FOCUS

LA TASSAZIONE DEI PROVENTI ILLECITI

27 aprile 2016

L’attenzione che il legislatore tributario riserva, da sempre, all’ampliamento dei propri settori di intervento è nota e nella storia dell’Europa ha raggiunto talvolta livelli che oggi fanno sorridere: basti pensare, ad esempio, alle imposte sulle finestre (Francia 1798 -1926; Regno Unito 1695 – 1851; Spagna e Paesi Bassi XVIII secolo); a quella sulla barba (Russia 1689 – 1725); sul celibato (Italia 1927 – 1943) sulle vedove che contraevano matrimonio prima di 12 mesi dalla morte del marito (Spagna, XIV sec) oppure sulla parrucca (Francia e Inghilterra XVIII secolo).

Parrucca

 

Fermi restando gli effetti, talvolta distorsivi, che tali provvedimenti hanno nel tempo determinato e le considerazioni che possono essere espresse su più versanti, è senza dubbio da riconoscere che, in specifiche circostanze, iniziative statuali di soggezione all’imposta di condotte “sgradevoli o censurabili” rispondono ad esigenze politico-sociali.

Sul tema gli studiosi sono soliti ricordare che nella storia italiana, a cavallo del secondo conflitto mondiale, con carattere di eccezionalità e fondandola su principi giuridici estranei alla tradizione tributaria nazionale, fu introdotta la tassazione sui profitti di contingenza o di speculazione (dl lgt 10 agosto1944 nr 199 e rdl 27 maggio 1946 nr 436).

In sostanza dovevano essere assoggettati a tassazione, e in determinati casi ad avocazione, sia i profitti ottenuti dall’esercizio di attività contrastanti con le disposizioni di disciplina dei prezzi e degli ammassi (cosiddetto “mercato nero”) sia quelli derivanti da ogni altra attività che avesse tratto vantaggio dalla contingenza bellica e dagli eventi ad essa connessi.

Al 30 giugno 1950, termine di decadenza dell’azione amministrativa, risultavano eseguiti 1.560.275 accertamenti per un reddito complessivo di 241 miliardi di lire ed un gettito di 68 miliardi (F. La Cecilia, “La gestione della Finanza Straordinaria”, in Tributi nr 12, marzo 1966, in Domenicantonio Fausto, “Saggi di storia dell’economia finanziaria”, pp 305 e sgg, Francoangeli, 2015.

In epoca più recente, con l’entrata in vigore del TUIR del 1958, del DPR 597/1973 e, successivamente, con il TU del 1986, il tema della tassazione dei profitti/proventi illeciti ha prodotto in dottrina un intenso dibattito che può essere sintetizzato nella contrapposizione di due tesi:

  • da un lato, veniva esclusa la tassabilità di questa tipologia di redditi per la fondamentale ragione che il legislatore non aveva espressamente previsto l’attività illecita tra le fonti del reddito;
  • dall’altro, in linea di principio era sostenuta la ragionevolezza di considerare un fatto, qualificato come illecito da altre norme dell’ordinamento, come espressivo di capacità contributiva. Si argomentava che, in caso contrario, doveva ammettersi la riserva a tali ricchezze di un trattamento di favore, oltre che violare il precetto costituzionale.

Almeno all’inizio, la giurisprudenza di legittimità si era orientata nel ritenere che la ricchezza derivante dall’esercizio di un’attività illecita non potesse essere ricondotta al concetto di reddito “in senso tecnico” al quale si riferivano le norme tributarie (sentenza Corte di Cassazione, 24 giugno 1992, n. 9405, successivamente richiamata anche dalle Sezioni Unite, con la pronuncia n. 2798 del 7 marzo 1994).

Per risolvere le dispute il legislatore è intervenuto introducendo l’art. 14, comma 4, della Legge n. 537 del 1993, in base al quale i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo debbono essere assoggettati alle imposte reddituali nell’ipotesi in cui tali proventi (i) posseggano i requisiti necessari per trovare collocazione all’interno di una delle categorie reddituali previste dal Testo Unico e (ii) che non fosse già attuato, in relazione ai proventi medesimi, un provvedimento di “sequestro o confisca penale”.

Problemi interpretativi ed applicativi provocarono l’emanazione di circolari ministeriali (cfr CM 10 agosto 1994 n° 150; CM 9 agosto 1999 n°176; CM 7agosto 2000 n°156; CM 4 agosto 2006 n° 28) e di una nuova norma (art. 36, comma 34-bis, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223) con la quale si chiariva che “la disposizione di cui al comma 4 dell’art. 14 della Legge 24 dicembre 1993, n. 537, si interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi indicati , qualora non siano classificabili nelle categorie di reddito di cui all’art. 6, comma l, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono comunque considerati come redditi diversi”.

Un ulteriore contributo chiarificatore sul tema – con riferimento specifico all’effettiva portata della clausola di esclusione della tassabilità dei redditi illeciti – è stato fornito dalla giurisprudenza di legittimità che ha evidenziato la necessità che il provvedimento cautelare o ablativo del provento illecito, ai fini della sua operatività, deve essere intervenuto entro il periodo d’imposta di maturazione del provento. Secondo la Suprema Corte, in sintesi, l’obbligazione tributaria, riproducendosi come “autonoma” in ogni periodo d’imposta (art. 7 del TUIR), presenta una non eliminabile connotazione temporale, per il fatto che, oltrepassato quel periodo, la fattispecie impositiva rinasce come diversa. Ne deriva che, come il presupposto dell’imposta va individuato nel “possesso di redditi” nel periodo considerato, così eventuali vicende di quel possesso, oltre lo stesso arco temporale, non ricoprono alcuna rilevanza sulla configurazione della fattispecie tributaria (cfr sentenze C,Cass n° 7337 del 13 maggio 2003 e 19078 del 29 settembre 2005 – successivamente suffragate dalle sentenze n° 4625 del 22 febbraio 2008, 28574 del 2 dicembre 2008, 869 del 20 gennaio 2010, 25467 del 13 novembre 2013, 28519 in data 20 dicembre 2013 e 21195 in data 8 ottobre 2014).

Conseguentemente, se l’accertamento riguarda illeciti proventi relativi a più annualità, il sequestro o la confisca sono opponibili al fisco soltanto con riferimento all’annualità in cui detti atti ablatori siano stati posti in essere e non per quelle precedenti.

Inoltre, non sarebbe di ostacolo alla concreta tassazione dei proventi illeciti neanche l’eventuale circostanza di una successiva restituzione delle somme illecitamente conseguite, data l’ininfluenza di tale evento rispetto alla nascita dell’obbligazione tributaria individuata dall’art. 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993 (C.Cass 9 dicembre 2008, n. 28896).

Per completezza di esame del fenomeno devono essere registrate altre posizioni di interesse.

Sul tema è intervenuto il Ministero dell’Economia e delle Finanze chiarendo che l’imponibilità dei proventi “non è limitata alla sola IRPEF, bensì si estende, ricorrendone i presupposti soggettivi ed oggettivi , anche all’IRPEG e all’ILOR (oggi, rispettivamente, IRES e IRAP)” .

La riconducibilità di talune tipologie di proventi illeciti ad una delle categorie reddituali previste dal TUIR è stata espressamente riconosciuta dall’Amministrazione finanziaria che ha sottolineato come siano chiaramente tassabili, ad esempio, “i redditi di capitale per usura, i redditi di lavoro collegati ad attività illecite, i redditi d’impresa derivanti da attività criminose”.

E’ stato altresì evidenziato che rientra nell’ambito applicativo della norma pure la produzione di redditi di lavoro autonomo o di impresa derivanti da attività normalmente lecite ma che diventano illecite per l’assenza di un requisito previsto dalla legislazione extrafiscale che regolamenta lo specifico settore nel quale le stesse sono esercitate (ad esempio, nei casi di mancata iscrizione in albi professionali, di mancato possesso dei requisiti o titoli di studio richiesti per lo svolgimento dell’ attività, mancanza di licenze o di altre autorizzazioni amministrative, ovvero di violazione di prescrizioni obbligatorie o di disposizioni della contrattazione collettiva)

La giurisprudenza immediatamente successiva alla legge 537/1993, prendendo atto del nuovo dato legislativo, modificò le sue precedenti posizioni e, sulla base della natura interpretativa di questa nuova disposizione normativa, argomentò la sua applicazione retroattiva, ritenendo il principio della tassabilità dei redditi derivanti da attività illecite insito nell’ordinamento tributari. (tra le prime sentenze, Corte Cass n. 4381 del 19 aprile 1995)

Inoltre, muovendo da questo presupposto, la Corte (sentenze n° 3550 del 12 marzo 2002 e 24471 del 17 novembre 2006), considerando l’art. 14 della citata legge 537/1993 come una “norma di principio” , ha ritenuto i proventi derivanti dall’attività illecita soggetti anche ad IVA. In particolare, i giudici di legittimità hanno rilevato l’aderenza della disposizione al principio comunitario della “neutralità fiscale” dell’imposta. In altri termini, se vi è concorrenza tra le attività svolte lecitamente ed illecitamente, non vi è distinzione di trattamento fiscale tra operazione lecite ed illecite,

Sempre la giurisprudenza di legittimità (sentenza Corte Cass deIl’8 maggio 2002, n. 15984), ha stabilito che, ove un soggetto esercente attività individuale di impresa di commercio espleti anche, a latere, attività di prestito di denaro ad interesse, i proventi di questa seconda attività sono soggetti a tassazione, insieme a quelli dichiarati in ordine all’attività di impresa ufficiale, sia che essi costituiscano il frutto di un illecito, sia che non sussista alcuna illiceità (cfr anche sent Corte Cass del 23 novembre 2007, n. 1058, che con riferimento al reato di concussione, ha sancito che le somme di denaro da versare a titolo di “tangenti”, costituiscono “redditi diversi”, in quanto proventi classificabili tra i “redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere)

Circa l’obbligo di dichiarare ai fini fiscali i proventi illeciti, la giurisprudenza di legittimità ha pure affermato che il provento illecito non sequestrato, né confiscato costituisce reddito tassabile, con la conseguenza che esso deve comportare, per il titolare, tutti gli obblighi connessi. Tra questi, – ad avviso della Corte di Cassazione – rientra sicuramente la tenuta dei libri e delle scritture contabili, la cui omissione costituisce violazione di carattere sostanziale, dato che la mancata annotazione dei proventi può dare luogo ad accertamento di ufficio o a rettifica della dichiarazione del contribuente. (Sentenza n. 220 del 3 marzo 1997).

Inoltre, non è possibile escludere l’operatività degli obblighi fiscali, onde non incorrere in una palese ed ingiustificabile disparità di trattamento con i redditi derivanti da attività lecite. Il mancato assolvimento di questi ultimi obblighi, quindi, determina l’applicabilità delle sanzioni in capo al soggetto condannato per omessa presentazione della dichiarazione di redditi illeciti (sentenza n. 42160 del 7 ottobre 2010)

La Corte di Cassazione ha anche chiarito che, nel caso di riconduzione dei proventi illeciti ad una delle categorie reddituali, deve negarsi l’applicazione dell’esclusione delle sanzioni per obiettive condizioni di incertezza” ex art. 8 del D.Lgs. n. 546 del 1992 (sentenza n. 2011 del 29 gennaio 2014)

La panoramica delineata può ora essere integrata con l’esame – necessariamente sintetico ma comunque sufficiente per proficue riflessioni – di ulteriori due profili costituiti dalla (a) disciplina sull’indeducibiltà dei costi da reato e (b) dall’autonomia del processo penale rispetto all’accertamento/processo tributario.

In ordine al primo aspetto deve essere ricordato che con la legge finanziaria 2003 (art 2, comma 8 della legge 27 dicembre 2003) è stata sancita la regola della indeducibilità dei costi e delle spese connessi a fatti che costituiscono reato, aggiungendo al citato art 14 della legge 537/1993 un comma 4 bis in base al quale nella determinazione dei redditi di cui all’art 6 del TUIR 917/1986 non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti. Si trattava, in altri termini, di una significativa eccezione al generale principio di determinazione del reddito, con valenza di “sanzione indiretta” a carico del responsabile di un reato.

Come era prevedibile, la norma suscitò in dottrina forti perplessità anche per la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate (Circolare 26 settembre 2005 , n. 42/E) e dalla giurisprudenza di merito che sulla scorta del principio del doppio binario tra procedimento penale e accertamento tributario, avevano chiaramente ritenuto come la mera presentazione della “notitia criminis ” al Pubblico Ministero fosse sufficiente a determinare l’indeducibilità dei costi .

I giudici tributari, in particolare, erano giunti sollevare dubbi di incostituzionalità per violazione degli artt. 3, 27 e 53 della Costituzione, questione risolta dalla Consulta con dichiarazione di inammissibilità (ordinanza n° 73 del 2011).

Al fine di risolvere tali dubbi interpretativi, il legislatore è nuovamente intervenuto con l’art. 8 del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modifiche dalla legge 26 aprile 2012 n° 44, ridefinendo l’ambito della indeducibilità ai costi e alle spese dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo

Invero, si tratta di un’impostazione coerente rispetto alla conclusione cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità secondo cui i costi connessi ad attività penalmente rilevanti, poiché sorti in un contesto antigiuridico che è del tutto estraneo alla normale conduzione delle attività aziendali. Più precisamente, “in questi casi manca il nesso d’inerenza, atteso che la spesa non nasce più nell’impresa, ma in un atto o fatto antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale. La spesa non deriva, dunque, da un’attività connessa al corretto esercizio dell’impresa stessa e non può pertanto qualificarsi come fattore produttivo, trattandosi di condotta non soltanto autonoma ed esterna rispetto alla normale vita aziendale, ma antitetica rispetto al corretto svolgimento di tale attività”(Corte Cass 27 settembre 2011 , n. 19702; Il novembre 2011 , n. 23626 e, soprattutto, 24 settembre 2014 , n. 2005).

La nuova previsione normativa sancisce la subordinazione dell’indeducibilità di costi e spese alla diretta utilizzazione in attività illecite dei beni acquistati e delle prestazioni di servizi ricevute; la irrilevanza degli atti o attività qualificabili come delitto colposo ovvero come contravvenzione e, infine, che la operatività del precetto legislativo è subordinata all’esercizio dell’azione penale ovvero all’emissione di altri specifici provvedimenti ( ai sensi degli art 405, 424 e 425 CPP e 157 CP).

Inoltre è previsto espressamente il rimborso delle maggiori imposte versate (cfr Circolare Agenzia Entrate 2 agosto 2012 n° 32/E) nel caso di sentenza definitiva di assoluzione (530 CPP), di non luogo a procedere per motivi diversi dalla prescrizione del reato (425 CPP), di non doversi procedere (529 CPP).

L’attuale disciplina dell’indeducibilità dei costi da reato sembra perciò confermare l”erosione “ del criterio del “doppio binario” (art 20, D.Lgs n°74 del 2000) e alimentare ulteriormente le note e dibattute dispute dottrinali sulla paventata crisi delle relazioni fra procedimento penale e processo tributario.

L’affermazione consente di introdurre il secondo tema.

E’ utile sottolineare che il principio della completa autonomia reciproca delle sfere di azione penale ed amministrativa, escludendo qualsiasi pregiudizialità o vincolo sospensivo tra i due contesti, è consolidato nell’ordinamento giuridico con la conseguenza che l’attività di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria (e dei processi davanti alle Commissioni Tributarie) si sviluppano in parallelo, a prescindere dall’andamento e all’esito del procedimento penale sui medesimi fatti.

Su tali aspetti la giurisprudenza di legittimità ha assunto una chiara posizione di tutela del precetto legislativo (cfr, tra le altre, Corte Cass n° 3421 e 15207 del 2001 889, 3961, 6337, 9109 del 2002; n° 19481 del 2004; n° 10945 del 2005; n° 27919 del 2009; n° 3724 del 2010; n° 12436 del 2011; n°2938 e 6823 del 2015)’.

A tale specifico fine, per evitare la prescrizione dei termini di accertamento tributario in danno dell’Amministrazione Finanziaria, è da tempo operante un costante coordinamento tra gli uffici fiscali, civili e militari, e l’Autorità Giudiziaria, per assicurare efficacia e tempestività alle attività di contrasto delle attività illecite .

In questa direzione si inquadra anche la previsione della legge di stabilità 2016 (legge 28 dicembre 2015 n° 208) che modifica l’art 4 della legge 537/1993 disponendo che in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art 331 CPP per qualsiasi reato da cui possa derivare un provento o vantaggio illecito, anche indiretto, le competenti Autorità inquirenti ne danno immediata notizia all’Agenzia delle Entrate affinchè proceda al conseguente accertamento.

In conclusione, riserviamo una annotazione su un profilo particolare costituito dal dal recepimento della direttiva 2014/42/UE (allo stato entro il 4 ottobre 2016 per effetto della legge delega 7 ottobre 2014 n°154) in materia di congelamento e confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione Europea.

Il perimetro di intervento riguarda delitti ritenuti di particolare rilievo per gli interessi comunitari e che gli Stati membri sottoporranno ad una disciplina “speciale” in tema di congelamento, sequestro e confisca estesa dei beni. Si tratta delle fattispecie di corruzione di funzionari delle Comunità Europee o degli Stati membri dell’Unione, dei reati informatici, della falsificazione di monete e della falsificazione di mezzi di pagamento diversi dai contanti, del riciclaggio di denaro, del terrorismo, della corruzione nel settore privato, dei traffici di sostanze stupefacenti, della criminalità organizzata, della tratta di esseri umani, dell’abuso e dello sfruttamento sessuale dei minori e della pornografia minorile.

La nuova iniziativa legislativa, in corso di recepimento nazionale, risponde all’esigenza di creare favorevoli condizioni per incentivare l’efficacia della cooperazione internazionale, in materia di recupero dei beni e di reciproca assistenza giudiziaria e di rispondere efficacemente alle sfide poste dalle nuove dinamiche criminali sempre meno costrette dai confini nazionali e capaci di delocalizzare all’estero le proprie attività illegali ed i profitti da queste derivanti.

E’ chiaro quindi come sia sempre più diffuso il ricorso a strumenti giuridici di matrice transnazionale per perseguire delitti e, di conseguenza, ad ampliare notevolmente anche l’area di possibile interesse statuale ad azioni di tassazione di profitti illeciti che quei reati di solito generano.

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