanto completamente ammortizzati o il cui valore contabile sia inferiore al fair value. Il conseguente riconoscimento di una maggiore quota di ammortamento fiscale, rispetto a quella risultante in contabilità, sarà possibile in base all’art. 109, comma 4, lett. b) del TUIR, che prevede la deduzione dei componenti negativi che “pur non essendo imputati al conto economico, sono deducibili per disposizioni di legge”.

Nel caso in esame la disposizione di legge cui si riferisce il citato art. 109 del TUIR è lo stesso art. 12 del D.L.vo n. 147/2015, che riconoscendo un valore fiscale di ingresso in Italia pari al valore normale, “ne ammette implicitamente la deducibilità in via extracontabile nell’ipotesi in cui i valori di bilancio dovessero attenersi a valori più bassi rispetto a quelli fiscali”: in ogni caso, se i valori di bilancio dovessero essere più elevati del valore normale, ai fini fiscali rileverà comunque quest’ultimo valore.

In conclusione, nella risoluzione si evidenzia che la disciplina in esame non può prescindere dal rispetto dei principi generali sulla determinazione del reddito d’impresa e, tra questi, l’inerenza e l’effettivo sostenimento dei costi: dunque, potrà essere riconosciuto esclusivamente il valore normale – e la deducibilità delle relative quote di ammortamento – dei singoli beni che l’impresa ha acquisito sopportando un onere effettivo nel Paese di provenienza, anche se tale valore normale risulta superiore al costo dei medesimi asset.

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay