CASSAZIONE SENTENZE

Non è confiscabile l’immobile donato al figlio se non c’è sottrazione fraudolenta

Tributi – IVA – Reati fiscali con rilevanza penale – Confisca – Immobile donato al figlio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4456 del 9 febbraio 2022, intervenendo in merito alla rilevanza dei reati tributari che possono essere

oggetto di confisca da parte dell’erario, ha ritenuto che per questi reati non è confiscabile l’immobile donato ai figli se non vi è prova che si tratti di un trasferimento fittizio volto a sottrarre garanzie in danno dell’erario. In altre parole, è del tutto illegittima la confisca degli immobili che l’imputato aveva precedentemente donato ai figli senza la prova della permanenza della disponibilità degli stessi.

Del resto è noto che questo reato, definito come reato da frode esattoriale, si commette tutte le volte che gli atti simulati posti in essere dal debitore rendano insufficiente la propria consistenza patrimoniale rispetto alle pretese erariali.

Il sottrarsi al pagamento delle imposte ponendo in essere comportamenti fraudolenti è un reato punito dall’art. 11 del D.lgs. 74/2000. 

La Suprema Corte ha più volte affermato che il reato non è configurabile qualora l’attività fraudolenta o simulata venga posta in essere per sottrarsi al pagamento di debiti diversi da quelli erariali: detto ciò, perché si configuri il reato previsto dall’art. 11 del D.lgs. 74/2000 la norma richiede l’esistenza di un debito tributario sorto antecedentemente al compimento delle azioni simulatorie o fraudolenti.

Così ragionando, appare determinante l’individuazione del momento in cui è sorto il debito. 

Per tali motivi appare evidente come l’odierna decisione assuma un particolare rilievo in considerazione del fatto che molto spesso la confisca per equivalente viene effettuata su beni di proprietà di terzi estranei al reato ma ritenuti nella disponibilità del reo, soprattutto ove tra i due sussista un eventuale rapporto di parentela.

La Cassazione ha anche evidenziato che in realtà per queste situazioni occorre ben dimostrare l’effettiva disponibilità dei beni attraverso un’analisi sull’effettività dell’esercizio dei poteri dispositivi, come peraltro indicato dall’orientamento emerso con la sentenza n. 36932/2020, resa dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione. Con tale arresto, che riguardava un caso di omessa dichiarazione, i supremi giudici si erano soffermati sul tema della confisca del patrimonio della persona giuridica ritenuta schermo societario fittizio dell’imputato condannato per reati tributari commessi. In particolare, la Suprema Corte ha richiamato i principi già espressi dalle SS. UU. secondo i quali la confisca per equivalente può essere disposta solo sui beni dell’ente che sia privo di autonomia e che rappresenti un mero schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni e che, in sostanza, deve disporre di tali beni secondo la propria esclusiva volontà, per proprie esigenze o a favore di soggetti estranei.

Tuttavia, ed è bene sottolinearlo, la Cassazione esprime la volontà, che ai fini dell’apposizione del vincolo ablatorio definitivo occorre sempre individuare elementi concreti dai quali desumere che la società rappresenti un mero espediente, non essendo sufficienti indicatori privi di significati.

A margine della vicenda appare comunque utile rammentare che la stessa Corte è intervenuta più volte negli ultimi anni sul tema del sequestro della prima casa anche per i reati fiscali con rilevanza penale. Il cosiddetto decreto del fare (DL 60/2013), che vietava il pignoramento della prima casa per debiti fiscali, recitava testualmente: “…L’Agente della Riscossione non dà corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore, con esclusione delle abitazioni di lusso aventi le caratteristiche individuate dal decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27 agosto 1969, e comunque dei fabbricati classificati nelle categorie catastali A/8 e A/9, è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente”.

La Suprema Corte, intervenuta con la sentenza n. 8995/2019, peraltro annotava che in tema di reati tributari il limite alla espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, comma 1, lett. a), DPR 602/1973, nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lett. g), DL 69/2013 (convertito, con modificazioni, in legge 98/2013), opera solo nei confronti dell’erario, per debiti tributari e non di altre categorie di creditori e riguarda l’unico immobile di proprietà e non la prima casa del debitore, e non costituisce un limite all’adozione né della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né del sequestro preventivo a essa finalizzato.

Tuttavia, è necessario che sussistano determinati requisiti per confiscare tale immobile, che deve essere l’unico immobile (non di lusso) del contribuente in cui lo stesso ha fissato la residenza. Nel caso in cui il contribuente, invece, commetta un reato fiscale che supera una certa soglia (ovvero nel caso di grandi truffe) è possibile invece attuare il sequestro preventivo (ed eventualmente la confisca).

Ricordiamo anche che il limite di inespropriabilità immobiliare previsto dalla normativa tributaria non si applica però alla confisca, avendo questa a oggetto il profitto del reato e non il debito tributario. In caso di reato tributario di dimensioni considerevoli, gli immobili procedono con il sequestro già in fase di indagine preliminare: tecnicamente, la procedura si attiva quando l’Agenzia delle entrate acquisisce la notizia del reato commesso e la comunica alla Procura della Repubblica, che chiede al giudice di emanare il provvedimento in via cautelare. In caso di condanna definitiva lo Stato procederà alla confisca definitiva dei beni all’autore del reato.

Il vincolo restrittivo sugli immobili potrebbe colpire anche la prima casa. Se la giustizia accertasse che il contribuente evasore ha cercato di disfarsi del bene cedendolo a un parente in modo fittizio, si prefigurerebbe un ulteriore reato di sottrazione fraudolenta. Nel caso in cui ci siano debiti tributari non pagati per un importo superiore a 120.000 euro, la legge prevede il pignoramento dei beni immobili del contribuente salvo la prima casa, per la quale il pignoramento è vietato quando è l’abitazione in cui risiede il debitore ed è l’unico immobile di proprietà.

In caso di commissione di un reato tributario il sequestro preventivo è finalizzato all’adozione della confisca, che diventa possibile solo quando l’evasione si è trasformata in reato, ovvero al superamento di determinate soglie di tributo non versato. Se la dichiarazione è infedele, il reato scatta al superamento della soglia di 150.000 euro, mentre in caso di omessa dichiarazione, invece, basta superare i 50.000 euro; nel caso di fatture per operazioni inesistenti, ogni soglia è punibile penalmente.

Le ultime sentenze della Cassazione hanno esteso la possibilità del sequestro preventivo anche a tutti quegli immobili “alienati”, ovvero implicati in processi di compravendite o donazioni fittizie. Allo stesso modo, anche un trasferimento immobiliare alla luce del sole potrebbe costituire un atto fraudolento verso l’erario: la cessione, infatti, troverebbe la sua ragion d’essere solo nella riduzione del patrimonio del debitore esposto verso il fisco.

Con la sentenza n. 30342/2021, la Cassazione penale ha anche chiarito che il limite di inespropriabilità immobiliare previsto dalla normativa tributaria non si applica alla confisca. La sentenza, che ebbe ad assumere particolare interesse per le precisazioni fornite in ordine all’assoggettabilità alla confisca penale (e, prima, al sequestro preventivo) degli immobili dell’autore di reati tributari, scaturisce dal ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Trento, sezione per il riesame, in accoglimento dell’appello cautelare della Procura, aveva disposto nei confronti dell’indagato, socio unico amministratore di una Snc, il sequestro preventivo ai fini di confisca di beni immobili oggetto di fraudolento trasferimento in favore della figlia ex art. 11, D.lgs. 74/2000. La Corte ha però concluso che il limite alla pignorabilità fissato dal DPR 602/1973 si riferisce solo alle espropriazioni da parte del Fisco e non a quelle promosse da altre categorie di creditori; non riguarda la prima casa, ma “l’unico immobile di proprietà del debitore” e non trova comunque applicazione alla confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né al sequestro preventivo a essa preordinato.

Esiste sull’argomento una nutrita giurisprudenza di cui vogliamo sottolineare solo alcuni aspetti, peraltro significativi. Con la sentenza n.19989/2020 la Corte stabiliva, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 11, D.lgs. 74/2000, che punisce colui che per sottrarsi alle imposte aliena simulatamente o compie atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, e che non è necessaria la fondatezza della pretesa erariale. Mentre con il diverso arresto, la sentenza n. 15776/2020,la Cassazione affermava che nei reati tributari il sequestro preventivo e la successiva confisca prevalgono sul fallimento della società anche se intervenuto prima della misura cautelare: tuttavia i beni appartenenti alle persone estranee al reato e quelli acquisiti in buona fede non possono essere sottoposti a nessun vincolo.

In proposito giova infine ricordare la sentenza n. 34602/2021, nella quale gli Ermellini disponevano che “… Ai fini della confisca per equivalente di cui all’art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, rileva esclusivamente la effettiva disponibilità del bene da parte dell’imputato. Si tratta di misura che ha natura eminentemente sanzionatoria ed è applicabile esclusivamente all’autore del reato (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255037 – 01). I presupposti applicativi sono costituiti: a) dall’impossibilità di confiscare, in via diretta il profitto o il prezzo del reato; b) dalla disponibilità del bene da parte dell’autore (persona fisica) del reato; c) dalla corrispondenza del valore del bene al profitto/prezzo del reato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la “disponibilità” del bene, quale presupposto del provvedimento, non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di esso venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Sez. 3, n. 4887 del 13/12/2018, Rv. 274852 – 01; Sez. 2, n. 22153 del 22/02/2013, Rv. 255950 – 01; Sez. 3, n. 15210 del 08/03/2012, Rv. 252378 – 01; Sez. 1, n. 11732 del 09/03/2005, Rv. 231390 – 01). Natura sanzionatoria della misura e disponibilità del bene da parte dell’autore del reato segnano i limiti oltre i quali la confisca per equivalente (ed il sequestro ad essa finalizzato) non può spingersi, non potendo mai colpire beni di proprietà di persone estranee al reato, a prescindere dalla opponibilità o meno degli atti negoziali che, come nel caso di specie, possono aver determinato l’uscita del bene dal patrimonio dell’imputato”.

Per i giudici di legittimità il sequestro penale prevale sui diritti di credito vantati dai terzi, stante l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro: di conseguenza il giudice penale, nel disporre il sequestro, deve valutare se eventuali diritti vantati da terzi siano o meno stati acquisiti in buona fede. In caso positivo il bene, la cui titolarità sia vantata da un terzo, non può essere sottoposto a sequestro, né a confisca.

Tornando al caso di specie, dalla lettura della sentenza in commento si desume che un contribuente era creduto responsabile del reato di cui all’art. 10-ter del D.lgs. 74/2000, per avere omesso il versamento della somma da lui dovuta a titolo di IVA come legale rappresentante di una società.

Adito alla giustizia tributaria, il contribuente veniva condannato per il reato di omesso versamento IVA, nonostante una riconosciuta compensazione di alcuni crediti in modo da riportare l’imposta non versata al di sotto della soglia di punibilità.  L’imputato ricorreva per Cassazione lamentando, fra l’altro, l’applicazione della confisca per equivalente di alcuni cespiti immobiliari già facenti capo al medesimo ma donati ai propri figli precedentemente al sequestro preventivo, senza che i giudici avessero provato la natura fittizia e apparente delle cessioni e la non veridicità della intestazione dei beni in favore di terzi estranei al reato. La Suprema Corte ha ritenuto valide le argomentazioni poste dalla parte contribuente, affermando che “… Sono, invece, fondati i restanti due motivi di impugnazione, sia quello legato alla avvenuta confisca perequivalente di taluni cespiti immobiliari che il V., fin da un periodo antecedente alla esecuzione del sequestro preventivo su di essi aveva donato ai propri figli, sia quello relativo al rigetto della richiesta di concessione in favore del V. del beneficio della sospensione condizionale della pena. Sui due punti controversi la motivazione della sentenza impugnata è effettivamente deficitaria.  Premesso, infatti, quanto al primo di essi, da una parte, che al V. è contestata esclusivamente la violazione dell’art. 10-ter del D.lgs. n. 74 del 2000 e non anche la violazione dell’art. 11 del medesimo decreto legislativo, e, da altra parte, che l’art. 12-bis sempre del citato decreto legislativo, dispone che, in caso, fra l’altro, di condanna per uno dei reati preveduti dal medesimo decreto legislativo, è sempre ordinata la confisca diretta dei beni che ne costituiscono il prezzo od il profitto, ovvero, quando ciò sia impossibile, quella per equivalente di beni aventi identico valore, si rileva che il rigore di tale previsione è mitigato dalla circostanza che non deve trattarsi di beni dei quali la appartenenza sia di spettanza di un terzo estraneo al reato o dei quali il condannato non abbia la disponibilità, sebbene questa vada intesa in termini non di formale titolarità ma di semplice libera relazione materiale con il bene (in tale senso si vedano, per la loro efficacia didascalica: Corte di cassazione, Sezione III penale, 17 settembre 2021, n. 34602, nonché, negli stessi termini, Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 gennaio 2019, n. 4887, secondo le quali, in tema di confisca per equivalente, la “disponibilità” del bene, quale presupposto del provvedimento ablatorio, non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di esso venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà). Ciò posto, nel caso di specie è indubbio che il ricorrente non sia il proprietario dei beni attinti dal provvedimento di confisca, essendo stati questi da lui donati ai figli, terzi apparentemente estranei rispetto al reato commesso, in data anteriore allo stesso provvedimento di sequestro preventivo che li ha colpiti. In punto di permanenza della effettiva disponibilità dei beni in questione in capo al V., la Corte territoriale, pur investita del relativo motivo di impugnazione, nulla dice, essendosi essa limitata ad osservare che la donazione “fu effettuata con una finalità indubbiamente strumentale, in quanto diretta a sottrarre i beni alla garanzia patrimoniale dell’ingente obbligazione tributaria già sussistente in capo alla M. spa”, di tal che, dovendosi presupporre “il c.d. consilium fraudis, deve ritenersi insussistente lo stato di buona fede sia del donante che dei suoi discendenti donatari”. In tal senso la Corte lucana – oltre ad avere introdotto (per altro in termini di indimostrata presupposizione) degli elementi, quali la non estraneità, attraverso un indimostrato consilium  fraudis, degli attuali titolari dei beni alla ipotesi di reato, che avrebbe dovuto giustificare, come dianzi accennato, una contestazione di art. 11 del D.lgs. n. 74 del 2000, mai intervenuta – ha, altresì, dato per sufficiente, ai fini della dimostrazione della mera fittizietà della cessione e, pertanto, della permanenza della disponibilità dei beni in capo al cedente (pur nei termini dianzi delineati alla luce della giurisprudenza di questa Corte), il mero fatto che la cessione fosse stata eseguita in danno del creditore erariale. Ma si tratta di una ipostasi meramente assertiva priva di ampia affidabilità, posto che il cedente potrebbe avere realmente ceduto il bene, senza averne mantenuto alcuna effettiva disponibilità solo al fine di preferire a quella dell’Erario la posizione economica di altro soggetto; condotta questa in esito alla quale non ci sarebbero gli elementi per ritenere sussistere le condizioni per procedere, secondo i termini di cui al citato art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, alla confisca per equivalente di un valore pari all’importo del profitto o del prezzo conseguiti tramite la commissione del reato. Al riguardo, infatti, il Collegio rileva che l’argomento, speso dalla Corte territoriale in termini di pretesa adeguatezza motivazionale, appare, invece, come detto meramente assertivo, tanto da giustificare sul punto l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame, in punto di conservazione o meno da parte del V. della materiale disponibilità dei beni da questo ceduti con l’atto del 15 aprile 2015, alla Corte di appello di Salerno. Anche la censura in materia di mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena è, come dianzi accennato, fondato. Deve, infatti, premettersi che in sede di discussione conclusiva di fronte alla Corte di appello, la difesa del V. ebbe a chiedere, in estremo subordine, la concessione dei “benefici”; pur nella riportata laconicità, la espressione usata dal ricorrente appare inequivocabilmente destinata a sollecitare al giudice del gravame una favorevole pronunzia in materia di sospensione condizionale della pena, esclusa dal giudice di primo grado. Sul punto la Corte lucana,, allineandosi in punto di stringatezza motivazionale al contenuto dell’appello proposto d fronte a lei, ha rilevato che la particolare scaltrezza manifestata dal V. nel delinquere, l’entità della somma sottratta all’Erario e la mancanza di un qualche segno di resipiscenza da parte del ricorrente, oltre ad ostare ad una riduzione del trattamento sanzionatorio ed al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, erano fattori tali da rendere non “meritevole di approvazione ogni altra istanza diretta al conseguimento di benefici di legge”.Ritiene il Collegio che siffatta motivazione appaia inadeguata ad escludere la sussistenza degli elementi atti ad escludere che il V. potesse godere della sospensione condizionale della pena. Invero la motivazione in questione in alcun punto fa riferimento alla esistenza o meno della condizione necessaria per il riconoscimento o meno del beneficio in discorso, cioè la prognosi fausta o infausta in ordine al successivo comportamento dell’imputato; l’indagine del giudice del merito avrebbe dovuto avere ad oggetto la esistenza o meno di elementi atti a fare ritenere che, per il futuro, il V. si asterrà o meno dal commettere nuovamente reati. Non ignora il Collegio che in relazione alla motivazione in tema di sospensione condizionale della pena questa Corte ha rilevato che le ragioni del diniego di essa possono anche ritenersi implicite nella motivazione con cui il giudice neghi le circostanze attenuanti generiche, richiamando i profili di pericolosità del comportamento dell’imputato, dal momento che il legislatore fa dipendere la concessione del predetto beneficio dalla valutazione degli elementi indicati dall’art. 113 cod. pen. (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 7 dicembre 2020, n. 34754; idem Sezione III penale, 13 giugno 2019, n. 26191); ma, si osserva ora, in relazione alla concessione o meno della sospensione condizionale della pena, siffatte valutazioni debbono essere compiute, sia pure sulla base del medesimo materiale dimostrativo relativa alla valutazione sulla gravità del trattamento sanzionatorio, nell’ottica della verifica della solidità del quadro dimostrativo dell’effettivo pericolo di recidivanza; non a caso nelle fattispecie oggetto degli arresti sopra indicati, i prevenuti erano, infatti, tutti soggetti già pregiudicati e, pertanto, in qualche modo già adusi al delinquere. Nel caso che ora interessa, invece, il V. ha subito solo alcune lontane condanne per reati bagatellari, in relazione alle quali ha beneficiato solamente una volta della sospensione condizionale della pena, in relazione peraltro ad un reato successivamente amnistiato. Tanto considerato, si rileva che nel caso in esame gli elementi dimostrativi ad altro fine segnalati dalla Corte di Potenza non appaiono tali da giustificare, a fronte di un soggetto apparentemente non proclive, quanto meno nell’attualità, al delinquere, la deduzione da essi (ed unicamente da essi non avendone la Corte territoriale segnalati altri), in assenza di un’esplicita motivazione che renda chiare le ragioni di tale convincimento in capo al giudice del merito, di una prognosi infausta in ordine al futuro comportamento dell’imputato. Anche sotto il profilo adesso illustrato la sentenza impugnata deve, perciò, essere annullata con rinvio alla Corte di Salerno che provvederà, tenuto conto di quanto segnalato, al riguardo. Considerato che i motivi di ricorso accolti hanno ad oggetto esclusivamente aspetti, riguardanti il trattamento sanzionatorio, logicamente subordinati all’avvenuta affermazione della penale responsabilità dell’imputato, questa, visto l’art. 624 cod. proc. pen. non intaccata dall’avvenuto annullamento della sentenza della Corte lucana, deve essere considerata oramai definitivamente accertata”.

Corte di Cassazione – Sentenza 9 febbraio 2022, n. 4456

sul ricorso proposto da:

V. V., nato a Rotondella (Mt) il 14 ottobre 1940;

avverso la sentenza n. 27/21 della Corte di appello di Potenza del 14 gennaio 2021;

letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI;

sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Paola MASTROBERARDINO, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;

sentita, altresì, per il ricorrente l’avv.ssa Francesca ARICO’, del foro di Roma, in sostituzione dell’avv. Giovanni ARICO’, del foro di Roma, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

La Corte di appello di Potenza ha accolto il gravame con il quale il Procuratore generale della Repubblica aveva impugnato la sentenza con la quale il Tribunale di Matera aveva dichiarato la penale responsabilità di V. V. in ordine al reato di cui all’art. 10-ter del dPR n. 74 del 2000, per avere egli omesso il versamento della somma da lui dovuta, in qualità di legale rappresentante della M. Spa, a titolo di Iva per l’anno di imposta 2012, in misura pari ad oltre 870.000,00 euro e, pur avendolo condannato alla pena di giustizia, non aveva irrogato a carico del predetto le sanzioni accessorie stabilite dalla specifica normativa di settore in caso di sentenza di condanna; con la medesima decisione la Corte di appello lucana aveva rigettato i motivi di impugnazione proposti dal ricorrente avverso la sentenza del giudice di primo grado ed aventi ad oggetto, sia la effettiva sussistenza del debito tributario in misura superiore alla soglia di punibilità attualmente vigente in ordine al reato contestato, sia il mancato riconoscimento di un pregresso credito tributario vantato dal ricorrente, sia la logicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla conferma della confisca per equivalente disposta in relazione a taluni beni dei quali il V. non era già più proprietario al momento in cui fu disposto il sequestro dei medesimi, finalizzato alla successiva confisca, sia, infine, in ordine al trattamento sanzionatorio applicato nei confronti dell’imputato.

Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il patrocinio dei propri difensori fiduciari il V., articolando 4 motivi di impugnazione.

Il primo motivo di ricorso concerne, principalmente il fatto che la Corte lucana abbia omesso di considerare il fatto che, con sentenza n. 133 del 2019, la Commissione tributaria regionale di Potenza ha riconosciuto in favore del V. la fondatezza della richiesta di compensazione avanzata dal medesimo, per conto della predetta società da lui amministrata, in ordine a crediti tributari che questa vantava in maniera definitiva; ha rilevato il ricorrente che, una volta operata la predetta compensazione, il debito tributario residuo per Iva era inferiore alla soglia di punibilità, sicchè lo stesso non poteva giustificare la sanzione penale a carico del prevenuto.

Il secondo motivo di impugnazione attiene al vizio di violazione di legge e di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui in essa non si è ritenuto il credito Iva che la società M. vantava al fine di abbattere l’importo dei tributi evasi al di sotto della soglia di punibilità.

Il terzo motivo attiene all’avvenuta conferma – operata, ad avviso del ricorrente, in termini di contraddittorietà motivazionale se non di omessa motivazione – della confisca per equivalente di taluni cespiti immobiliari già facenti capo al V. ma da questi donati ai propri figli in data 15 aprile 2015, cioè circa 8 mesi prima che su di essi cadesse il sequestro preventivo disposto solo in data 21 dicembre 2015, senza che i giudici del merito abbiano in qualche modo dimostrato la natura meramente fittizia ed apparente delle predette cessioni e, pertanto, la non veridicità della intestazione dei beni in questione in favore di terzi estranei al reato.

Infine, con il quarto motivo il ricorrente ha lamentato il fatto che gli siano state negate le circostanze attenuanti generiche, senza una adeguata motivazione e che non sia stata riconosciuta al prevenuto la sospensione condizionale della pena senza che sua stata operata una qualsivoglia prognosi in merito alla possibilità o meno che il V., per il futuro, si astenga dal commettere ulteriori reati.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, fondato nei limiti di quanto di ragione, deve essere accolto conformemente ad essi e rigettato nel resto. Privi di pregio sono, infatti, i primi due motivi di impugnazione, che, per la loro sostanziale omogeneità contenutistica, possono essere congiuntamente esaminati.

Con essi, in sintesi, il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello potentina, nel rigettare il gravame presentato dalla difesa del V., non avrebbe tenuto conto della esistenza di un credito tributario vantato dal predetto – sancito da una pronunzia della Commissione tributaria regionale di Potenza che lo ha riconosciuto esistente – il cui ammontare, ove detratto dall’importo dell’Iva da lui non corrisposta quanto all’anno di imposta 2012, nella qualità di legale rappresentante della M. Spa, avrebbe reso siffatta omissione tributaria di importo inferiore alla soglia di punibilità prevista per il reato contestato.

Gli argomenti posti alla base delle doglianze sono non condivisibili.

Deve, infatti, in primo luogo rilevarsi, concordemente con la sentenza impugnata, che la circostanza, dedotta – sia pure con qualche apoditticità da parte del ricorrente non essendo state specificate affatto le ragioni poste alla base di tale decisione – avente ad oggetto la presenza di una sentenza, indicata come sentenza n. 133 della Commissione tributaria regionale di Potenza depositata in data 16 gennaio 2019, il cui contenuto viene indicato come favorevole per il V., non è di per sé tale da incidere in termini positivi in merito alla posizione processuale del ricorrente. Invero, si rileva, in primo luogo che la sentenza in questione, la quale avrebbe ad oggetto (quanto segue si riporta non senza una problematica condivisibilità sul piano dei principi giuridici) la non ostatività – ai fini della richiesta di compensazione di un credito vantato con altri debiti della medesima natura – della avvenuta cessione a terzi di tale credito tributario in materia di Iva da parte della M. Spa, non risulta – non essendo stato tale dato documentato dal ricorrente, sul quale, in quanto soggetto a ciò interessato, gravava il relativo onere dimostrativo – essere passata in giudicato; essa, pertanto, non contiene una affermazione avente la caratteristica della definitività neppure sul piano tributario.

Sotto questo profilo la stessa – anche se si volesse aderire ad un isolato precedente (che, tuttavia, parrebbe discostarsi dalla generale regola in forza della quale è stata eliminata, anche sul piano logico, la cosiddetta pregiudiziale tributaria dal nostro ordinamento processuale) secondo il quale le sentenze pronunziate dal giudice tributario, se non definitive, non hanno efficacia vincolante nel giudizio penale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 21 ottobre 2008, n. 39358), difettando del requisito sopra indicato, appunto la definitività – non avrebbe alcuna valenza ai fini di astringere in un unico indirizzo ricostruttivo delle vicende sottostanti, univoco sia sotto il profilo tributario che sotto quello penale, i fatti di cui alla contestazione.

Ma, in termini più generali – e ad avviso di questo Collegio più aderenti al dettato normativo – deve ritenersi che, non diversamente da quanto avviene per ciò che riguarda le sentenze emesse dal giudice amministrativo (Corte di cassazione, Sezione VI penale, 14 marzo 2011, n. 10210), anche le sentenze emesse dal giudice tributario, ancorché definitive, non vincolano quello penale, in quanto l’art. 238-bis cod. proc. pen., che ne consente l’acquisizione in dibattimento, precisa che le stesse siano valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, cod. proc. pen. dal giudice procedente ai fini della prova del fatto in esse accertato (Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 gennaio 2016, n. 1628);

in altre parole, le stesse valgono quali elementi probatori posti a sostegno della tesi di chi le abbia addotte, ma non hanno una particolare valenza probatoria, essendo la loro valutazione sottoposta al principio del libero convincimento del giudice, senza alcun altro vincolo per questo, se non quello, ordinario, di congruamente e plausibilmente motivare la proprie decisioni in termini conformi al diritto. Considerata, pertanto, la inammissibilità del primo profilo impugnatorio, non sussistendo alcun obbligo di conformazione del giudizio penale a quello tributario, per ciò che attiene al secondo, connesso, profilo si rileva che la Corte lucana ha, in termini di convincente plausibilità, condiviso le argomentazioni già fatte proprie dal Tribunale materano, il quale aveva, in radice, escluso la possibilità da parte della M., e per essa del suo legale rappresentante, di portare in compensazione del debito per l’Iva non versata per l’anno di imposta 2012 altri preesistenti crediti tributari da essa vantati (così da abbattere la sua esposizione al di sotto della soglia di punibilità).

Tanto era stato ritenuto in ragione del fatto che di tali crediti quella già aveva, diversamente, disposto attraverso un negozio di cessione in favore di un soggetto terzo, nella specie un primario istituto di credito bancario; è, infatti, di tutta evidenza che, una volta intervenuta la loro cessione a terzi, dei crediti in questione, non essendo essi più riferibili alla M. ma al soggetto cessionario, la prima non poteva più disporre nei confronti del proprio debitore, opponendoli in compensazione di eventuali crediti che questi vantasse nei suoi confronti.

Così esponendo in termini di assoluta correttezza giuridica e di limpida chiarezza motivazionale, le ragioni del rigetto del gravame sul punto i giudici del merito hanno indicato i motivi per i quali non poteva ritenersi che il debito tributario gravante, nella qualità rivestita, sul V., non raggiungesse la soglia di punibilità penale.

Sono, invece, fondati i restanti due motivi di impugnazione, sia quello legato alla avvenuta confisca per equivalente di taluni cespiti immobiliari che il V., fin da un periodo antecedente alla esecuzione del sequestro preventivo su di essi aveva donato ai propri figli, sia quello relativo al rigetto della richiesta di concessione in favore del V. del beneficio della sospensione condizionale della pena.

Sui due punti controversi la motivazione della sentenza impugnata è effettivamente deficitaria.

Premesso, infatti, quanto al primo di essi, da una parte, che al V. è contestata esclusivamente la violazione dell’art. 10-ter del D.lgs. n. 74 del 2000 e non anche la violazione dell’art. 11 del medesimo decreto legislativo, e, da altra parte, che l’art. 12-bis sempre del citato decreto legislativo, dispone che, in caso, fra l’altro, di condanna per uno dei reati preveduti dal medesimo decreto legislativo, è sempre ordinata la confisca diretta dei beni che ne costituiscono il prezzo od il profitto, ovvero, quando ciò sia impossibile, quella per equivalente di beni aventi identico valore, si rileva che il rigore di tale previsione è mitigato dalla circostanza che non deve trattarsi di beni dei quali la appartenenza sia di spettanza di un terzo estraneo al reato o dei quali il condannato non abbia la disponibilità, sebbene questa vada intesa in termini non di formale titolarità ma di semplice libera relazione materiale con il bene (in tale senso si vedano, per la loro efficacia didascalica: Corte di cassazione, Sezione III penale, 17 settembre 2021, n. 34602, nonché, negli stessi termini, Corte di cassazione, Sezione III penale, 31 gennaio 2019, n. 4887, secondo le quali, in tema di confisca per equivalente, la “disponibilità” del bene, quale presupposto del provvedimento ablatorio, non coincide con la nozione civilistica di proprietà, ma con quella di possesso, ricomprendendo tutte quelle situazioni nelle quali il bene stesso ricade nella sfera degli interessi economici del reo, ancorché il potere dispositivo su di esso venga esercitato tramite terzi, e si estrinseca in una relazione connotata dall’esercizio dei poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà). Ciò posto, nel caso di specie è indubbio che il ricorrente non sia il proprietario dei beni attinti dal provvedimento di confisca, essendo stati questi da lui donati ai figli, terzi apparentemente estranei rispetto al reato commesso, in data anteriore allo stesso provvedimento di sequestro preventivo che li ha colpiti. In punto di permanenza della effettiva disponibilità dei beni in questione in capo al V., la Corte territoriale, pur investita del relativo motivo di impugnazione, nulla dice, essendosi essa limitata ad osservare che la donazione “fu effettuata con una finalità indubbiamente strumentale, in quanto diretta a sottrarre i beni alla garanzia patrimoniale dell’ingente obbligazione tributaria già sussistente in capo alla M. spa”, di tal che, dovendosi presupporre “il c.d. consilium fraudis, deve ritenersi insussistente lo stato di buona fede sia del donante che dei suoi discendenti donatari”. In tal senso la Corte lucana – oltre ad avere introdotto (per altro in termini di indimostrata presupposizione) degli elementi, quali la non estraneità, attraverso un indimostrato consilium fraudis, degli attuali titolari dei beni alla ipotesi di reato, che avrebbe dovuto giustificare, come dianzi accennato, una contestazione di art. 11 del D.lgs. n. 74 del 2000, mai intervenuta – ha, altresì, dato per sufficiente, ai fini della dimostrazione della mera fittizietà della cessione e, pertanto, della permanenza della disponibilità dei beni in capo al cedente (pur nei termini dianzi delineati alla luce della giurisprudenza di questa Corte), il mero fatto che la cessione fosse stata eseguita in danno del creditore erariale. Ma si tratta di una ipostasi meramente assertiva priva di ampia affidabilità, posto che il cedente potrebbe avere realmente ceduto il bene, senza averne mantenuto alcuna effettiva disponibilità solo al fine di preferire a quella dell’Erario la posizione economica di altro soggetto; condotta questa in esito alla quale non ci sarebbero gli elementi per ritenere sussistere le condizioni per procedere, secondo i termini di cui al citato art. 12-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, alla confisca per equivalente di un valore pari all’importo del profitto o del prezzo conseguiti tramite la commissione del reato. Al riguardo, infatti, il Collegio rileva che l’argomento, speso dalla Corte territoriale in termini di pretesa adeguatezza motivazionale, appare, invece, come detto meramente assertivo, tanto da giustificare sul punto l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame, in punto di conservazione o meno da parte del V. della materiale disponibilità dei beni da questo ceduti con l’atto del 15 aprile 2015, alla Corte di appello di Salerno. Anche la censura in materia di mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena è, come dianzi accennato, fondato. Deve, infatti, premettersi che in sede di discussione conclusiva di fronte alla Corte di appello, la difesa del V. ebbe a chiedere, in estremo subordine, la concessione dei “benefici”; pur nella riportata laconicità, la espressione usata dal ricorrente appare inequivocabilmente destinata a sollecitare al giudice del gravame una favorevole pronunzia in materia di sospensione condizionale della pena, esclusa dal giudice di primo grado. Sul punto la Corte lucana,, allineandosi in punto di stringatezza motivazionale al contenuto dell’appello proposto d fronte a lei, ha rilevato che la particolare scaltrezza manifestata dal V. nel delinquere, l’entità della somma sottratta all’Erario e la mancanza di un qualche segno di resipiscenza da parte del ricorrente, oltre ad ostare ad una riduzione del trattamento sanzionatorio ed al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, erano fattori tali da rendere non “meritevole di approvazione ogni altra istanza diretta al conseguimento di benefici di legge”.Ritiene il Collegio che siffatta motivazione appaia inadeguata ad escludere la sussistenza degli elementi atti ad escludere che il V. potesse godere della sospensione condizionale della pena. Invero la motivazione in questione in alcun punto fa riferimento alla esistenza o meno della condizione necessaria per il riconoscimento o meno del beneficio in discorso, cioè la prognosi fausta o infausta in ordine al successivo comportamento dell’imputato; l’indagine del giudice del merito avrebbe dovuto avere ad oggetto la esistenza o meno di elementi atti a fare ritenere che, per il futuro, il V. si asterrà o meno dal commettere nuovamente reati. Non ignora il Collegio che in relazione alla motivazione in tema di sospensione condizionale della pena questa Corte ha rilevato che le ragioni del diniego di essa possono anche ritenersi implicite nella motivazione con cui il giudice neghi le circostanze attenuanti generiche, richiamando i profili di pericolosità del comportamento dell’imputato, dal momento che il legislatore fa dipendere la concessione del predetto beneficio dalla valutazione degli elementi indicati dall’art. 113 cod. pen. (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 7 dicembre 2020, n. 34754; idem Sezione III penale, 13 giugno 2019, n. 26191); ma, si osserva ora, in relazione alla concessione o meno della sospensione condizionale della pena, siffatte valutazioni debbono essere compiute, sia pure sulla base del medesimo materiale dimostrativo relativa alla valutazione sulla gravità del trattamento sanzionatorio, nell’ottica della verifica della solidità del quadro dimostrativo dell’effettivo pericolo di recidivanza; non a caso nelle fattispecie oggetto degli arresti sopra indicati, i prevenuti erano, infatti, tutti soggetti già pregiudicati e, pertanto, in qualche modo già adusi al delinquere.

Nel caso che ora interessa, invece, il V. ha subito solo alcune lontane condanne per reati bagatellari, in relazione alle quali ha beneficiato solamente una volta della sospensione condizionale della pena, in relazione peraltro ad un reato successivamente amnistiato. Tanto considerato, si rileva che nel caso in esame gli elementi dimostrativi ad altro fine segnalati dalla Corte di Potenza non appaiono tali da giustificare, a fronte di un soggetto apparentemente non proclive, quanto meno nell’attualità, al delinquere, la deduzione da essi (ed unicamente da essi non avendone la Corte territoriale segnalati altri), in assenza di un’esplicita motivazione che renda chiare le ragioni di tale convincimento in capo al giudice del merito, di una prognosi infausta in ordine al futuro comportamento dell’imputato.

Anche sotto il profilo adesso illustrato la sentenza impugnata deve, perciò, essere annullata con rinvio alla Corte di Salerno che provvederà, tenuto conto di quanto segnalato, al riguardo. Considerato che i motivi di ricorso accolti hanno ad oggetto esclusivamente aspetti, riguardanti il trattamento sanzionatorio, logicamente subordinati all’avvenuta affermazione della penale responsabilità dell’imputato, questa, visto l’art. 624 cod. proc. pen. non intaccata dall’avvenuto annullamento della sentenza della Corte lucana, deve essere considerata oramai definitivamente accertata.

PQM

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla confisca ed alla concedibilità della sospensione condizionale della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte di appello di Salerno.

Rigetta il ricorso nel resto. Visto l’art. 624 cod. proc. pen., dichiara la irrevocabilità della sentenza in ordine alla affermazione della penale responsabilità dell’imputato. Così deciso in Roma, il 19 novembre 2021

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