CASSAZIONE

Le “lucciole” dovranno pagare le tasse ma non avranno la pensione

IRPEF – IVA – Redditi diversi – Accertamento fiscale – Proventi attività di prostituzione – Attività assimilabile al lavoro autonomo 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22413 del 5 novembre 2016, ha voluto inserirsi con argomenti piuttosto realistici nel tentativo di dirimere precedenti incertezze per inquadrare tributariamente una professione antica, quella del meretricio, sovente trascurata dall’Erario, per indirizzarla nell’ambito di parametri tributari più corretti e moderni.

Nel caso di specie i supremi Giudici hanno ritenuto che i proventi dell’attività di meretricio sono sempre tassabili, a prescindere dall’abitualità o meno della stessa, e le prostitute, come tutti i contribuenti, devono pagare le tasse perché tale attività rientra tra le prestazioni di servizi retribuite. Se poi l’attività viene esercitata con carattere di abitualità, può essere comunque inquadrata nell’ampia previsione dell’art. 3, comma 1, secondo periodo, del DPR n. 633/1972.

Ovviamente il problema non insiste tanto nell’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche, che la Cassazione ha affermato senza mezzi termini, quanto nel concetto di ”abitualità” dell’attività di meretricio, che fa scattare una successiva imposta ugualmente sostanziale per l’Erario: l’Imposta sul valore aggiunto, anch’essa esplicitamente richiamata dalla Corte.

Si dovrebbe avviare un’importante riflessione su come quantificare il valore aggiunto e su come, cioè, sia realisticamente ed economicamente quantificabile l’elaborazione intellettuale e fisica necessaria alla prestazione, ma sinora non son sorte contestazioni in merito. Certo è che, attenendosi letterariamente alla sentenza 22413/2016, le “lucciole” dovrebbero emettere regolare fattura o perlomeno uno scontrino fiscale, trattandosi, in fondo, di pubblico esercizio.

In Italia per molti anni ha prevalso una impostazione giurisprudenziale piuttosto tradizionalista, che plausibilmente rifletteva il sentire sociale di quegli anni, quando anche la Corte di Cassazione, citando ad esempio una sentenza risalente al 1986, aveva ritenuto intassabili i proventi da meretricio assumendo che le somme derivanti dall’esercizio della prostituzione costituissero una forma sui generis di risarcimento del danno subito dalla prostituta “a causa della lesione dell’integrità della dignità di chi abbia subito l’affronto della vendita di sé”.

La prostituzione intesa invece come ”prestazione di servizi retribuita” è stata infine riconosciuta dalla Corte di Giustizia Europea già dal 2001, con la causa C-268/99, per cui è possibile disciplinarla e tassarla al pari di qualsiasi altra attività; analogamente, i lavoratori del sesso dovrebbero avere diritti e doveri analoghi ai comuni prestatori di lavoro, con possibilità di accesso alla previdenza sociale.

La pronuncia degli Ermellini, pertanto, non deve sorprendere, considerando che nel corso degli anni sono diversi i Paesi europei che hanno legalizzato ufficialmente la prostituzione: in Olanda è regolamentata in maniera specifica e tutti i siti internet chiariscono che vengono pagate le tasse allo Stato, mentre  le “addette” sono regolarmente iscritte alla Camera di Commercio; in Germania, mentre prima il trattamento fiscale riguardava solo le prostitute che lavoravano in centri benessere o strutture similari, nel 2013 la normativa ha previsto la tassazione dei redditi anche delle lavoratrici “autonome”. Poiché il prelievo fiscale è piuttosto difficile da accertare, solitamente viene utilizzata una tassazione forfetaria; anche in Gran Bretagna il fenomeno è regolamentato e le prostitute devono provvedere al pagamento degli oneri fiscali, con accesso all’assistenza sanitaria ed ai trattamenti previdenziali; in Francia la prostituzione è legale, in Spagna è legale e tassata e di recente è stato autorizzato l’acquisto di spazi pubblicitari ad hoc; infine, il fenomeno  è inoltre regolamentato e tassato in Turchia, Austria, Grecia, Ungheria e Lettonia.

Tornando in Italia, una prima precisa presa di posizione in senso favorevole alla tassazione era stata fornita dalla Commissione Tributaria Provinciale di Firenze, nel 2007, che aveva rimarcato che i proventi da meretricio andavano certamente attratti a tassazione e ricondotti alla categoria dei “redditi diversi”, ritenendo che la normativa rispondesse proprio all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricondurre a tassazione tutte quelle espressioni economiche connesse all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, idonee a concorrere alle spese pubbliche, in attuazione del disposto di cui all’art. 53 della Costituzione.

In senso analogo si esprimeva, nel 2009, la Commissione Tributaria Provinciale di Reggio Emilia.

La Corte di Cassazione con la Sentenza primo ottobre 2010, n. 20528, ha stabilito che anche la prostituzione tra adulti deve essere soggetta a tassazione, poiché è un’attività “lecita”.

 

48181212-cached

 

Di conseguenza, a partire dalla suddetta data in Italia, il meretricio dovrebbe essere un’attività tassabile a tutti gli effetti. Successivamente, la stessa Suprema Corte Giudicante ha riconfermato con la pronuncia 13 maggio 2011, n. 10578 che il meretricio è effettivamente da considerare come un’attività normale e con la medesima ha affermato che l’articolo 36 comma 34 bis della Legge 248/2006, facente capo alla Legge 537/1993 articolo 14 comma 4 ed all’articolo 6 comma 1 del D.P.R. 917/1986 T.U.I.R., ha implicitamente modificato la Legge 75/1958 agli articoli 7 e 3 comma primo numero 8, derogando i rispettivi dettami ai fini fiscali.

Non va neppure trascurata, ai fini di questo discorso, la recente pronunzia della Corte di Cassazione, la n. 15596 del 27.7.2016, che riteneva l’attività assimilabile a quella di lavoro autonomo, pertanto rientrante nei “redditi diversi” ai sensi dell’art. 6 e 67 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, affermando che “La natura reddituale attribuita ex lege ai proventi delle attività illecite, con la conseguente tassabilità quali “redditi diversi”, comporta, a maggior ragione, che venga riconosciuta natura reddituale all’attività di prostituzione, di per sé priva di profili di illiceità(costituendo invece illecito penale ogni attività di favoreggiamento o sfruttamento della prostituzione altrui a norma dell’art.3 della legge 20.2.1958 n.75), attività parzialmente tutelata dallo stesso ordinamento civile che comprende la prestazione sessuale dietro corrispettivo nella categoria della obbligazione naturale, la quale, se non consente il diritto di azione, attribuisce alla persona che ha svolto l’attività di meretricio il diritto di ritenere legittimamente le somme ricevute in pagamento della prestazione ( art.2035 cod.civ.)”.

Tale impostazione complessiva denota però ancora una difformità di fondo, forse tutta italiana, che potrebbe originare importanti conseguenze giuridiche sul campo della Previdenza e del diritto alla pensione, perché se la prostituzione potrebbe essere considerata come fonte di reddito e debba quindi ritenersi legale visto che proprio da questo presupposto nasce il diritto del Fisco all’accertamento della relativa capacità contributiva, sia per ciò che riguarda l’Irpef, sia per ciò che riguarda l’Iva, di fatto resta però ancora negato agli interessati pagare i relativi contributi Inps.

Se dunque seguendo l’orientamento della Cassazione tra le due vie (perseguire la prostituzione e i clienti come fenomeno vietato o accettarla e tassarla) si sceglie la seconda, appare senz’altro iniquo, quantomeno sotto il profilo etico, impedire poi alle prostitute di poter regolamentare il rapporto sotto il profilo previdenziale e pensionistico. E’ intuitivo che se lo Stato pretende il denaro riconoscendo l’attività svolta, non può poi disconoscerla impedendo alle prostitute di poter versare i contributi presso la Cassa di Previdenza al fine di ottenere un trattamento pensionistico adeguato ai contributi versati. D’altra parte l’art. 8 della Costituzione dichiara espressamente che: ”… I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati  mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia”. Le azioni in corso, da parte della macchina fiscale, ovviamente portano anche ad una serie di riflessioni non irrilevanti, proprio attesa la mancanza di una regolamentazione specifica. Potrebbe sembrare illogico, ma non lo è, quel ragionamento teorico che potrebbe riguardare quel professionista commercialista che tenesse la contabilità ad una prostituta e che potrebbe essere accusato di favoreggiamento e condannato penalmente.

Situazione ancor più singolare insiste forse nel fatto  che viene impedito alle interessate di poter procedere alla iscrizione alla Camera di Commercio o ad Albi professionali, se non ricorrendo a dei ripieghi professionali improbabili o fantasiosi come estetiste, visagiste o lavoranti dello spettacolo, etc. In taluni casi l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate ha riguardato, sfiorando il paradosso, non solo l’evasione dell’Irpef, dell’Iva e dell’Irap, ma anche dei contributi Inps, contestando la mancata iscrizione ad un sistema previdenziale, che di fatto viene impedito.

Tornando all’episodio trattato dai Supremi giudici, il fatto riguardava una donna che non aveva mai presentato la dichiarazione dei redditi pur versando in banca somme altissime di denaro (negli oltre 10 conti correnti attivi), essendo proprietaria di diverse unità immobiliari locate e di numerose autovetture e tenendo un tenore di vita piuttosto lussuoso.

Ciò era bastato a far scattare l’accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate.

La donna si era difesa sostenendo che i redditi erano il provento dell’attività di prostituzione esercitata e dunque esenti ma la tesi non aveva convinto i giudici di merito che invece li avevano ritenuti tassabili, almeno: “… quelli risultanti dai versamenti sui conti correnti effettuati in contanti, escludendo quelli effettuati mediante versamento di assegni”.

Per la Suprema Corte che ha dato ragione all’amministrazione, il giudice tributario ha correttamente rilevato che il fisco ha proceduto: “… all’accertamento d’ufficio ai sensi dell’art. 41 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 con riferimento alle annualità per le quali non è stata presentata denuncia dei redditi; con riferimento all’annualità per la quale è stata presentata dichiarazione, ha proceduto a norma dell’art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 riguardante la rettifica delle dichiarazioni delle persone fisiche, che espressamente richiama le metodologie previste dall’art. 39 stesso d.P.R., tra le quali l’utilizzo dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32 (nella specie accertamenti bancari)” (…) “ L’esercizio del meretricio, hanno sentenziato infatti gli Ermellini, “ occasione o abituale che sia, genera comunque un reddito imponibile ai fini Irpef, trattandosi in ogni caso di proventi rientranti nella categoria residuale dei redditi diversi prevista dall’art. 6 comma 1 lett f) d.p.r. n. 917/1986”.

Corte di Cassazione – Sentenza n. 22413 del 5 novembre 2016

sentenza-tassazione-lucciole

Desidero ricevere in abbonamento gratuito il vostro periodico FiscotoDay