CASSAZIONE

L’accertamento induttivo è giustificato dall’omessa dichiarazione

Tributi- IVA – IRAP – Imposte dirette – Omessa presentazione delle dichiarazioni – Accertamento induttivo – Determinazione reddito d’impresa – Ricostruzione dei ricavi – Lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva– Documentazione di prova

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 28559 del 18 ottobre 2021  torna a occuparsi delle presunzioni “super semplici”, affermando che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione l’Amministrazione finanziaria può ricostruire induttivamente il reddito d’impresa anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, associando quel reddito mai dichiarato dal contribuente, ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, utilizzando qualsiasi dato o informazione in proprio possesso o sulla base di presunzioni supersemplici.

E’ noto che proprio attraverso l’accertamento induttivo l’Amministrazione finanziaria ricompone il reddito delle imprese e dei professionisti con una ricostruzione di tipo extracontabile, rammentando che l’accertamento induttivo può distinguersi in accertamento analitico induttivo di cui all’articolo 39, comma 1, lett. d), del DPR 600/1973. L’ufficio, in questo caso, può fondare l’accertamento solo in presenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, e l’accertamento induttivo vero e proprio di cui all’articolo 39, comma 2, del DPR 600/1973. L’ufficio, in presenza di contabilità inattendibile, può prescindere in tutto o in parte dalle risultanze delle scritture contabili e accertare induttivamente il maggior reddito utilizzando presunzioni anche non dotate dei requisiti di precisione, gravità e concordanza di cui all’articolo 2729 del c.c.

Pertanto, qualora il contribuente abbia tenuto una contabilità formalmente e sostanzialmente regolare, l’ufficio può procedere all’accertamento induttivo in conformità al dettato normativo non già dell’articolo 39, comma 2, del DPR n. 600/1973, ma dell’articolo 39, comma 1, lett. d), del DPR 600/1973, quindi l’attività di accertamento si può fondare anche su presunzioni peraltro dotate dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, e non su semplici illazioni o, comunque, su elementi indiziari sprovvisti dei prefati requisiti.

Si tratta di una tipologia di accertamento fiscale alternativo rispetto all’accertamento analitico.

Rispetto all’accertamento analitico, quello induttivo consente la determinazione del reddito del contribuente prescindendo dalle scritture contabili: oppure, l’accertamento induttivo è utilizzabile qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile. Si tratta di una contabilità confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza e, in definitiva, la rettifica dell’Agenzia si caratterizza per il minor rigore con cui l’ufficio è legittimato alla ricostruzione del reddito. 

Di conseguenza, se l’azione intrapresa dall’Amministrazione finanziaria appare potenzialmente più lesiva dei diritti del contribuente rispetto agli accertamenti analitici o presuntivi, è anche vero che si richiedono categoriche condizioni per la sua applicabilità; al ricorrere di particolari condizioni previste dalla legge, il reddito può essere allora determinato dai dati raccolti o venuti a conoscenza dell’ufficio, utilizzando quindi presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e con la facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili.

L’articolo 39, comma 2, del DPR 600/73 impone, come requisito di legittimità dell’accertamento induttivo, la sussistenza di almeno una condizione che, come nel caso di specie, riguarda l’omessa presentazione della dichiarazione, dove l’accertamento induttivo prende anche il nome di accertamento d’ufficio (v. art. 41 del DPR 600/73).

Anche la recente giurisprudenza ha confermato tale interpretazione, come nel caso dell’ordinanza n. 9784 del 14 aprile 2021, dove gli Ermellini hanno affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione, l’Amministrazione finanziaria può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (accertamento induttivo “puro”) per accertare ricavi non dichiarati, ma nella determinazione del maggior reddito d’impresa deve comunque determinare, sia pure induttivamente e in misura forfetaria, i costi non annotati nelle scritture contabili relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva. 

Il rapporto posto dalle garanzie costituzionali fondamentali e il concorso alla spesa pubblica rendono preciso il limite legislativo della pressione tributaria, che diviene illegittima se sacrifica le garanzie fondamentali articolate dalla Costituzione e, pertanto, anche la violazione di una di esse rende illegittima la pressione tributaria che ha determinato, come peraltro già dichiarato anche dalla recente ordinanza n. 2581 del 4 febbraio 2021, nella quale si affermava che “…può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986, articolo 75 (ora articolo 109), in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (cfr. Cass. V, n. 1506/2017, Cass 13119/2019, n.19192/2019 e n.1506/2017 ma già anche Cass. V, n. 3995/09)”.

Nella vasta produzione giurisprudenziale sull’argomento, appare opportuno citare anche quanto asserito con l’ordinanza n. 13119/2020, che ribadiva il seguente principio: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986”.

Tutto ciò premesso, la controversia ha inizio con vari avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate notificava a un imprenditore l’omessa presentazione della dichiarazione per alcuni anni. Gli atti impositivi recavano un reddito imponibile ai fini IVA e imposte dirette determinato d’ufficio per tutte le annualità in via induttiva, perché la contabilità era stata ritenuta complessivamente inattendibile. Il ricorso proposto dal titolare dell’impresa individuale era stato respinto in primo grado ma parzialmente accolto dai giudici d’appello, i quali avevano intimato all’Agenzia delle entrate di rideterminare il reddito considerando i ricavi e i costi reali, documentati, contabilizzati e inerenti all’attività economica svolta ai fini della determinazione sia del reddito d’impresa, sia della base imponibile IRAP, nonché dell’IVA.

L’Agenzia proponeva ricorso per Cassazione indicando, fra i quattro motivi presentati, la violazione dell’art. 39, c. 2, del DPR 600/1973 e dell’art. 55, DPR 633/1972, avendo la CTR dichiarato che l’Ufficio avrebbe dovuto effettuare un accertamento di tipo analitico “in quanto, nel caso di specie, era in presenza di una contabilità regolare con tutti gli elementi di ricavo e di costo”.

La decisione dei Giudici di legittimità, pur riconoscendo la parziale validità del ricorso incidentale presentato dal contribuente, ha maggiormente favorito la tesi della parte pubblica, che insisteva che la modalità accertativa, rientrante nel più ampio ambito dell’accertamento cd. induttivo puro disciplinato, ai fini delle imposte dirette, dall’art. 39, c. 2, del DPR 600/1973, e dell’IVA, dall’art. 55 del DPR 633/1972 e che, pertanto, “ La CTR ha affermato che la copiosa documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza in sede di verifica e poi esibita dallo stesso N. nel contraddittorio endoprocedimentale fornisse «tutti gli elementi necessari (costi aziendali) per determinare il reddito in misura analitica … Questo Collegio, quindi, ritiene che per l’Ufficio sarebbe dovuto ricorrere all’accertamento di tipo analitico, in quanto, nel caso di specie, era in presenza di una contabilità regolare con tutti gli elementi di ricavo e di costo». Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello – il quale ha accertato che G. N. aveva omesso di presentare le dichiarazioni dei redditi e IVA (quantomeno per l’anno d’imposta 2001) – legittimamente l’Agenzia delle Entrate ha proceduto all’accertamento d’ufficio, impiegando il metodo induttivo.

Infatti, ai sensi dell’art. 41, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, per determinare il reddito complessivo l’Ufficio può utilizzare elementi probatori, dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza e può anche fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3, del citato D.P.R. -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 14930 del 15/06/2017, Rv. 644593-01; nello stesso senso, più recentemente, Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 2581 del 04/02/2021, Rv. 660477-01, la quale precisa, però, che l’Amministrazione finanziaria deve comunque determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi – disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente – e, quindi, considerare anche le componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente).  Analogamente, con riguardo all’IVA, «ai sensi dell’art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, l’inottemperanza del contribuente all’obbligo della dichiarazione annuale rende legittimo l’accertamento induttivo da parte dell’Ufficio – il quale può desumere i dati per la ricostruzione del giro d’affari del contribuente da qualunque elemento a sua conoscenza, ivi compresa la dichiarazione tardivamente presentata da quest’ultimo – e preclude che l’imposta versata sugli acquisti di beni e servizi nel periodo dell’omessa dichiarazione possa essere detratta, se non risulti dalle dichiarazioni periodiche, essendo irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d’impresa.» (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 1020 del 20/01/2016, Rv. 638480- 01). Col secondo motivo, la ricorrente deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 D.P.R. n. 917 del 1986, per avere la C.T.R. ritenuto che l’Amministrazione dovesse, con accertamento analitico, determinare il reddito considerando i costi aziendali indicati dal N. La censura è fondata. La statuizione della C.T.R. è consequenziale all’erronea premessa secondo cui l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto impiegare il metodo analitico per la ricostruzione del reddito non oggetto di dichiarazione dei redditi. Nonostante l’errato riferimento all’art. 109 T.U.I.R., non applicabile in assenza di una dichiarazione dei redditi (ancorché infedele), il motivo deve ritenersi fondato in quanto l’accertamento induttivo non richiede, contrariamente alle statuizioni della sentenza impugnata, che i costi siano analiticamente considerati, potendo l’Amministrazione finanziaria – nel rispetto dei principi ribaditi anche da Corte Cost., Sentenza n. 225 dell’8/6/2005 – determinare le componenti negative del reddito (che necessariamente vanno prese in esame) valutando l’incidenza percentuale dei costi relativi.

Nella fattispecie, l’Agenzia ha utilizzato, in sede di accertamento, la percentuale indicata dalle tabelle del D.P.C.M. 22 dicembre 1989 e – stante l’inversione dell’onere della prova, che pone a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio – sarebbe spettata al N. la dimostrazione di costi superiori e non già all’Amministrazione il compito di rideterminare «il reddito considerando i ricavi ed i costi reali, documentati, contabilizzati» come invece statuito dalla C.T.R. nel dispositivo della sentenza.

L’accoglimento del motivo comporta l’assorbimento della quarta censura, con cui l’Agenzia ha dedotto l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, per avere la C.T.R. esaminato in modo superficiale e carente la fattispecie e, in particolare, l’operato dell’Agenzia delle Entrate che, conformemente ai principi in materia, aveva riconosciuto in misura percentuale i costi aziendali ai fini della ricostruzione dei ricavi. Col terzo motivo, l’Agenzia deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione del combinato disposto degli artt. 28, 37 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972, per avere la C.T.R. statuito che VIVA pagata sulle fatture ricevute dal N. doveva essere detratta dall’IVA a debito; sostiene l’Agenzia che la mancanza di una tempestiva dichiarazione IVA impediva all’impresa la detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti. Il motivo è inammissibile. L’erroneo riferimento normativo (a norme abrogate) non inficia la comprensione del motivo, col quale si censura la decisione per avere ammesso il N. a considerare, in compensazione con VIVA a debito determinata ex art. 55 D.P.R. n. 633 del 1972, l’IVA a credito assolta sugli acquisti documentati, nonostante la tardività (equivalente all’omissione ex art. 2, comma 7, D.P.R. n. 322 del 1998) della dichiarazione annuale, che l’Agenzia ricorrente considera «titolo necessario per il riconoscimento del diritto del contribuente alla detrazione … [in difetto del quale si] determina la perdita definitiva del diritto in parola» (pag. 21 del ricorso).Tuttavia, il motivo è inammissibile perché formulato senza riportare in maniera intelligibile gli elementi dell’avviso di accertamento necessari a comprendere l’operato dell’Agenzia delle Entrate riguardanti, peraltro, circostanze che sono contraddette dal controricorrente (il quale – oltre ad eccepire l’inammissibilità della censura – nega che nell’avviso di accertamento l’Agenzia, liquidando l’IVA “a valle” sui corrispettivi presunti, abbia riconosciuto qualsivoglia detrazione sull’IVA “a monte”). Difatti, solo in modo generico la ricorrente afferma di aver considerato – per la determinazione dell’IVA dovuta – anche l’«IVA assolta sugli acquisti come determinata analiticamente dalle fatture rilevate» e, nel prosieguo del ricorso, sostiene però che, «a fronte dei versamenti indicati dalla parte nella dichiarazione omessa, perché presentata oltre il termine di 90 giorni dalla scadenza, sono stati considerati solo una parte degli stessi, con la conseguenza che i rilievi accertati sono stati calcolati al netto delle effettive, seppur parziali, imposte pagate».  Con l’unico motivo del ricorso incidentale, G. N. deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione degli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, D.Lgs, n. 471 del 1997, per avere la C.T.R. – statuendo che il controricorrente debba rispondere del «pagamento delle sanzioni per le omesse presentazioni delle dichiarazioni nelle diverse annualità» – confermato l’importo delle sanzioni, sebbene computato sull’ammontare di imposte dovute in forza di un avviso di accertamento “da rivedere” – ed esteso la decisione a periodi di imposta differenti. La censura è fondata. La rideterminazione delle imposte dovute incide automaticamente sull’importo delle sanzioni (art. 19 D.Lgs. n. 472 del 1997), sicché è contraddittoria la pronuncia della C.T.R. che, da un lato, dispone «che l’Agenzia ridetermini il reddito considerando i ricavi ed i costi reali … ai fini della determinazione sia del reddito d’impresa, sia della base imponibile IRAP, nonché dell’IVA dovuta all’erario» e, dall’altro, conferma «a carico dell’appellante il pagamento delle sanzioni per omesse presentazioni delle dichiarazioni», per giunta, oltre il thema decidendum (anno d’imposta 2001) «nelle diverse annualità»”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 18 ottobre 2021, n. 28559

sul ricorso 817-2015 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro N. G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA C. MONTEVERDI 16, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Natola, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonché contro AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2035/2014 della COMM.TRIB.REG.PUGLIA SEZ.DIST. di LECCE, depositata il 15/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/05/2021 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI;

RILEVATO CHE

– G. N. impugnava l’avviso di accertamento (anno d’imposta 2001) col quale l’Agenzia delle Entrate, sulla scorta di p.v.c. della Guardia di Finanza in data 28/6/2007, rettificava il reddito a norma degli artt. 41, comma 1, e 39, comma 2, D.P.R. n. 600 del 1973 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972; risultava dall’anagrafe tributaria l’omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini IRPEF, IVA e IRAP per gli anni d’imposta 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005 da parte del N., titolare dell’omonima impresa individuale, e conseguentemente, in base agli elementi acquisiti (inclusi i libri e la documentazione contabile tenuti dal contribuente e reputati, però, non attendibili), aveva determinato l’imponibile con metodo induttivo;

– il ricorso del N. – che contestava la legittimità del metodo di accertamento impiegato e l’omessa considerazione (in relazione all’IVA dovuta) dei costi documentati – era respinto dalla C.T.P. di Brindisi;

– la C.T.R. della Puglia, con la sentenza n. 2035/24/14 del 15/10/2014, in parziale riforma della pronuncia di primo grado disponeva «che l’Agenzia ridetermini il reddito considerando i ricavi ed i costi reali, documentati, contabilizzati ed inerenti all’attività economica svolta ai fini della determinazione sia del reddito d’impresa, sia della base imponibile IRAP, nonché dell’IVA dovuta all’erario» e «a carico dell’appellante il pagamento delle sanzioni per omesse presentazioni delle dichiarazioni nelle diverse annualità»;

 – avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi;

– G. N. resiste con controricorso, contenente ricorso incidentale basato su un unico motivo.

CONSIDERATO CHE

1. Preliminarmente, si rileva che la domanda di definizione agevolata della controversia tributaria trasmessa da G. N. è stata respinta dall’Agenzia delle Entrate, in quanto l’importo nella stessa indicato era inferiore a quello effettivamente dovuto in base all’art. 6 D.L. n. 119 del 2018, convertito dalla Legge n. 136 del 2018 e l’istante non aveva provveduto all’integrazione della prima rata dovuta (anch’essa corrisposta in misura inferiore a quanto prescritto).

2. Col primo motivo, l’Agenzia ricorrente deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 2, e 41 D.P.R. n. 600 del 1973 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972, per avere la C.T.R. affermato che l’Ufficio avrebbe dovuto effettuare un accertamento di tipo analitico «in quanto, nel “caso di specie, era in presenza di una contabilità regolare con tutti gli elementi di ricavo e di costo».

Il motivo è fondato.

La C.T.R. ha affermato che la copiosa documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza in sede di verifica e poi esibita dallo stesso N. nel contraddittorio endoprocedimentale fornisse «tutti gli elementi necessari (costi aziendali) per determinare il reddito in misura analitica … Questo Collegio, quindi, ritiene che per l’Ufficio sarebbe dovuto ricorrere all’accertamento di tipo analitico, in quanto, nel caso di specie, era in presenza di una contabilità regolare con tutti gli elementi di ricavo e di costo». Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice d’appello – il quale ha accertato che G. N. aveva omesso di presentare le dichiarazioni dei redditi e IVA (quantomeno per l’anno d’imposta 2001) – legittimamente l’Agenzia delle Entrate ha proceduto all’accertamento d’ufficio, impiegando il metodo induttivo.

Infatti, ai sensi dell’art. 41, comma 1, D.P.R. n. 600 del 1973, per determinare il reddito complessivo l’Ufficio può utilizzare elementi probatori, dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza e può anche fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3, del citato D.P.R. -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 14930 del 15/06/2017, Rv. 644593-01; nello stesso senso, più recentemente, Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 2581 del 04/02/2021, Rv. 660477-01, la quale precisa, però, che l’Amministrazione finanziaria deve comunque determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi – disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente – e, quindi, considerare anche le componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente).

Analogamente, con riguardo all’IVA, «ai sensi dell’art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, l’inottemperanza del contribuente all’obbligo della dichiarazione annuale rende legittimo l’accertamento induttivo da parte dell’Ufficio – il quale può desumere i dati per la ricostruzione del giro d’affari del contribuente da qualunque elemento a sua conoscenza, ivi compresa la dichiarazione tardivamente presentata da quest’ultimo – e preclude che l’imposta versata sugli acquisti di beni e servizi nel periodo dell’omessa dichiarazione possa essere detratta, se non risulti dalle dichiarazioni periodiche, essendo irrilevante che il pagamento di tali imposte sia evincibile da altra documentazione, inclusa la contabilità d’impresa.» (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 1020 del 20/01/2016, Rv. 638480- 01)

3. Col secondo motivo, la ricorrente deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 D.P.R. n. 917 del 1986, per avere la C.T.R. ritenuto che l’Amministrazione dovesse, con accertamento analitico, determinare il reddito considerando i costi aziendali indicati dal N.

La censura è fondata.

La statuizione della C.T.R. è consequenziale all’erronea premessa secondo cui l’Agenzia delle Entrate avrebbe dovuto impiegare il metodo analitico per la ricostruzione del reddito non oggetto di dichiarazione dei redditi. Nonostante l’errato riferimento all’art. 109 T.U.I.R., non applicabile in assenza di una dichiarazione dei redditi (ancorché infedele), il motivo deve ritenersi fondato in quanto l’accertamento induttivo non richiede, contrariamente alle statuizioni della sentenza impugnata, che i costi siano analiticamente considerati, potendo l’Amministrazione finanziaria – nel rispetto dei principi ribaditi anche da Corte Cost., Sentenza n. 225 dell’8/6/2005 – determinare le componenti negative del reddito (che necessariamente vanno prese in esame) valutando l’incidenza percentuale dei costi relativi.

Nella fattispecie, l’Agenzia ha utilizzato, in sede di accertamento, la percentuale indicata dalle tabelle del D.P.C.M. 22 dicembre 1989 e – stante l’inversione dell’onere della prova, che pone a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio – sarebbe spettata al N. la dimostrazione di costi superiori e non già all’Amministrazione il compito di rideterminare «il reddito considerando i ricavi ed i costi reali, documentati, contabilizzati» come invece statuito dalla C.T.R. nel dispositivo della sentenza.

L’accoglimento del motivo comporta l’assorbimento della quarta censura, con cui l’Agenzia ha dedotto l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, per avere la C.T.R. esaminato in modo superficiale e carente la fattispecie e, in particolare, l’operato dell’Agenzia delle Entrate che, conformemente ai principi in materia, aveva riconosciuto in misura percentuale i costi aziendali ai fini della ricostruzione dei ricavi.

4. Col terzo motivo, l’Agenzia deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione del combinato disposto degli artt. 28, 37 e 55 D.P.R. n. 633 del 1972, per avere la C.T.R. statuito che VIVA pagata sulle fatture ricevute dal N. doveva essere detratta dall’IVA a debito; sostiene l’Agenzia che la mancanza di una tempestiva dichiarazione IVA impediva all’impresa la detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti. Il motivo è inammissibile. L’erroneo riferimento normativo (a norme abrogate) non inficia la comprensione del motivo, col quale si censura la decisione per avere ammesso il N. a considerare, in compensazione con l’IVA a debito determinata ex art. 55 D.P.R. n. 633 del 1972, VIVA a credito assolta sugli acquisti documentati, nonostante la tardività (equivalente all’omissione ex art. 2, comma 7, D.P.R. n. 322 del 1998) della dichiarazione annuale, che l’Agenzia ricorrente considera «titolo necessario per il riconoscimento del diritto del contribuente alla detrazione … [in difetto del quale si] determina la perdita definitiva del diritto in parola» (pag. 21 del ricorso).

Tuttavia, il motivo è inammissibile perché formulato senza riportare in maniera intelligibile gli elementi dell’avviso di accertamento necessari a comprendere l’operato dell’Agenzia delle Entrate riguardanti, peraltro, circostanze che sono contraddette dal controricorrente (il quale – oltre ad eccepire l’inammissibilità della censura – nega che nell’avviso di accertamento l’Agenzia, liquidando l’IVA “a valle” sui corrispettivi presunti, abbia riconosciuto qualsivoglia detrazione sull’IVA “a monte”).

Difatti, solo in modo generico la ricorrente afferma di aver considerato – per la determinazione dell’IVA dovuta – anche l’«IVA assolta sugli acquisti come determinata analiticamente dalle fatture rilevate» e, nel prosieguo del ricorso, sostiene però che, «a fronte dei versamenti indicati dalla parte nella dichiarazione omessa, perché presentata oltre il termine di 90 giorni dalla scadenza, sono stati considerati solo una parte degli stessi, con la conseguenza che i rilievi accertati sono stati calcolati al netto delle effettive, seppur parziali, imposte pagate».

5. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, G. N. deduce (ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione degli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, D.Lgs, n. 471 del 1997, per avere la C.T.R. – statuendo che il controricorrente debba rispondere del «pagamento delle sanzioni per le omesse presentazioni delle dichiarazioni nelle diverse annualità» – confermato l’importo delle sanzioni, sebbene computato sull’ammontare di imposte dovute in forza di un avviso di accertamento “da rivedere” – ed esteso la decisione a periodi di imposta differenti.

La censura è fondata.

La rideterminazione delle imposte dovute incide automaticamente sull’importo delle sanzioni (art. 19 D.Lgs. n. 472 del 1997), sicché è contraddittoria la pronuncia della C.T.R. che, da un lato, dispone «che l’Agenzia ridetermini il reddito considerando i ricavi ed i costi reali … ai fini della determinazione sia del reddito d’impresa, sia della base imponibile IRAP, nonché dell’IVA dovuta all’erario» e, dall’altro, conferma «a carico dell’appellante il pagamento delle sanzioni per omesse presentazioni delle dichiarazioni», per giunta, oltre il thema decidendum (anno d’imposta 2001) «nelle diverse annualità».

6. In conseguenza di quanto esposto, dunque, la sentenza deve essere cassata con rinvio alla C.T.R. della Puglia, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso principale; dichiara inammissibile il terzo motivo e assorbito il quarto motivo del ricorso principale;

accoglie il ricorso incidentale;

cassa la decisione impugnata con rinvio alla C.T.R. della Puglia, in diversa composizione, anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Quinta Sezione Civile, il 13 maggio 2021.

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