Legittimo il sequestro per l’intero in capo al singolo concorrente
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4195 del 30 gennaio 2017, ha stabilito che il sequestro preventivo per equivalente, che non può essere disposto su beni appartenenti a terzi, è legittimo anche quando interessa un solo coimputato, al quale possono essere sequestrati beni per valori superiori alla quota di profitto dallo stesso realizzato con il delitto compiuto in concorso con altri. Di fronte a un illecito plurisoggettivo deve quindi applicarsi il principio solidaristico, per cui è ammissibile il sequestro dei beni in misura superiore alla quota astrattamente riferibile al singolo indagato.
Con il provvedimento in esame i Giudici di legittimità sono stati chiamati a prendere posizione sul tema, particolarmente acceso, del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei reati tributari, da tempo oggetto di diverse interpretazioni giurisprudenziali che hanno prodotto pronunce contrastanti. Cerchiamo di fare un primo accenno sull’evoluzione che ha nel tempo contribuito alla formazione dell’attuale linea interpretativa dei Supremi giudici.
Ricordiamo che nel recente passato, con l’ordinanza n. 46726 del 22 novembre 2013, la medesima sezione penale della Corte di Cassazione rimise alle Sezioni unite la questione “… se sia possibile o meno aggredire direttamente i beni di una persona giuridica per la violazione tributaria commessa dall’amministratore o dal legale rappresentante della società”. Si trattava, quindi, di chiedere lumi su una delle questioni più dibattute in materia di diritto tributario, perciò sembra ora non inutile accennare brevemente le tappe giurisprudenziali più significative della subiecta materia, citando, come prima decisione, quella emessa dalla Cass. pen., Sez. III, il 7 giugno 2011, n. 28731, in cui si affermava che il D.Lgs. n. 231/2001 non costituisce un limite all’applicazione della confisca per equivalente dei beni – in questo caso dell’ente collettivo – nelle ipotesi di reati tributari commessi dall’amministratore o dal legale rappresentante della società.
La stessa Cassazione, poi, con la sentenza n. 3874 del 9 maggio 2012, affermava l’astratta sequestrabilità/confiscabilità per equivalente dei beni della società dall’indagato legalmente rappresentata e nell’interesse della quale era stato commesso l’illecito. Più precisamente, in tale occasione, rimarcava la Suprema Corte, “… la legge consente la confisca diretta dei beni che costituiscono il profitto del reato indipendentemente dalla qualifica di concorrente nel reato stesso del soggetto nella cui disponibilità è pervenuto il detto profitto e, qualora si tratti di una società, indipendentemente dal fatto che sia prevista o meno una responsabilità amministrativa per il reato in questione”, precisando inoltre che “… la confisca del profitto non è possibile quando esso appartenga a persona estranea al reato, ma nel caso di reato commesso da amministratore di una società il cui profitto sia rimasto nelle casse della società stessa, questa non può considerarsi persona estranea al reato, pur se non è prevista una sua responsabilità amministrativa”.
Principi radicalmente opposti caratterizzavano, invece, un’altra sentenza della Corte, quella del 14 giugno 2012 n. 25774, la quale ha innanzitutto statuito che la normativa di cui al D.Lgs. n. 231/2001 non può essere applicata fuori dalla sedes materiae. Segnatamente, in coerenza con il principio di stretta legalità che trova specifico richiamo anche nel sistema del citato D.Lgs. n. 231/2001 (art. 2), la Suprema Corte aveva spiegato che la disciplina del sequestro e della confisca anche per equivalente – rinvenibile negli artt. 19 e 53 – era applicabile soltanto in presenza di un illecito penale rientrante nel catalogo dei reati che generano una responsabilità (penale) dell’ente collettivo e che la tassatività delle fattispecie penali rilevanti ai fini del decreto n. 231 escludeva la possibilità di ricorrere all’analogia o alla eadem ratio, eadem disciplina.
A tal riguardo è stato affermato che il concetto di “persona (non) estranea al reato vada interpretato come persona autrice o concorrente nel reato, il che non può essere l’ente collettivo, ancorché il reato sia stato commesso nel suo interesse e a suo vantaggio, proprio per la sua incapacità giuridica di essere soggetto attivo di un reato”.
Da ultimo, tale posizione veniva ribadita dalla Terza Sezione con la sentenza del 19 settembre 2012 n. 1256/2013, in cui si affermava che i beni dell’ente possono essere oggetto di sequestro e confisca per equivalente solo nei casi in cui l’ente rappresenta lo schermo fittizio dietro il quale opera il reo per commettere i reati tributari; in tal modo, divenendo l’ente stesso lo strumento per la realizzazione dell’illecito penale, è possibile operare il sequestro per equivalente sui beni della persona giuridica. In questo caso il reato non risulta commesso nell’interesse o a vantaggio di una persona giuridica, ma ad esclusivo vantaggio del reo attraverso lo schermo dell’ente.
Tassativo risultava il principio di diritto fissato in sentenza: “… la società (…), pur non risultando affatto estranea ai reati tributari, non può essere chiamata, a legislazione vigente, a rispondere per tali reati (…): di conseguenza la società (…) ed i suoi beni non possono essere destinatari di provvedimenti cautelari di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca del profitto dei reati tributari per cui si indaga, pur commessi a suo vantaggio, reati ascritti ed allo stato ascrivibili solo agli indagati-persone fisiche”.
Tali conclusioni sono state confermate in una successiva pronuncia, la n. 42350 del 10 luglio 2013, laddove è stata ricondotta alla specifica ed espressa volontà del legislatore la individuazione dei reati, presupposto che consentono il sequestro funzionale alla confisca per equivalente. In tale pronuncia, peraltro, era stata esclusa la necessità di sottoporre la questione de qua al vaglio delle Sezioni unite.
Intervengono allora le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la pronunzia n. 10561 del 30 gennaio 2014, affermando i seguenti principi di diritto: “… È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”…Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”… “ Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a na (compresa quella giuridica) non estranea al reato”… L’impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato”.
Punto centrale nel percorso argomentativo della sentenza è in definitiva la distinzione tra la confisca diretta del profitto del reato e l’istituto dalla confisca per equivalente.
La confisca diretta, prevista dall’art. 240 c.p. come misura facoltativa e resa obbligatoria per alcuni reati dall’art. 322-ter c.p., ha per oggetto il profitto del reato, cioè l’utilità economica direttamente o indirettamente conseguita con la commissione del reato. La confisca per equivalente, invece, ha per oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di cui il reo ha la disponibilità per un valore corrispondente al profitto del reato ed è destinata ad operare nei casi in cui la confisca diretta non sia possibile.
Nella nozione di profitto che consente la confisca diretta, precisano i giudici della Suprema Corte, non rientrano solo i beni appresi per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità comunque ottenuta dal reato, anche in via indiretta o mediata, come ad esempio i beni acquistati con il denaro ricavato dall’attività illecita oppure l’utile derivane dall’investimento del denaro di provenienza criminosa. Si è in questo senso ritenuto che costituisce profitto del reato anche il bene immobile acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando l’impiego sia causalmente collegabile al reato e soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo.
Tanto premesso, e tornando al presente giudizio in commento, gli Ermellini hanno considerato un soggetto indagato, insieme ad altri, per associazione per delinquere finalizzata al compimento di alcuni illeciti fiscali a cui la Procura applicava la misura del sequestro preventivo per equivalente su alcuni beni immobili e quote societarie intestate al medesimo, per un valore corrispondente al profitto del reato. Il Tribunale del riesame conferma il provvedimento di sequestro preventivo per equivalente disposto dal Gip su beni immobili e quote societarie intestate a un soggetto ritenuto un partecipante in associazione per delinquere finalizzata al compimento di alcuni illeciti fiscali, per un valore corrispondente all’intero profitto del reato.
L’indagato proponeva ricorso per Cassazione lamentando anche la violazione dei principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità delle misure cautelari reali. In particolare, il sequestro era stato applicato a ciascun concorrente per un valore corrispondente al profitto dei reati fiscali, così duplicando di fatto il vincolo cautelare. Anche il valore degli immobili sottoposti a sequestro era di gran lunga superiore a quello determinato dal Gip e dal Tribunale, dato che era stato preso in considerazione il valore catastale degli stessi, senza dubbio inferiore.
La Corte suprema, nel rigettare il ricorso dell’indagato, conferma la legittimità del sequestro preventivo per equivalente, finalizzato alla confisca, ordinando anche che il sequestro sugli immobili dell’indagato va disposto in base alle correnti valutazioni di mercato e non sui dati catastali. Concludono i Giudici: “Muovendo dalle censure dedotte secondo l’ordine logico, giova ricordare, con riferimento al quarto motivo di impugnazione, con il quale la difesa di S.F. contesta la riferibilità all’imputato dei reati contestati ai capi 138 e 130 della rubrica, come il Tribunale del riesame abbia specificamente motivato, peraltro pronunciandosi in sede di appello, in ordine alla acquisizione di un complessivo quadro indiziario relativo a una partecipazione attiva di S.F. alle vicende delle società coinvolte a prescindere dagli incarichi effettivamente svolti. Ed analogamente, con riferimento ai fatti di cui al capo 130 dell’imputazione, il Tribunale ha richiamato gli elementi indiziari, già posti in luce nell’ordinanza genetica, attraverso cui sono stati disvelati i meccanismi artificiosi e fraudolenti di falsa ricostruzione delle componenti di reddito, incompatibili con ipotesi di errata determinazione delle stesse ai sensi del novellato art. 4, comma 1-bis del D.Lgs. n. 74/2000. In questo modo, peraltro, i giudici abruzzesi hanno pienamente assolto all’onere motivazionale agli stessi imposto, con ciò non potendosi in alcun modo configurare il dedotto vizio di omessa motivazione, asseritamente rilevante, quale ipotesi di violazione di legge, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen.. Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dei criteri di adeguatezza e proporzionalità del sequestro, sotto due distinti profili. Da un lato, i giudici del riesame avrebbero dovuto addivenire alla riduzione del sequestro in ragione della natura concorsuale dei reati contestati e dell’applicazione del principio solidaristico, che avrebbe dovuto imporre una diminuzione del profitto in termini unitari. E dall’altro lato, il valore dei beni sequestrati sarebbe stato ben maggiore rispetto a quello determinato in sede di esecuzione della misura ablatoria. Sotto il primo profilo deve condividersi l’assunto, corrispondente al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui il principio solidaristico, che caratterizza la disciplina del concorso di persone nel reato, comporta l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dei relativi effetti in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà anche sul piano delle misure sanzionatorie, come la confisca, anche nella forma per equivalente, fermo restando che l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, dep. 2/07/2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, Rv. 239926; Sez. 6, n. 18536 del 6/03/2009, dep. 05/05/2009, P.M. in proc. Passantino, Rv. 243190; Sez. 5, n. 10810 del 3/02/2010, dep. 19/03/2010, Perrottelli, Rv. 246364; Sez. 5, n. 13277 del 24/01/2011, dep. 30/03/2011, Farioli, Rv. 249839; Sez. 5, n. 13562 del 10/01/2012, dep. 11/04/2012, Bocci, Rv. 253581; Sez. 6, n. 17713 del 18/02/2014, dep. 24/04/2014, Argento, Rv. 259338), salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti, che però costituisce fatto interno a questi ultimi e non ha alcun rilievo penale (Sez. 2, n. 9786 del 21/02/2007, dep. 8/03/2007, Alfieri ed altri, Rv. 235842; Sez. 5, n. 15445 del 16/01/2004, dep. 01/04/2004, Napolitano e altro, Rv. 228750)”.
Corte di Cassazione – III Sezione penale Sentenza n. 4195 del 30 gennaio 2017
RITENUTO IN FATTO
- Con ordinanza del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Pescara in data 3/12/2015, pronunciata nel procedimento a carico di S.F. e di altri 43 indagati in relazione ai reati di associazione per delinquere e di varie violazioni tributarie, specificamente indicati ai capi 58, 59, 60, 61 , 62, 130, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 193 e 194 della provvisoria imputazione, fu disposto il sequestro preventivo per equivalente, ai sensi dell’art.321, commi 1 e 2 cod. proc. pen. (in relazione agli artt. 322-ter, comma 1, cod. pen., 143, comma 1, della Legge n. 244/2007, 640-quater cod. pen. e 11 della Legge n. 146/2006), sui beni di proprietà e nella disponibilità degli indagati fino alla concorrenza – per la tranche di reati tributari contestati in concorso allo stesso S.F. – di un ipotizzato profitto di reato ammontante a 13.438.657,33 euro.
- Con successiva ordinanza in data 3/12/2015 il Giudice per le indagini preliminari procedente rigettò l’istanza presentata in data 12/11/2015 dalla difesa di S.F., rivolta: a) a rideterminare la quota di profitto del reato ascrivibile all’indagato, previo accertamento dei valori reali dei beni e delle quote societarie sequestrate; b) a ridurre l’entità del sequestro in ragione dell’ipotizzato superamento del tetto complessivo del profitto derivato dai reati in esame, anche in ragione del valore dei sequestri disposti nei riguardi di coindagati per la medesima tranche di violazioni tributarie; c) alla revoca del sequestro disposto sulle aziende Prefabbricati S.F. S.r.l. e Concre Sud S.r.l. e, se del caso, alla riduzione dello stesso ad uno o più beni appartenenti a tali compagini societarie.
- Con successiva ordinanza emessa in data 25/01/2016 il Tribunale del riesame di Pescara rigettò l’appello proposto dall’indagato avverso il provvedimento del 3/12/2015 con riferimento a tutti i motivi “esplicati nei punti da 1 a 4 dell’atto di impugnazione depositato in data 16.12.2015”.
- Avverso la predetta ordinanza l’indagato propone, a mezzo del proprio difensore, ricorso per cassazione, instando per l’annullamento del provvedimento gravato e per il dissequestro dei beni sottoposti a vincolo, all’uopo deducendo quattro distinti motivi di censura. Con il primo motivo la difesa di S.F. censura il capo, oggetto del paragrafo n. 4) del provvedimento impugnato, relativo al mancato sequestro dei beni della società, da parte del giudice procedente, sul presupposto che essa non fosse un mero schermo fittizio utilizzato per commettere reati tributari. Invero, il giudice a quo non si sarebbe pronunciato sulla domanda principale, con la quale, fermo il sequestro delle quote appartenenti a S.F., era stata chiesta la revoca del sequestro delle aziende Prefabbricati S.F. Sri e Concre Sud Sri, in origine disposto sul presupposto della riconducibilità delle stesse allo stesso S.F.. Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente lamenta, ex art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., la violazione dei criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura cautelare, sotto un duplice profilo. In primo luogo, il valore dei beni colpiti dal vincolo cautelare, di gran lunga superiori alla somma di 72 milioni di euro risultante dalle consulenze di parte, sarebbe ben superiore all’ipotizzato profitto dei reati; circostanza implicitamente ammessa dallo stesso Tribunale del riesame, il quale avrebbe ritenuto auspicabile “un approfondimento del valore del compendio oggetto del sequestro ed una rivalutazione globale dei sequestri complessivi”. In seconda battuta, il profitto sarebbe stato riferito ai singoli imputati e non alla sommatoria delle violazioni tributarie commesse, in concorso, nella gestione delle società Civita Park e Progetto Scarl, costituente una vicenda unitaria, al di là delle imputazioni satelliti. Con il quarto motivo, la difesa di S.F. deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., che l’ordinanza impugnata sarebbe viziata da omessa pronuncia sulle censure relative alla mancata commissione del reato contestato al capo 138 dell’imputazione per non avere S.F. firmato la denuncia Iva di Soc. Civita Park Sri, datata 27/07/2013, presentata dal nuovo amministratore della società e per essere divenuta inefficace, agli effetti fiscali e penali, la denuncia del 25/02/2013 sottoscritta da S.F. in qualità di Presidente del C.d.a. Civita Park Sri, in quanto sostituita da quella finale di luglio, all’indagato non riconducibile, con conseguente obbligo di decurtare la somma di 1.575.000 euro.
Sotto altro profilo, il Tribunale avrebbe errato nel ritenere configurabile il reato di cui all’art. 3 del D.Lgs. 74/2000 contestato al capo 130 della rubrica, per aver l’indagato indicato in modo fraudolento, nella dichiarazione annuale dell’imposta sui redditi relativa all’anno 2009, elementi passivi fittizi derivanti dalla sopravvalutazione di rimanenze iniziali di lavori in corso, in misura pari a 6.000.000 euro, con imposta evasa ai fini Ires pari a 1.650.000 euro. Secondo il ricorrente, non trattandosi di artificio relativo all’anno di contestazione, bensì di una traslazione, nel successivo esercizio, di un dato di bilancio esposto in maniera chiara nel bilancio dell’anno precedente, sarebbe dovuto essere integrato l’illecito amministrativo sanzionato dall’art. 4, comma 1-bis del D.Lgs. n. 74/2000, aggiunto dall’art. 4, comma 1, lett. c), D.Lgs. 24/09/2015, n. 158. Avendo il ricorrente, attraverso le suddette argomentazioni, asseritamente dimostrato la propria estraneità alle contestazioni, il tribunale avrebbe dovuto revocare la misura cautelare o, comunque, ridurla per l’importo del profitto corrispondente al reato non punibile.
- Con requisitoria scritta depositata in data 17/06/2016, la Procura Generale presso la Corte di cassazione ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso, non potendosi riscontrare, nel provvedimento impugnato, alcuna omissione motivazionale riconducibile alla violazione di legge rilevante ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen.. Inoltre, il ricorrente, sotto la veste della violazione formale di legge, formulerebbe rilievi attinenti al merito degli accertamenti compiuti nel corso delle indagini preliminari che, allo stato, avrebbero consentito di individuare l’entità del profitto ascrivibile a S.F., pur nei limiti di accertamenti contabili ancora in corso e, dunque, fisiologicamente soggetti a possibili mutamenti.
Quanto al fumus commissi delicti, si rileva la formazione del c.d. giudicato cautelare e che, pertanto, il giudice del merito avrebbe correttamente preso in esame soltanto gli elementi sopravvenuti, rappresentati dalla difesa a sostegno dell’istanza di riduzione e modifica del sequestro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Il ricorso è infondato.
- Muovendo dalle censure dedotte secondo l’ordine logico, giova ricordare, con riferimento al quarto motivo di impugnazione, con il quale la difesa di S.F. contesta la riferibilità all’imputato dei reati contestati ai capi 138 e 130 della rubrica, come il Tribunale del riesame abbia specificamente motivato, peraltro pronunciandosi in sede di appello, in ordine alla acquisizione di un complessivo quadro indiziario relativo a una partecipazione attiva di S.F. alle vicende delle società coinvolte a prescindere dagli incarichi effettivamente svolti. Ed analogamente, con riferimento ai fatti di cui al capo 130 dell’imputazione, il Tribunale ha richiamato gli elementi indiziari, già posti in luce nell’ordinanza genetica, attraverso cui sono stati disvelati i meccanismi artificiosi e fraudolenti di falsa ricostruzione delle componenti di reddito, incompatibili con ipotesi di errata determinazione delle stesse ai sensi del novellato art. 4, comma 1-bis del D.Lgs. n. 74/2000. In questo modo, peraltro, i giudici abruzzesi hanno pienamente assolto all’onere motivazionale agli stessi imposto, con ciò non potendosi in alcun modo configurare il dedotto vizio di omessa motivazione, asseritamente rilevante, quale ipotesi di violazione di legge, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen..
- Con il secondo e il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dei criteri di adeguatezza e proporzionalità del sequestro, sotto due distinti profili. Da un lato, i giudici del riesame avrebbero dovuto addivenire alla riduzione del sequestro in ragione della natura concorsuale dei reati contestati e dell’applicazione del principio solidaristico, che avrebbe dovuto imporre una diminuzione del profitto in termini unitari. E dall’altro lato, il valore dei beni sequestrati sarebbe stato ben maggiore rispetto a quello determinato in sede di esecuzione della misura ablatoria. Sotto il primo profilo deve condividersi l’assunto, corrispondente al consolidato indirizzo di questa Corte, secondo cui il principio solidaristico, che caratterizza la disciplina del concorso di persone nel reato, comporta l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dei relativi effetti in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà anche sul piano delle misure sanzionatorie, come la confisca, anche nella forma per equivalente, fermo restando che l’espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l’ammontare complessivo dello stesso (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, dep. 2/07/2008, Fisia Italimpianti Spa e altri, Rv. 239926; Sez. 6, n. 18536 del 6/03/2009, dep. 05/05/2009, P.M. in proc. Passantino, Rv. 243190; Sez. 5, n. 10810 del 3/02/2010, dep. 19/03/2010, Perrottelli, Rv. 246364; Sez. 5, n. 13277 del 24/01/2011, dep. 30/03/2011, Farioli, Rv. 249839; Sez. 5, n. 13562 del 10/01/2012, dep. 11/04/2012, Bocci, Rv. 253581; Sez. 6, n. 17713 del 18/02/2014, dep. 24/04/2014, Argento, Rv. 259338), salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti, che però costituisce fatto interno a questi ultimi e non ha alcun rilievo penale (Sez. 2, n. 9786 del 21/02/2007, dep. 8/03/2007, Alfieri ed altri, Rv. 235842; Sez. 5, n. 15445 del 16/01/2004, dep. 01/04/2004, Napolitano e altro, Rv. 228750). Peraltro, il sequestro preventivo ad essa finalizzato, avendo natura provvisoria, può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti finanche per l’intera entità del profitto accertato, atteso che il principio secondo cui la confisca non può comunque superare l’importo del profitto è destinato a trovare attuazione in sede esecutiva (Sez. 2, n. 8740 del 16/11/2012, dep. 22/02/2013, Della Rocca, Rv. 254526). Correttamente, dunque, i giudici di merito hanno ritenuto di poter procedere al sequestro dei beni di S.F. in misura superiore alla sua quota virtuale di profitto, rilevando, peraltro, come non potesse configurarsi una totale coincidenza tra i reati e i relativi imputati e come, pertanto, la ipotizzata duplicazione comportasse una possibile riduzione dell’entità del profitto da 13.438.657,33 a 12.381.686,93 euro; con ciò fornendo una risposta congrua alle censure dedotte dal ricorrente. Sotto il secondo aspetto, va sottolineato che, al fine di accertare il valore reale dei beni, il giudice deve fare riferimento alle valutazioni di mercato degli stessi, avendo riguardo al momento in cui il sequestro viene disposto (Sez. 2, n. 36464 del 21/07/2015, Armeli e altro, Rv. 265059). Ne consegue che, in una ipotesi come quella per cui si procede, per la valutazione degli immobili non deve farsi riferimento al valore catastale, ma soltanto quando si abbia la disponibilità di elementi da cui desumere una diversa e più “effettiva” valutazione (Sez. 6, n. 15807 del 9/01/2014, Anemone, Rv. 259702; Sez. 3, n. 17465 del 22/03/2012, Crisci, Rv. 252380; Sez. 3, n. 3260 del 4/04/2012, P.M. in proc. Currò, Rv. 254679; contra però v. Sez. 1, n. 30790 del 30/05/2006, P.M. in proc. Pedercini ed altro, Rv. 234886), considerato che la valutazione relativa alla equivalenza tra il valore dei beni in sequestro e l’entità del profitto del reato deve essere effettuata “sulla base dei dati disponibili” (Sez. 3, n. 3260 del 4/04/2012, P.M. in proc. Currò, Rv. 254679); ciò che, nella specie, non è però avvenuto, avendo il Tribunale del riesame escluso di poter addivenire ad una stima attendibile dei capannoni sequestrati (considerata la data di costruzione, la presenza di probabili irregolarità sul piano edilizio- urbanistico ecc.). Del resto, questa Corte ha, in più occasioni, ritenuto che gli adempimenti estimatori non spettino al Tribunale del riesame, ma siano rimessi alla fase esecutiva della confisca (Sez. 1, n. 30790 del 30/05/2006, P.M. in proc.Pedercini ed altro, Rv. 234886), atteso che lo stesso tribunale, tranne che i casi di manifesta sproporzione tra il valore dei beni e l’ammontare del sequestro corrispondente al profitto del reato, non è titolare del potere di compiere mirati accertamenti per verificare il rispetto del principio di proporzionalità.
- Venendo, infine, al primo motivo, con il quale il ricorrente ha dedotto l’omessa pronuncia sulla domanda principale con la quale era stata chiesta la revoca del sequestro delle aziende Prefabbricati S.F. S.r.l. e Concre Sud S.r.I., deve osservarsi, preliminarmente, che questa Corte non ha alcun accesso agli atti del procedimento, cosicché, anche ai fini della ricostruzione della vicenda processuale, deve necessariamente basarsi sui soli contenuti del ricorso e del provvedimento impugnato. Ciò comporta che, nel caso di specie, non è possibile prendere cognizione della imputazione posta a sostegno della misura cautelare, né dei relativi atti esecutivi, potendosi, tuttavia, ricavare dall’ordinanza gravata, che il sequestro è stato in realtà disposto non tanto sulle aziende riferibili alle due società, quanto piuttosto sulle quote sociali, ovvero su beni, concettualmente autonomi rispetto al patrimonio aziendale, dotati di una specifica utilità economica, di cui S.F. era titolare o, comunque, a lui riferibili in quanto nella sua disponibilità. In questa prospettiva, l’ordinanza impugnata, nel ribadire tale circostanza, ha sottolineato, altresì, come la sottoposizione alla misura ablatoria di beni riferibili alla sfera giuridico-patrimoniale dell’indagato fosse pienamente rispettosa dei principi in materia di confisca per equivalente (e, quindi, di sequestro preventivo ad essa finalizzato) che, ai sensi dell’art. 322-ter cod. pen., è sempre consentita sui beni di cui l’indagato abbia la disponibilità per un valore corrispondente all’ammontare del profitto proveniente dal reato e che, invece, non è consentita su beni riferibili alla sfera giuridico-patrimoniale di soggetti terzi. E’ il caso, ad esempio, in cui il provvedimento di sequestro sia stato eseguito sui beni afferenti al patrimonio aziendale della società; eventualità, questa, non consentita e che, dunque, renderebbe effettivamente illegittimo il sequestro dell’azienda non riferibile ad una impresa individuale dell’indagato, salvo il caso in cui il soggetto giuridico, formalmente esistente, costituisca, dal punto di vista prettamente penalistico, un mero schermo per la commissione di reati, atteso che, in tale evenienza, trasmigrazione del profitto del reato in capo all’ente non si atteggia alla stregua di trasferimento effettivo di valori, ma quale espediente fraudolento non dissimile dalla figura della interposizione fittizia; “con la conseguenza che il denaro o il valore trasferito devono ritenersi ancora pertinenti, sul piano sostanziale, alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in “apparente” vantaggio dell’ente ma, nella sostanza, a favore proprio” (così Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 5/03/2014, Gubert, Rv. 258646, in motivazione; negli stessi termini v. altresì Sez. 2, n. 45520 del 27/10/2015, dep. 16/11/2015, Terlizzi, Rv. 265532; Sez. Un., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 5/03/2014, Gubert, Rv. 258646; Sez. 3, n. 42476 del 20/09/2013, Salvatori, Rv. 257353; Sez. 3, n. 42638 del 26/09/2013, Preziosi; Sez. 3, n. 42350 del 10/07/2013, Stigelbauer, Rv. 257129; Sez. 3, n. 15349 del 23/10/2012, dep. 2013, Gimeli, Rv. 254739; Sez. 3, n. 1256 del 19/09/2012, dep. 2013, Unicredit s.p.a., Rv. 254796; Sez. 3, n. 33371 del 4/07/2012, Failli; Sez. 3, n. 25774 del 14/06/2012, Amoddio, Rv. 253062).
Ne consegue, conclusivamente, l’infondatezza della relativa censura.
- Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
PER QUESTI MOTIVI
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 18/10/2016