CASSAZIONE FISCALITA

Nell’accertamento il giudice tributario può sostituirsi all’Ufficio per determinare l’imposta evasa

Tributi – IVA – IRAP – Accertamento – Albergo – Ristorante – Pizzeria – Inattendibilità ricavi e reddito dichiarato – Determinazione ricavi omessi – Misura riferibile al compenso minimo di sostentamento per ciascuno dei soci che operano in azienda – Legittimità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7695 del 6 aprile 2020, sebbene abbia confermato l’operato dell’Agenzia delle Entrate che negli anni precedenti aveva rettificato i corrispettivi dichiarati da un’attività di ristorazione, ha anche affermato che se il giudice tributario ritiene invalido l’avviso di accertamento per motivi di carattere sostanziale, e riconosce l’incongruenza dell’imponibile accertato dall’Ufficio, ha anche il dovere di decidere sul merito e accertare egli stesso la maggiore imposta dovuta, entro i limiti posti dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e delle dichiarazioni rese dal contribuente.

In altre parole, secondo quanto affermato dagli Ermellini, il giudice tributario ha il compito di decidere in merito e accertare la maggiore imposta dovuta, sostituendosi all’ufficio per la determinazione dell’imposta evasa, in particolare quando ritiene non valido l’avviso di accertamento per motivi di carattere sostanziale e riconosce l’incongruenza dell’imponibile accertato.

Secondo i giudici del Palazzaccio di Piazza Cavour, infatti, un imprenditore non può dichiarare meno di un quello che guadagna mediamente un dipendente del settore.
Per tali motivi, dopo l’attività istruttoria, l’Amministrazione finanziaria aveva constatato che la società avesse redatto bilanci costantemente in perdita e che risultassero ulteriori indizi di evasione, quali: la discordanza tra le fatture, gli scontrini e le ricevute fiscali emessi e i Pos incassati; le incongruenze emerse tra il numero di contenitori di pizza da asporto e le pizze indicate nelle ricevute degli scontrini; le quantità di coperti risultanti nelle ricevute fiscali, che risultavano superiori rispetto a quelli indicati.

Sulla base di tali elementi l’ufficio aveva rideterminato in maniera analitica-induttiva il reddito presunto della società. A tutto questo si aggiungeva il fatto che dai bilanci societari degli ultimi anni risultava che l’attività di ristorazione e ricezione aveva sempre chiuso in perdita, tanto che i proprietari-gestori non avevano mai dichiarato alcun imponibile ai fini fiscali.
Poiché il giudizio tributario è, come è noto, di “impugnazione-merito”, il giudice, una volta valutata l’incongruità dei ricavi dichiarati rispetto ai costi sostenuti dall’impresa, ove non ritenga corretto il calcolo dell’Ufficio può autonomamente rideterminare il maggior imponibile accertato sulla base degli elementi acquisiti dall’Agenzia.

A tal fine è legittimo determinare il nuovo reddito al pari del costo medio di un dipendente del settore di riferimento, maggiorato del rischio di impresa al 40%.

Secondo una recente giurisprudenza, e ci soffermiamo a citare l’ordinanza 8 gennaio 2015, n. 106 della sesta sezione della Corte di Cassazione che segue l’orientamento basato sulle disposizioni di cui all’art. 35, DPR n. 636/72, in cui emerge che il processo tributario non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, bensì tra quelli di impugnazione-merito: esso non mira alla mera eliminazione dell’atto impugnato, ma è diretto alla pronunzia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria.

Dunque, il giudice tributario che ravvisi l’infondatezza parziale della pretesa dell’Amministrazione non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare l’esatta pretesa tributaria entro i limiti posti dal petitum delle parti, onde ricondurla alla corretta misura.

Tanto premesso, e tornando al caso di specie, la società ha impugnato un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate aveva rettificato i corrispettivi dichiarati per l’attività di albergo e di ristorante/pizzeria perché ritenuti non congrui.
Le parti sono arrivate di fronte alla Cassazione dopo che la Commissione Tributaria Provinciale aveva parzialmente accolto le ragioni dei gestori dell’attività imprenditoriale, mentre la Commissione Tributaria Regionale aveva rideterminato il reddito dei ricorrenti in base al compenso minimo di sostentamento dei soci.

Da notare che sia la società che l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso per cassazione, quest’ultima lamentando violazione dell’art. 41-bis, DPR n. 600/73 e dell’art. 54, DPR n. 633/72 per avere la CTR, nella determinazione del reddito d’impresa, adottato un criterio di accertamento in violazione delle norme sopra richiamate e non in base agli elementi probatori forniti dall’ufficio, che aveva evidenziato l’assenza totale di utili di gestione nel triennio 2004/2006, pur a fronte di un volume di affari in crescita.

La Cassazione, pur accertando l’incongruità della dichiarazione iniziale dell’impresa ricettiva, riconosceva le ragioni della decisione dell’Agenzia delle Entrate anche confermando il metodo di calcolo utilizzato, considerando però infondata la doglianza dell’Ufficio e rigettando il ricorso.
I giudici di legittimità hanno pertanto puntualizzato che: “ … Con il proprio motivo, i contribuenti deducono la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed e il pronunciato, ai sensi dell’articolo 360, comma primo, n. 4 c.p.c., per essersi il giudice di appello sostituito all’ufficio tributario e formulato un suo proprio accertamento di presunta evasione fondato su criteri inediti e non razionali; – l’Agenzia delle Entrate, a sua volta, deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 41 bis del d.P.R. n. 600/73, dell’art. 54 del d.P.R. 633/72, dell’art. 2697 c.c. e dell’art.115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver la CTR, nella determinazione del reddito d’impresa, adottato un criterio di accertamento in violazione delle norme sopra richiamate e non in base agli elementi probatori forniti dall’ufficio, che aveva evidenziato l’assenza totale di utili di gestione nel triennio 2004/2006, pur a fronte di un volume di affari in crescita;

– il motivo formulato dai contribuenti in termini di omessa pronuncia è inammissibile in quanto l’eventuale violazione – da parte del giudice del merito – dei limiti posti dall’art. 112 c.p.c. non determina nullità assoluta della sentenza, ma può integrare i vizi di motivazione o di violazione di legge, denunciabili come tali ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 o 5 c.p.c.;

– la doglianza dell’Agenzia è infondata;

– il giudizio tributario non si connota come un giudizio di “impugnazione – annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione – merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio;

– discende che ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, riconosciuta l’incongruenza dell’accertamento dell’Ufficio, ha il dovere di decidere sul merito ed accertare la maggiore imposta dovuta;
– la CTR ha adempiuto a questo obbligo in quanto, valutata la incongruità dei ricavi e dei redditi dichiarati, sulla base degli elementi acquisiti dall’ufficio, ritenuti sufficienti a supportare l’evasione addebitata (acquisto di cartoni contenitori per pizza di asporto in “misura eclatante e molto superiore rispetto alle pizze fatturate”; indicazione di coperti molto superiore rispetto ai piatti consumati; impossibilità di sostentamento dei soci in presenza di perdite consistenti e ricorrenti), senza invertire i criteri dell’onere probatorio, ha svolto un ragionamento, non di equità, ma di merito, utilizzando parametri fondati sulla concreta situazione aziendale;

– la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 6 aprile 2020, n. 7695

sul ricorso 28839-2012 proposto da:
V. D., V. M., V. G., ALBERGO A. DI V. G & C SAS, con domicilio eletto in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’Avvocato CECILIA ELEONORA ESTRANGEROS;
– ricorrenti –
contro AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –
nonché da AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, con domicilio eletto in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente successivo –
contro V. D., V. M., V. G., ALBERGO A. DI V. G & C SAS

– intimati –
avverso la sentenza n. 41/2012 della COMM.TRIB.REG. di GENOVA, depositata il 09/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/12/2019 dal Consigliere Dott. ADET TONI NOVIK.
RILEVATO CHE:
– Albergo Aurora s.a.s. di V. G. & c., nonché i soci V. Giuseppe, V. Daniela e V. Maria, e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria, depositata il 9 maggio 2012, con cui, in accoglimento parziale dell’appello dei medesimi proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva a sua volta accolto parzialmente il ricorso da essi proposto per l’annullamento dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2006 per Iva, Irpef e Irap, sono stati determinati in euro 84.000 i maggiori ricavi accertati in capo alla società; Irap e Iva di conseguenza;

– dall’esame della sentenza di appello si evince che l’Ufficio aveva rettificato i corrispettivi dichiarati per l’attività di albergo e ristorante/pizzeria da euro 467.110 a euro 596.650, e il reddito di impresa rettificato da perdita pari a euro 21.483 a un utile di euro 108.072, in relazione a

– discordanze tra fatture emesse, scontrini e ricevute fiscali e i Pos incassati;
– discordanze tra i cartoni contenitori pizza di asporto e le pizze indicate delle ricevute degli scontrini;
– ricevute fiscali nelle quali risultavano indicate quantità di coperti molto superiore rispetto ai piatti indicati;
– la società, inoltre, aveva sempre redatto bilanci in perdita e ugualmente in perdita veniva dichiarato il reddito a fini fiscali;
– il giudice di primo grado aveva ridotto del 30% i ricavi accertati;
la sentenza era stata impugnata dai contribuenti e, con ricorso incidentale, dall’agenzia;
– la CTR riteneva:
– non dirimente la mancata concordanza tra Pos e ricevute fiscali;
– che gli elementi forniti dall’ufficio rendevano comunque inattendibili i ricavi ed il reddito dichiarato;
– che le giustificazioni dei contribuenti non erano sufficienti a superare la presunzione di evasione;
– in conseguenza riteneva di determinare i ricavi omessi “nella misura riferibile al compenso minimo di sostentamento per ciascuno dei soci che operano in azienda: euro 42.000 x 2 uguale euro 84.000 (costo medio di un dipendente del settore euro 30.000 maggiorato del rischio d’impresa 40%);
– entrambi i ricorsi sono affidati a un motivo;
CONSIDERATO CHE:
– preliminarmente si rileva che il ricorso dei contribuenti è stato notificato a mezzo ufficiale giudiziario all’Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Genova, in data 17/12/12;
quello dell’Avvocatura generale dello Stato è stato consegnato per la notifica all’UNEP della Corte di appello di Roma il 18/12/12;
– .pertanto, il principio dell’unicità del processo d’impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione (nella specie quella di Albergo A.), tutte le altre devono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso, con la conseguenza che ogni ricorso successivo al primo si

converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale (Sez. 5, Sentenza n. 16221 del 2014).

– Con il proprio motivo, i contribuenti deducono la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed e il pronunciato, ai sensi dell’articolo 360, comma primo, n. 4 c.p.c., per essersi il giudice di appello sostituito all’ufficio tributario e formulato un suo proprio accertamento di presunta evasione fondato su criteri inediti e non razionali;

– l’Agenzia delle Entrate, a sua volta, deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 41 bis del d.P.R. n. 600/73, dell’art. 54 del d.P.R. 633/72, dell’art. 2697 c.c. e dell’art.115 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver la CTR, nella determinazione del reddito d’impresa, adottato un criterio di accertamento in violazione delle norme sopra richiamate e non in base agli elementi probatori forniti dall’ufficio, che aveva evidenziato l’assenza totale di utili di gestione nel triennio 2004/2006, pur a fronte di un volume di affari in crescita;

– il motivo formulato dai contribuenti in termini di omessa pronuncia è inammissibile in quanto l’eventuale violazione – da parte del giudice del merito – dei limiti posti dall’art. 112 c.p.c. non determina nullità assoluta della sentenza, ma può integrare i vizi di motivazione o di violazione di legge, denunciabili come tali ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3 o 5 c.p.c.;

– la doglianza dell’Agenzia è infondata;
– il giudizio tributario non si connota come un giudizio di “impugnazione – annullamento”, bensì come un giudizio di “impugnazione – merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio;

– discende che ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, riconosciuta l’incongruenza dell’accertamento dell’Ufficio, ha il dovere di decidere sul merito ed accertare la maggiore imposta dovuta;
– la CTR ha adempiuto a questo obbligo in quanto, valutata la incongruità dei ricavi e dei redditi dichiarati, sulla base degli elementi acquisiti dall’ufficio, ritenuti sufficienti a supportare l’evasione addebitata (acquisto di cartoni contenitori per pizza di asporto in “misura eclatante e molto superiore rispetto alle pizze fatturate”; indicazione di coperti molto superiore rispetto ai piatti consumati; impossibilità di sostentamento dei soci in presenza di perdite consistenti e ricorrenti), senza invertire i criteri dell’onere probatorio, ha svolto un ragionamento, non di equità, ma di merito, utilizzando parametri fondati sulla concreta situazione aziendale;

– la reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta i ricorsi; spese compensate.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 12 dicembre 2019.

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