CASSAZIONE

Maxi imposta sui diritti di opzione ceduti a terzi

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 10240 del 26 aprile 2017, ha ribadito che l’atto con il quale il socio titolare del diritto di opzione rinveniente da un aumento di capitale sociale ceda a terzi a titolo oneroso detto diritto, è soggetto a imposta di registro con aliquota del 3%. Una sentenza che possiamo definire innovativa perché ribalta una analoga, seppur datata, pronunzia di legittimità (Cass. n. 11466/2005) che evidenziava come nell’esame dell’operatività della cessione del diritto di opzione si realizzino effetti in tutto simili ad una cessione di partecipazioni. Pertanto, riteneva la Corte, sebbene la quota di partecipazione al capitale della Srl abbia natura giuridica diversa dal diritto alla sottoscrizione dell’aumento di capitale, gli effetti giuridici della cessione del diritto di opzione paiono assimilabili a quelli della cessione delle partecipazioni, e ai fini dell’imposizione diretta l’equiparazione tra le due fattispecie è espressamente sancita dal TUIR. Inoltre, atteso che l’art. 20 del DPR 131/86 consente di privilegiare, nell’applicazione dell’imposta di registro, la valutazione degli effetti giuridici degli atti anche a scapito del titolo o della forma di essi, si ritiene che la cessione del diritto di sottoscrivere l’aumento di capitale possa essere assoggettato a imposta di registro fissa (200 euro) a norma dell’art. 11 della Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/86, assimilando tale atto ad una “negoziazione” di partecipazioni.

Ora però, ritengono gli Ermellini, la questione di diritto riguarda il regime di tassazione, ai fini dell’imposta di registro, dell’atto (nella specie una scrittura privata autenticata) con il quale i soci di una società per azioni trasferiscono a terzi il diritto di opzione di cui all’art. 2441 cod. civ. In particolare, si vuole chiarire se l’atto in discussione, laddove non risulti – come nel caso in esame – che il cessionario abbia esercitato il diritto di opzione, debba essere sottoposto al regime dell’imposta proporzionale di registro del 3% di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al DPR 131/1986, oppure debba scontare la sola imposta fissa di registro ai sensi dell’art. 11 della citata Tariffa.

La soluzione del quesito presuppone una breve analisi dei caratteri principali del diritto di opzione previsto dall’art. 2441 cod. civ., al fine di verificare la correttezza dell’affermazione della Commissione Tributaria Regionale, secondo cui “l’operazione di cessione dei diritti di opzione non può essere assolutamente disgiunta da quella di acquisto (negoziazione) di nuove azioni della Banca Federiciana S.P.A., essendo, nella sua specificità, un unicum inscindibile”. L’esigenza di tenere inalterato il valore reale della partecipazione azionaria, continua il collegio giudicante, denota il contenuto patrimoniale del diritto di opzione. Di qui, l’indiscussa conclusione che il diritto di opzione nella società per azioni assume un valore economico in sé, potendo essere oggetto liberamente di disposizione a favore di terzi (in questi termini, Cass. n. 10879 del 2007). Altro indice del carattere patrimoniale del diritto di opzione è rinvenibile nella circostanza che la delibera di aumento di capitale potrebbe fissare, per il collocamento delle azioni rimaste inoptate, un prezzo diverso e maggiore rispetto a quello previsto per l’azione. I titolari del diritto di opzione possono esercitare il loro diritto – per intero o anche in parte – oppure non esercitarlo affatto, ovvero possono monetizzarlo facendolo oggetto di cessione, il cui corrispettivo dipende dalle situazioni concrete. Il mancato esercizio del diritto di opzione nei termini stabiliti ne comporta la decadenza.

L’emissione di nuove azioni, dunque, è una circostanza solo potenzialmente idonea a modificare la quota di partecipazione sociale. Le nuove azioni possono rimanere inoptate e l’aumento di capitale risultare scoperto. Ed invero, soltanto con il successivo esercizio del diritto di opzione si realizza l’effettiva attribuzione della quota di partecipazione sociale, con (eventuale) modifica del novero dei soci ed incidenza sulla quota di partecipazione di ciascuno al capitale sociale. È in tale momento che si producono gli stessi effetti del trasferimento della quota con effettiva assegnazione dei titoli (acquisto delle nuove azioni). La mera cessione del diritto di opzione, per converso, non comporta affatto la cessione della partecipazione sociale, ma il titolare del diritto di opzione può raggiungere tale risultato, che dipende dal successivo esercizio del diritto di opzione ceduto. L’alienazione del diritto di opzione è un negozio che consente l’acquisto della partecipazione sociale da parte del cessionario, ma non è certo che tale effetto si verifichi, sussistendo uno iato tra i due momenti dell’operazione. Il terzo che voglia acquisire la partecipazione sociale, per soddisfare tale interesse, deve esercitare il diritto di opzione cedutogli.

Dalle considerazioni finora svolte si evince l’errore in cui è incorso il giudice del merito nel ritenere che la cessione del diritto di opzione e l’acquisto dell’azione costituiscano unicum inscindibile: la cessione dei diritti di opzione, come si è sopra osservato, non realizza automaticamente e di per sé l’effetto traslativo della partecipazione sociale. Ne deriva che l’operazione di cessione del diritto di opzione, per le sue descritte particolarità, non può essere tout court assimilabile alla negoziazione di partecipazioni societarie, in difetto dell’equivalenza cessione del diritto di opzione – cessione della partecipazione sociale.

Riportano i Supremi giudici: “Dalle considerazioni finora svolte, si evince l’errore in cui è incorso il giudice del merito, nel ritenere che la cessione del diritto di opzione e l’acquisto dell’azione costituiscano unicum inscindibile. La cessione dei diritti di opzione, come si è sopra osservato, non realizza automaticamente e di per sé l’effetto traslativo della partecipazione sociale. Ne deriva che l’operazione di cessione del diritto di opzione, per le sue descritte particolarità, non può essere tout court assimilabile alla negoziazione di partecipazioni societarie, in difetto dell’equivalenza cessione del diritto di opzione – cessione della partecipazione sociale. Nel caso in esame, non risulta che la cessionaria GBM Gruppo bancario Mediterraneo holding s.p.a. abbia esercitato i diritti di opzione cedutigli dai soci della Banca Federiciana s.p.a. I controricorrenti, nel corso del giudizio, non ha dedotto alcunché in proposito sebbene l’Ufficio, nel ricorso per cassazione, abbia proprio rilevato il difetto di prova dell’acquisto di azioni (v. pag. 10). In considerazione delle specifiche circostanze che caratterizzano la fattispecie concreta ora in esame non può ritenersi che si sia in presenza di una negoziazione di partecipazione sociale e, quindi, considerato l’indubbio carattere economico-patrimoniale del diritto di opzione, deve affermarsi che l’atto de quo deve soggiacere alla imposta proporzionale di registro prevista dalla residuale disposizione di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. In proposito, deve notarsi che il precedente giurisprudenziale invocato dai controricorrenti nelle proprie note ex art. 378 cod. proc. civ. (Cass. 30 maggio 2005, n. 11466) si è occupato di un caso non perfettamente coincidente con la fattispecie concreta ora in esame. In quella occasione, la Corte di legittimità ritenne che l’atto di cessione dei diritti di opzione dovesse essere registrato a tassa fissa ai sensi dell’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, sul presupposto che l’operazione negoziale realizzava sostanzialmente una negoziazione di quote sociali. Tuttavia, dalla lettura del provvedimento si evince che si trattava di una ipotesi in cui era pacifico che il cessionario avesse esercitato il diritto di opzione, sottoscrivendo le quote di capitale sociale della società emittente e divenendone il titolare.

Pertanto gli Ermellini, dando così sostanza al ricorso dell’Agenzia delle Entrate, enunciano il seguente principio di diritto, secondo cui: “in tema di imposta di registro, l’atto di cessione del diritto di opzione attribuito ai soci ex art. 2441 cod. civ., in caso di mancato esercizio dello stesso da parte del cessionario, è sottoposto all’aliquota proporzionale del 3% di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 e non a quella fissa contemplata dall’art. 11 della stessa tabella, posto che, in tale ipotesi, non può parlarsi stricto sensu di negoziazione di partecipazioni societarie”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza n. 10240 del 26 aprile 2017

Ritenuto in fatto

  1. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a unico motivo, avverso la sentenza n. 72/14/2012 della Commissione tributaria regionale di Bari con la quale, in riforma di sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bari, era stato accolto il ricorso proposto dalla GBM Gruppo Bancario Mediterraneo Holding s.p.a. e dal notaio F. R. avverso un avviso di liquidazione di imposta di registro e di sanzioni in relazione ad un atto di cessione di diritti di opzione su azioni. In particolare, il giudice di secondo grado, accogliendo uno dei motivi di gravame e ritenendo assorbiti gli altri, affermava che, essendo l’operazione di cessione dei diritti di opzione finalizzata a consentire ai cessionari il diritto di accedere all’acquisto di nuove azioni emesse dalla Banca Federiciana s.p.a. per aumentare il capitale sociale, si versava in ipotesi di negoziazione di quote di partecipazione, rientrante fra quelle previste dall’art. 11 della Tariffa, sottoposte a tassazione in misura fissa, anziché fra quelle previste dall’art. 9 della Tariffa, sottoposte a tassazione in misura proporzionale.
  2. La predetta Società e il notaio Francesco Rinaldi si sono costituiti con controricorso e ricorso incidentale condizionato. In seguito hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ., insistendo per l’accoglimento delle conclusioni esposte nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

  1. L’Ufficio ricorrente lamenta, richiamando l’art. 360, comma primo n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 9 e 11 della Tariffa, parte I, d.P.R. 131 del 1986. Sulla base della natura del diritto di opzione, che consente di acquistare successivamente una partecipazione sociale ma non equivale in sé al suo acquisto, non si versa, nel caso in esame, in una operazione di negoziazione di quote sociali, ma solo in un caso di cessione di un diritto, sottoposta a tassazione in misura proporzionale.
  2. La Società resistente e il notaio Rinaldi hanno sostenuto che il ricorso principale è infondato e, in via incidentale condizionata, hanno affermato che la sentenza impugnata in via principale dalla controparte sarebbe nulla, per violazione degli artt. 35 e 61 d.l.vo n. 546 del 1992, 276 e 277 cod. proc. civ. Il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere assorbito il motivo di gravame riguardante l’omessa motivazione dell’avviso di liquidazione, poiché avrebbe dovuto comunque pronunciarsi su detto motivo.
  3. Preliminarmente, vanno disattese le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dai controricorrenti, con le quali si sostiene che l’impugnazione in esame, in violazione dei parametri indicati dagli artt. 360, comma 1, n. 3, 366, comma 1, nn. 3 e 4, e 360 bis cod. proc. civ., postulerebbe – con doglianze generiche – la valutazione di una questione di fatto e conterrebbe una sommaria esposizione dei fatti di causa, senza offrire, peraltro, elementi idonei a far mutare l’orientamento giurisprudenziale sul tema oggetto del giudizio.

In proposito, si osserva che l’esposizione dei fatti di causa contenuta nel ricorso è sufficientemente idonea al fine della comprensione dei termini della controversia. Il ricorso, poi, non chiede una nuova valutazione di fatto sulla qualificazione giuridica dell’atto sottoposto a tassazione, ma – con censure adeguatamente articolate – contesta l’errata applicazione, da parte del giudice d’appello, della normativa in materia di imposta di registro e prospetta una questione di diritto. Segnatamente, le deduzioni di parte ricorrente sollevano un problema interpretativo in ordine al coordinamento delle discipline recate dalle disposizioni di cui agli artt. 9 e 11, Tariffa, parte I, d.P.R. 131 del 1986, con riguardo al regime di imposizione degli atti di cessione di diritti di opzione su azioni: secondo la tesi erariale – espressa nel ricorso in esame – detta operazione sarebbe sottoposta al regime fiscale previsto dall’art. 9; all’opposto, per la soluzione interpretativa propugnata dal contribuente – e fatta propria dal giudice di appello – la stessa operazione dovrebbe ricadere nel più favorevole regime previsto dall’art. 11.

Al riguardo, deve rammentarsi che, in tema di ammissibilità del ricorso di legittimità, il vizio di violazione di legge (art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.) consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica quindi, necessariamente, un problema di interpretazione della legge stessa (Cass. civile, sez. III, 18/09/2007, n. 19360).

Nella specie, il ricorso in esame soddisfa pienamente tali requisiti.

  1. Il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate è fondato e, pertanto, l’impugnazione va accolta.

Come anticipato, la questione di diritto sottoposta all’esame del Collegio concerne il regime di tassazione, ai fini dell’imposta di registro, dell’atto (nella specie una scrittura privata autenticata) con il quale i soci di una società per azioni trasferiscono a terzi il diritto di opzione di cui all’art. 2441 cod. civ. In particolare, occorre chiarire se l’atto in discussione, laddove non risulti – come nel caso in esame – che il cessionario abbia esercitato il diritto di opzione, debba essere sottoposto al regime dell’imposta proporzionale di registro del 3% di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, oppure debba scontare la sola imposta fissa di registro ai sensi dell’art. 11 della citata Tariffa.

L’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, prevede l’imposta proporzionale di registro per gli «atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale». Tale disposizione rappresenta una clausola di chiusura finalizzata a disciplinare tutte le fattispecie fiscalmente rilevanti diverse da quelle indicate nelle restanti disposizioni, purché si tratti di fattispecie onerose, e in questo specifico senso aventi un contenuto patrimoniale.

L’art. 11, invece, stabilisce l’imposta fissa per gli «Atti pubblici e scritture private autenticate, escluse le procure di cui all’art. 6 della parte seconda, non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale; atti pubblici e scritture private autenticate aventi per oggetto la negoziazione di quote di partecipazione in società o enti di cui al precedente art. 4 o di titoli di cui all’art. 8 della tabella o aventi per oggetto gli atti previsti nella stessa tabella, esclusi quelli di cui agli articoli 4, 5, 11, 11-bis e 11-ter; atti di ogni specie per i quali è prevista la applicazione dell’imposta in misura fissa». La soluzione del quesito presuppone una breve disamina dei caratteri principali del diritto di opzione previsto dall’art. 2441 cod. civ., al fine di verificare la correttezza dell’affermazione della Commissione tributaria regionale, secondo cui «l’operazione di cessione dei diritti di opzione non può essere assolutamente disgiunta da quella di acquisto (negoziazione) di nuove azioni della Banca Federiciana S.P.A., essendo, nella sua specificità, un unicum inscindibile».

Orbene, il citato art. 2441 cod. civ. stabilisce che le azioni di nuova emissione devono essere offerte in opzione agli azionisti, in proporzione al numero delle azioni da essi possedute (eccezion fatta per le ipotesi espressamente previste dalla legge), consentendo a costoro di mantenere invariata la loro partecipazione nonostante l’aumento del capitale sociale della società. Il diritto di opzione attribuito ai soci ad ogni aumento di capitale consiste nel diritto ad essere preferiti a terzi non soci nella sottoscrizione delle azioni di nuova emissione e spetta – di regola – a tutti gli azionisti, a qualunque categoria appartengano le azioni dagli stessi possedute (i casi legali e convenzionali di esclusione e/o limitazione del diritto sono indicati nella norma in argomento). In linea generale, in presenza dell’emissione di nuove azioni (o anche di prestiti obbligazionari non convertibili) l’ordinamento giuridico attribuisce la facoltà, per i vecchi soci, di sottoscrivere, entro il termine stabilito, le nuove azioni o obbligazioni in proporzione alle azioni già possedute.

Si è evidenziato che il diritto in discussione, rispetto all’istituto della prelazione legale, attribuisce ai soci il diritto di essere preferiti ai terzi anche nel caso in cui questi ultimi fossero disposti ad offrire a condizioni migliori. Il diritto di opzione ex art. 2441 cod. civ., quindi, prescinde dalla parità di condizioni delle offerte e si risolve nella facoltà di accettare o meno la proposta contrattuale di sottoscrizione dell’aumento di capitale alla quale la società è vincolata per il tempo fissato per l’esercizio del diritto di opzione.

Coloro che esercitano il diritto di opzione, purché ne facciano contestuale richiesta, hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azioni che siano rimaste non optate (art. 2441, comma terzo; regole speciali sono dettate per le azioni quotate in borsa).

La previsione normativa di un siffatto diritto sottende una duplice finalità: da un lato, quella di proteggere l’interesse dei soci a mantenere inalterata la quota di partecipazione al capitale sociale in caso di aumento dello stesso, attraverso il diritto di sottoscrivere preferenzialmente le azioni di compendio del deliberato aumento di capitale; dall’altro, quella di garantire l’interesse dei soci alla conservazione delle plusvalenze patrimoniali attive, accumulatesi nel corso della gestione dell’attività sociale, che altrimenti andrebbero a vantaggio dei nuovi sottoscrittori di azioni, in quanto l’aumento di capitale avviene in base al valore nominale delle azioni.

L’esigenza di tenere inalterato il valore reale della partecipazione azionaria denota il contenuto patrimoniale del diritto di opzione. Di qui, l’indiscussa conclusione che il diritto di opzione nella società per azioni assume un valore economico in sé, potendo essere oggetto liberamente di disposizione a favore di terzi (in questi termini, Cass. n. 10879 del 2007). Altro indice del carattere patrimoniale del diritto di opzione è rinvenibile nella circostanza che la delibera di aumento di capitale potrebbe fissare, per il collocamento delle azioni rimaste inoptate, un prezzo diverso e maggiore rispetto a quello previsto per l’azione. I titolari del diritto di opzione possono esercitare il loro diritto – per intero o anche in parte – oppure non esercitarlo affatto, ovvero possono monetizzarlo facendolo oggetto di cessione, il cui corrispettivo dipende dalle situazioni concrete. Il mancato esercizio del diritto di opzione nei termini stabiliti ne comporta la decadenza.

L’emissione di nuove azioni, dunque, è una circostanza solo potenzialmente idonea a modificare la quota di partecipazione sociale. Le nuove azioni possono rimanere inoptate e l’aumento di capitale risultare scoperto. Ed invero, soltanto con il successivo esercizio del diritto di opzione si realizza l’effettiva attribuzione della quota di partecipazione sociale, con (eventuale) modifica del novero dei soci ed incidenza sulla quota di partecipazione di ciascuno al capitale sociale. È in tale momento che si producono gli stessi effetti del trasferimento della quota con effettiva assegnazione dei titoli (acquisto delle nuove azioni). La mera cessione del diritto di opzione, per converso, non comporta affatto la cessione della partecipazione sociale, ma il titolare del diritto di opzione può raggiungere tale risultato, che dipende dal successivo esercizio del diritto di opzione ceduto. L’alienazione del diritto di opzione è un negozio che consente l’acquisto della partecipazione sociale da parte del cessionario, ma non è certo che tale effetto si verifichi, sussistendo uno iato tra i due momenti dell’operazione. Il terzo che voglia acquisire la partecipazione sociale, per soddisfare tale interesse, deve esercitare il diritto di opzione cedutogli.

Dalle considerazioni finora svolte, si evince l’errore in cui è incorso il giudice del merito, nel ritenere che la cessione del diritto di opzione e l’acquisto dell’azione costituiscano unicum inscindibile. La cessione dei diritti di opzione, come si è sopra osservato, non realizza automaticamente e di per sé l’effetto traslativo della partecipazione sociale. Ne deriva che l’operazione di cessione del diritto di opzione, per le sue descritte particolarità, non può essere tout court assimilabile alla negoziazione di partecipazioni societarie, in difetto dell’equivalenza cessione del diritto di opzione – cessione della partecipazione sociale.

Nel caso in esame, non risulta che la cessionaria GBM Gruppo bancario Mediterraneo holding s.p.a. abbia esercitato i diritti di opzione cedutigli dai soci della Banca Federiciana s.p.a. I controricorrenti, nel corso del giudizio, non ha dedotto alcunché in proposito sebbene l’Ufficio, nel ricorso per cassazione, abbia proprio rilevato il difetto di prova dell’acquisto di azioni (v. pag. 10). In considerazione delle specifiche circostanze che caratterizzano la fattispecie concreta ora in esame non può ritenersi che si sia in presenza di una negoziazione di partecipazione sociale e, quindi, considerato l’indubbio carattere economico-patrimoniale del diritto di opzione, deve affermarsi che l’atto de quo deve soggiacere alla imposta proporzionale di registro prevista dalla residuale disposizione di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986.

In proposito, deve notarsi che il precedente giurisprudenziale invocato dai controricorrenti nelle proprie note ex art. 378 cod. proc. civ. (Cass. 30 maggio 2005, n. 11466) si è occupato di un caso non perfettamente coincidente con la fattispecie concreta ora in esame. In quella occasione, la Corte di legittimità ritenne che l’atto di cessione dei diritti di opzione dovesse essere registrato a tassa fissa ai sensi dell’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, sul presupposto che l’operazione negoziale realizzava sostanzialmente una negoziazione di quote sociali. Tuttavia, dalla lettura del provvedimento si evince che si trattava di una ipotesi in cui era pacifico che il cessionario avesse esercitato il diritto di opzione, sottoscrivendo le quote di capitale sociale della società emittente e divenendone il titolare.

In definitiva, si enuncia il seguente principio di diritto: «in tema di imposta di registro, l’atto di cessione del diritto di opzione attribuito ai soci ex art. 2441 cod. civ., in caso di mancato esercizio dello stesso da parte del cessionario, è sottoposto all’aliquota proporzionale del 3% di cui all’art. 9, Tariffa, parte I, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986 e non a quella fissa contemplata dall’art. 11 della stessa tabella, posto che, in tale ipotesi, non può parlarsi stricto sensu di negoziazione di partecipazioni societarie».

  1. L’accoglimento dell’unico motivo di ricorso principale comporta l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato, volto ad ottenere la declaratoria di nullità della sentenza impugnata per omesso esame della questione pregiudiziale, di illegittimità dell’avviso di liquidazione in contestazione, sollevata con il gravame di appello (ossia carenza di motivazione dell’atto impugnato).

Il giudice del rinvio, invero, sarà tenuto a pronunciarsi sugli altri motivi dell’appello proposto dalla GBM Gruppo Bancario Mediterraneo Holding s.p.a. e dal notaio Francesco Rinaldi, motivi che erano stati ritenuti assorbiti nell’accogliere la censura afferente alla questione trattata in questa sede.

  1. In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale di Bari, in diversa composizione, la quale si dovrà attenere al principio di diritto sopra enunciato e decidere nel merito i motivi di appello ritenuti assorbiti nella sentenza cassata, provvedendo anche sulle spese. Assorbito il ricorso incidentale.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso principale assorbito l’incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale di Bari, in diversa composizione, anche per le spese.

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