CASSAZIONE

Nessun avviso bonario per le cartelle del canone Rai

La Cassazione, con la sentenza n. 11051 del 9 maggio 2018, ha stabilito che in tema di abbonamento televisivo le cartelle di pagamento non richiedono alcun avviso bonario.

L’avviso bonario è una comunicazione con la quale l’ Agenzia delle Entrate informa il contribuente del controllo effettuato sulla sua dichiarazione dei redditi, evidenziando eventuali imposte e contributi che non risultano pagati.

Ricordiamo, però, che con una recente pronunzia – l’ordinanza n. 21020 depositata in data 8 settembre 2017 – i giudici di piazza Cavour hanno confermato il principio secondo cui l’obbligo di contraddittorio preventivo in tutte le ipotesi in cui debba procedersi a iscrizione a ruolo di somme scaturenti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, sussiste solo nel caso in cui vi siano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione.

L’avviso bonario è una semplice comunicazione, della quale il soggetto interessato può richiedere l’annullamento o la rettifica qualora ritenga infondata la richiesta, come ad esempio in caso di errori che possono configurarsi nell’indicazione dell’anno d’imposta o del codice del tributo, determinando in realtà una richiesta di imposte regolarmente versate.

Il canone di abbonamento radiotelevisivo, tuttavia, costituisce una prestazione di natura tributaria il cui obbligo deriva, non da un rapporto di natura contrattuale, bensì dal fatto della mera detenzione di un apparecchio radiofonico o televisivo, al quale si ricollega il potere di imposizione dello Stato quale titolare della potestà di gestione dell’etere.

Essendo un’entrata tributaria, la giurisdizione sulla debenza del canone di abbonamento radiotelevisivo, dovuto indipendentemente dalla effettiva fruizione del servizio, spetta al giudice tributario ai sensi dell’art. 2, D.lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 12, comma 2, legge n. 448/2001.

Peraltro, la giurisdizione sul contenzioso in ordine alla debenza del canone Rai appartiene alla giurisdizione del giudice tributario, al quale compete anche dirimere le questioni relative all’esatta individuazione del soggetto nei cui confronti deve essere promossa l’azione giudiziaria e alla regolarità della notifica.

Questo principio, statuito dalla Cassazione civile con la sentenza n. 24010 del 20/11/2007, è specificato dall’iter logico giuridico adottato da tale pronuncia, che così recita: “… È fuor di dubbio che oggetto del giudizio sia la debenza – contestata dal contribuente – del canone abbonamento radiotelevisivo: quest’ultimo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’Ente – la RAI, appunto – che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, ma si tratta di una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo (cosi la Corte costituzionale nella sentenza n. 284 del 2002). Essendo un’entrata tributaria, la giurisdizione sulla debenza del canone di abbonamento radiotelevisivo spetta, come le Sezioni Unite hanno già avuto modo di affermare, al giudice tributario ai sensi dell’art. 2, D.lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall’art. 12, comma 2, L. n. 448 del 2001 (Cass. S.U. n. 20068 del 2006)”.

Inoltre, dal 2016 l’annualità del canone Rai si paga a rate nella bolletta elettrica mensile per i residenti titolari di una fornitura ed è dovuta obbligatoriamente da chiunque abbia un apparecchio televisivo.

Il possesso della televisione tuttavia viene ‘presunto’, il che significa che i titolari di una fornitura di energia elettrica vedranno addebitato il costo del canone Rai direttamente in bolletta; per gli altri si usa il modello F24. Il fatto di avere sottoscritto un’utenza elettrica è motivo bastante a far presumere all’Agenzia delle Entrate che ci sia automaticamente la detenzione di un apparecchio televisivo ricevente il segnale.

Il termine di prescrizione del canone Rai, così come per quasi tutti i tributi, avviene con il decorso di 10 anni in caso di riscossione tramite cartelle esattoriali. Il termine decorre dalla fine di gennaio dell’anno in cui va corrisposto il canone, e tale prescrizione decennale è stata confermata dalla Cassazione con la sentenza n. 18432/2005.

Ciò significa che una eventuale cartella Equitalia (ora Agenzia delle Entrate Riscossione) con oggetto il pagamento del Canone Rai si prescrive in 10 anni, se entro tale periodo di tempo l’ex Equitalia non ha notificato alcun atto al contribuente.

Se tali notifiche non arrivano trascorsi i dieci anni, l’eventuale cartella con la richiesta del pagamento del canone Rai non può più essere riscossa dall’Agenzia delle Entrate, perché scaduta.

Tanto premesso, tornando al caso in esame, la vicenda nasce dalla comunicazione a un contribuente di alcune cartelle di pagamento relative al saldo dei canoni di abbonamento televisivo per gli anni di imposta 2003, 2004 e 2005. Il ricorrente, però, dichiarava che le cartelle di pagamento eramo viziate dal fatto di non essere state precedute da un avviso bonario.

La Cassazione, tuttavia, non ha condiviso le argomentazioni della difesa, anzi ha affermato che : “… Secondo il primo comma dell’art. 6 (Conoscenza degli atti e semplificazione) della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente ) «L’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati»; inoltre, secondo il quinto comma dello steso articolo, «Prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta»; infine, secondo il seguente art. 7 della stessa legge (chiarezza e motivazione degli atti), «Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione». Deve altresì considerarsi che il R.D.L. 21 febbraio 1938, n. 246, prevede all’art. 1 che «chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento» e la Suprema Corte ha chiarito che l’obbligo di pagamento del canone di abbonamento al servizio radiotelevisivo pubblico discende dalla mera detenzione – ancorché in zona non coperta dal servizio stesso, per mancanza di idoneo ripetitore – di un apparecchio che si caratterizzi per attitudine o adattabilità alla ricezione di qualsiasi emittente radiofonica o televisiva, italiana o straniera, pubblica o privata (Cass. 20 aprile 2016, n. 7942; 13 settembre 1993, n. 9486). Pertanto, gli artt. 6 e 7 non impongono l’obbligo di un avviso bonario o del contraddittorio prima dell’emissione di qualsiasi cartella di pagamento ma solo per quelle che derivino da una dichiarazione del contribuente e solo nel caso in cui sussistano rilevanti incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione (Cass. 21 novembre 2017, n. 27716), situazione, quest’ultima, che non ricorre nella specie, ove la somma è dovuta per il semplice fatto oggettivo del possesso di una televisione, e questa circostanza fattuale è necessaria e sufficiente a giustificare il pagamento del canone”.

 

Corte di Cassazione Sentenza 9 maggio 2018, n. 11051

Sul ricorso 15197-2011 proposto da:

  1. C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CIGLIANO, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché contro EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 30/2010 della COMM.TRIB.REG. di TORINO, depositata il 26/04/2010; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/03/2018 dal Consigliere Dott. LORENZO DELLI PRISCOLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato CIGLIANO che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALATIELLO che ha chiesto il rigetto.

FATTI DI CAUSA

Il contribuente C. S. ricorreva davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino lamentando l’illegittimità di due cartelle di pagamento dell’importo l’una di euro 389,42 e l’altra di euro 132,93 notificate entrambe in data 4 giugno 2008 – e relative la prima a saldo dei canoni di abbonamento alla televisione per gli anni d’imposta 2003, 2004 e 2005 e la seconda per l’anno d’imposta 2006 – per una serie di vizi formali riguardanti le notifiche, tra cui il fatto che le cartelle di pagamento non fossero state precedute da un avviso bonario, e nel merito per violazione delle norme dell’Unione europea in tema di concorrenza.

La Commissione Tributaria Provinciale di Torino, con sentenza n. 50/17/2009, depositata il 6 aprile 2009, respingeva il ricorso.

Il contribuente proponeva appello e la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, con sentenza n. 30/12/10, lo respingeva.

Avverso tale sentenza il contribuente proponeva ricorso, affidato a tre motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, la quale si costituiva con controricorso con il quale chiedeva che il ricorso sia dichiarato inammissibile o comunque infondato.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, il ricorrente S. deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 6 e 7 della legge n. 212 del 2000 (Statuto del contribuente), in relazione all’art. 24 Cost., nonché dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, dell’art. 1, comma 5, ter., lett. a), n. 2, del D.L. 26 gennaio 2005, n. 106, convertito in legge n. 156 del 2005, dell’art. 1, comma 417, lett. c, della legge n. 311 del 2004, in quanto la notifica delle cartelle di pagamento non sarebbe stato preceduto da un avviso bonario.

Il motivo è infondato.

Secondo il primo comma dell’art. 6 (Conoscenza degli atti e semplificazione) della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente ) «L’amministrazione finanziaria deve assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati»;

inoltre, secondo il quinto comma dello steso articolo, «Prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta»;

infine, secondo il seguente art. 7 della stessa legge (chiarezza e motivazione degli atti), «Gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione».

Deve altresì considerarsi che il R.D.L. 21 febbraio 1938, n. 246, prevede all’art. 1 che «chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento» e la Suprema Corte ha chiarito che l’obbligo di pagamento del canone di abbonamento al servizio radiotelevisivo pubblico discende dalla mera detenzione – ancorché in zona non coperta dal servizio stesso, per mancanza di idoneo ripetitore – di un apparecchio che si caratterizzi per attitudine o adattabilità alla ricezione di qualsiasi emittente radiofonica o televisiva, italiana o straniera, pubblica o privata (Cass. 20 aprile 2016, n. 7942; 13 settembre 1993, n. 9486).

Pertanto, gli artt. 6 e 7 non impongono l’obbligo di un avviso bonario o del contraddittorio prima dell’emissione di qualsiasi cartella di pagamento ma solo per quelle che derivino da una dichiarazione del contribuente e solo nel caso in cui sussistano rilevanti incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione (Cass. 21 novembre 2017, n. 27716), situazione, quest’ultima, che non ricorre nella specie, ove la somma è dovuta per il semplice fatto oggettivo del possesso di una televisione, e questa circostanza fattuale è necessaria e sufficiente a giustificare il pagamento del canone.

Con il secondo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 7, comma 6, della legge n. 890 del 1982 perché le cartelle sarebbero state notificate ad un familiare del contribuente e non sarebbe stato esibito l’avviso della seconda raccomandata che va inviata nell’ipotesi di consegna dell’atto a mezzo del servizio postale non effettuata direttamente al destinatario.

Anche tale motivo è infondato in quanto la notifica ha comunque raggiunto il suo scopo ex art. 156, comma 2, cod. proc. civ., ossia quello di far conoscere al contribuente il contenuto delle cartelle oggetto di impugnazione (Cass. 17 ottobre 2017, n. 24450); del resto il contribuente non ha prospettato le ragioni per le quali tale vizio avrebbe comportato una lesione del diritto all’effettività della tutela giurisdizionale ed al giusto processo.

Infatti, la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass. 21 novembre 2016, n. 23638).

Deve infine evidenziarsi che il principio della sanatoria della notifica per raggiungimento dello scopo vale anche in tema di atti impositivi (Cass. 9 agosto 2017, n. 19795). Con il terzo motivo d’impugnazione, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 7, primo comma, del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 111 Cost. perché il canone RAI costituirebbe un aiuto di Stato contrario ai principi dell’Unione europea in tema di concorrenza. Anche quest’ultimo motivo è infondato.

Infatti, secondo questa Corte, l’art. 107 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, secondo cui sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra gli Stati membri, gli “aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”, non implica l’assoluta incompatibilità degli aiuti di Stato con gli interessi ed i valori tutelati dall’ordinamento comunitario, essendo piuttosto inteso a riservare la competenza agli organi comunitari di ogni decisione in merito a tali misure.

Dal suo canto, l’art. 108 del suddetto Trattato prevede che gli aiuti esistenti siano sottoposti ad “esame permanente”, riservandone il giudizio di incompatibilità alla Commissione, onde l’aiuto esistente non può, prima di una valutazione di incompatibilità, essere considerato illegittimo.

Ne consegue che, nell’ipotesi di imposta destinata alla realizzazione di un aiuto di Stato esistente, qual è il canone Rai – alla stregua della decisione della Commissione Europea del 20 aprile 2005 n. E 9/2005, conforme alla giurisprudenza comunitaria – non sussiste il diritto del contribuente di agire in giudizio per ottenere il rimborso del canone di abbonamento, o la declaratoria di illegittimità dell’aiuto, il quale deve ritenersi, finché non ne sia stata rilevata l’incompatibilità da parte della Commissione, del tutto legittimo (Cass. 26 marzo 2012, n. 4776).

Il ricorso va dunque rigettato; la disciplina delle spese segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 900, oltre a spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione tributaria della Corte di Cassazione, il 7 marzo 2018.

 

 

 

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