CASSAZIONE

La società impegnata nel contenzioso tributario non ha diritto all’anonimato dei propri dati

Tributi – Dogane – Società di spedizioni internazionali – Dazi e sanzioni tributarie – Diritti di confine – Documentazione manifestamente falsa – Contenzioso – Istanza di anonimato – Rigetto

La Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 25173 del 23 agosto 2023, interessandosi di una controversia che vedeva una società di import-export contestare le sanzioni tributarie comminate dall’Agenzia delle dogane e che, in particolare, aveva presentato una richiesta di anonimizzazione dei nominativi dei soci presenti nel giudizio tributario, ha respinto tale richiesta specificando che il procedimento in essere riguardava questioni che non contenevano dati sensibili, comunque prive di quella particolare riservatezza che risulti tale da inibire la pubblicità del provvedimento giurisdizionale.

L’istanza di anonimizzazione formulata dalla società ricorrente è stata quindi negata, anche ricordando che in tema di diritto all’anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti interessati garantito dall’art. 52 del D.lgs. 196/2003 nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali – stanti le modifiche apportate dall’art. 40, Dl 201/2011, convertito in legge 214/2011, che ha eliminato il riferimento alla persona giuridica – riveste la qualità di interessato, legittimato a presentare l’istanza di anonimizzazione delle generalità e degli altri dati identificativi, solamente la persona fisica, che può proporla in presenza di motivi legittimi, da intendersi come motivi opportuni (Cass., Sez. V, 7 agosto 2020, n. 16807; Cass., Sez. V, 12 agosto 2021, n. 22754; Cass., Sez. VI, 9 febbraio 2022, n. 4167).

Nella specie, la Suprema Corte ha evidenziato che l’istanza presentata era gravata da un ulteriore difetto del presupposto oggettivo delle ragioni, peraltro non indicate dal ricorrente, per procedere alla anonimizzazione delle generalità del ricorrente, trattandosi di questioni relative a dazi doganali e sanzioni tributarie, che non attengono a dati sensibili.

L’anonimizzazione dei dati personali è un’operazione di particolare rilevanza per garantire la privacy e come è ormai noto, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR) relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, il legislatore italiano ha ravvisato l’esigenza di interpolare il testo del previgente Codice in materia di protezione dei dati personali al fine di un adeguamento dell’ordinamento nazionale alle rispettive previsioni eurounitarie.

Il diritto alla riservatezza, pur non espressamente contemplato dalla Costituzione, è un diritto assoluto della personalità, che tutela in generale le vicende strettamente personali, prive di un rilievo socialmente apprezzabile per i terzi, contro ingerenze non giustificate da interessi pubblici preminenti, consentendo all’interessato di controllare la diffusione dei propri dati personali e di reagire di fronte a comportamenti illegittimi da parte di coloro che tali dati trattano.

Il GDPR, abrogando la Direttiva 95/46/CE2, ha dettato una nuova disciplina della tutela dei dati personali, pur riconoscendo agli Stati nazionali la facoltà di prevedere limitazioni ai principi in esso contenuti in determinati casi. Prima dell’approvazione delle norme self-executing del GDPR, gli artt. 46 e 47 del Codice in materia di protezione dei dati personali costituivano i riferimenti essenziali nell’ambito del trattamento di dati effettuato per ragioni di giustizia.

In particolare, l’art. 47 prevedeva ampie limitazioni applicative delle norme del codice, stabilendo che “… in caso di trattamento di dati personali effettuato presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado, presso il Consiglio superiore della magistratura, gli altri organi di autogoverno e il Ministero della giustizia, non si applicano, se il trattamento è effettuato per ragioni di giustizia, le seguenti disposizioni del codice:a) articoli 9, 10, 12, 13 e 16, da 18 a 22, 37, 38, commi da 1 a 5, e da 39 a 45;b) articoli da 145 a 151”.

A seguito delle modifiche apportate dal D.lgs. 101/2018, l’art. 47 è stato abrogato e il suo contenuto è confluito nell’art. 2-duodecies del D.lgs. 196/2003. Quest’ultima disposizione stabilisce che nella soggetta materia “…i diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti”. Il comma 4 di tale articolo precisa che i trattamenti effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli “correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie”, nonché “… i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti”.

Comunque, in linea generale, si concorda con l’osservazione per cui il trattamento dei dati relativi alle funzioni giurisdizionali può riguardare anche i dati sensibili che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona (art. 9, par. 1, 2, lett. f, del Regolamento (UE) 2016/679). Qualora il trattamento di tali dati sia necessario “per l’accertamento, l’esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria”, non trova applicazione il cosiddetto diritto all’oblio (art. 17, par. 3, lett. e, del Regolamento (UE) 2016/679).

Il diritto dell’Unione europea consente ai singoli Stati di prevedere specifiche limitazioni per ragioni di giustizia ai diritti degli interessati (art. 55, par. 3 del Regolamento (UE)2016/679).

Infine, con riferimento alla Corte di Cassazione, merita menzione fra le molte il decreto del Primo Presidente Racc. Gen. n. 178/2016 (all. 3), con cui si è sottolineata l’esigenza di assicurare la più ampia diffusione delle decisioni della Corte di Cassazione nel rispetto del diritto alla protezione dei dati personali e si è a tal fine sollecitata l’attenzione dei Collegi giudicanti, in particolare dei presidenti e degli estensori, sull’eventuale necessità di disporre l’oscuramento dei dati identificativi nelle ipotesi individuate dall’art. 52, D.lgs. 196/2003. Si è pertanto disposto, in un’ottica di collaborazione, che già le Cancellerie centrali (civile e penale) provvedano a segnalare quei procedimenti in cui sia stata presentata richiesta di oscuramento o che rientrino nelle ipotesi di oscuramento obbligatorio, attraverso un’apposita stampigliatura sul fascicolo. A questo primo filtro deve seguire poi il controllo dei magistrati addetti all’esame preliminare dei ricorsi, i quali dovranno verificare se i procedimenti per i quali sia obbligatoria l’anonimizzazione o possano comunque sussistere i presupposti per l’oscuramento, siano stati debitamente segnalati, altrimenti provvedono essi stessi a far inserire la relativa annotazione.

Concludiamo ricordando che nei casi di oscuramento obbligatorio o di accoglimento dell’apposita istanza, i singoli Collegi provvederanno ad annotare sui ruoli di udienza che, prima di procedere alla diffusione in Internet del provvedimento (Italgiureweb, Servizio Novità e Sentenze Web del sito della Corte di cassazione), si dovrà procedere al relativo oscuramento, operazione che spetta poi all’Ufficio C.E.D.

Tanto premesso e tornando al caso specifico in dibattimento, una società di spedizioni internazionali, titolare del regime doganale di transito comunitario esterno, ha impugnato un avviso di pagamento per diritti di confine e un atto di contestazione di sanzioni, relativi a operazioni di transito di merce acquistate in Cina tramite emissione del documento T1 con procedura informatica NCTS, in relazione ai quali l’ufficio aveva riscontrato l’assenza dei presupposti del transito doganale per non essere state le merci presentate alla dogana di destinazione (Romania).

In particolare veniva accertato, in relazione al Documento Amministrativo Unico (DAU) emesso dalla dogana rumena di destinazione, esibito dalla società contribuente a comprova dell’arrivo a destino della merce, la falsità di tale documento, per cui veniva recuperato l’importo dei dazi.

Rivolgendosi alla giustizia tributaria, la società contribuente riteneva di essere stata vittima di una frode perpetrata da terzi, cosa peraltro confermata in CTP sia in CTR.

La Suprema Corte, intervenuta con sentenza n. 1788/2019, annullava con rinvio la sentenza del giudice di appello, ritenendo che questi, in presenza di documenti manifestamente falsi, avesse erroneamente ritenuto rilevante la buona fede della contribuente, trasferendo sull’ufficio l’onere di provare la mala fede del contribuente.

Nuovamente intervenuta la CTR, adita in sede di giudizio di rinvio, con sentenza del 14 gennaio 2021 accoglieva l’appello dell’ufficio.

La società contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi in cui essenzialmente si deduceva, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 201 Reg. (CEE) n. 2913/92, sostituito dall’art. 79 Reg. (UE) n. 952/13, osservando che le disposizioni del Codice doganale non contengono una presunzione assoluta di responsabilità, ma una affermazione di corresponsabilità del titolare del regime doganale. La Suprema Corte ha rigettato tale affermazione e ha stabilito quanto segue: “…Osserva parte ricorrente che le disposizioni del codice doganale non contengono una presunzione assoluta di responsabilità, ma una affermazione di corresponsabilità del titolare del regime doganale, a condizione che vi fosse prova che egli sapesse o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che non fosse rispettato un obbligo previsto dalla normativa doganale. Il ricorrente osserva come l’obbligato principale non potesse essere a conoscenza della circostanza che i timbri, benché genuini, non fossero più in uso presso la dogana di destinazione, costituendo ciò violazione dell’art. 79 Reg. (UE) n. 952/13 quale ius superveniens. 3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per motivazione apparente in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., mancando la stessa dell’illustrazione dell’iter logico che ha condotto alla decisione. 4. Il terzo motivo, il quale appare pregiudiziale, è infondato.Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di nullità della sentenza per motivazione apparente è rubricabile solo nel caso in cui non sia evincibile il percorso logico che ha condotto il giudice del merito alla decisione, così venendo meno all’obbligo costituzionale di motivazione (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053). Il giudice di appello ha ritenuto che l’obbligazione doganale sia sorta a carico della società contribuente per avere questa garantito, in qualità di spedizioniere, che la merce sarebbe giunta alla dogana di destinazione (Romania), considerandosi la società contribuente “responsabile del buon esito del transito stesso a prescindere dal fatto che essa abbia agito in buona o in cattiva fede”.  Il percorso motivazionale appare compiuto e comprensibile. 5. Il primo motivo è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, non viene illustrata la decisività di tale circostanza, ossia se e in che termini – ove il giudice avesse preso in esame tale circostanza in fatto – la decisione del giudice del rinvio sarebbe stata diversa, posto che la decisione del giudice di appello è stata fondata sull’assunzione di garante da parte della società contribuente. 6. In secondo luogo, l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma” (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476). Nella specie, risulta dalla narrativa della sentenza impugnata che era stato accertato, tra le altre cose, che “i timbri apposti (…) non erano più in uso a partire dal 1° gennaio 2006” e che, come visto supra, la società contribuente è stata ritenuta “responsabile del buon esito del transito stesso a prescindere dal fatto che essa abbia agito in buona o in cattiva fede”. Quand’anche, pertanto, la circostanza dedotta da parte ricorrente fosse (in tesi) indiziaria dell’esenzione da responsabilità, tale circostanza è stata implicitamente considerata dal giudice di appello e ritenuta irrilevante. 7. Va, peraltro, osservato che parte ricorrente censura con il suddetto motivo la decisione nella parte in cui la responsabilità della società contribuente è stata incentrata sulla prestazione di garanzia, questione giuridica che non può rientrare – al pari delle argomentazioni difensive – nel paradigma dell’omesso esame di un fatto storico (Cass., Sez. V, 17 febbraio 2013, n. 5113; Cass., Sez. V, 11 luglio 2022, n. 21948; Cass., Sez. II, 26 aprile 2022, n. 13024). 8. Il secondo motivo, sul quale il ricorrente ritorna diffusamente in memoria, è infondato. In disparte l’inammissibilità del suddetto motivo, dovendosi censurare l’eventuale violazione del principio di diritto enunciato in fase rescindente da questa Corte, va, in primo luogo, precisato che – vertendosi in tema di importazioni risalenti al periodo di imposta 2007 – la norma applicabile è l’art. 203 Reg. (CEE) n. 2913/1992, in vigore sino al 30 aprile 2016. Ciò premesso, in disparte l’estraneità della questione prospettata alla ratio decidendi, incentrata sull’assunzione di garanzia da parte della società contribuente, nel caso di omessa presentazione della merce in regime comunitario esterno alla dogana di destinazione “si configura la responsabilità dello spedizioniere, unitamente all’obbligato principale, perché la merce è uscita dal territorio doganale dell’Unione Europea e il titolare di detto regime non è in grado di produrre documenti conformi all’art. 365, paragrafo 3, del regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento n. 2913/92, nella versione di cui al regolamento (CE) n. 993/2001 della Commissione, del 4 maggio 2001, o all’art. 366, paragrafi 2 e 3, del regolamento n. 2454/93, nella versione di cui al regolamento (CE) n. 1192/2008 della Commissione, del 17 novembre 2008” (CGUE, 29 ottobre 2015, B & S Global Transit, C-319/14; Cass., Sez. V, 23 luglio 2019, n. 19796). 9. La mancata presentazione della merce alla dogana di destinazione di merce sottoposta a vigilanza doganale impedisce il controllo anche temporaneo da parte delle autorità doganali e costituisce sottrazione al controllo doganale, di cui all’art. 203, paragrafo 1 CDC (CGUE, C-391/14, cit., punto 28). Pertanto, ove si tratti di merci vincolate al regime del transito comunitario esterno non presentate all’Ufficio doganale di destinazione, l’art. 203, paragrafo 1 CDC non trova applicazione solo nel caso in cui sia provata la perdita irrimediabile della merce stessa e limitatamente alla parte di cui sia provata la distruzione (CGUE, 18 maggio 2017, Latvijas Dzelzcelè VAS, C-154/16, punti 50, 65, 72). 10. In ogni caso, le questioni dedotte dal ricorrente e ribadite in memoria, attengono alla prova contraria che dovrebbe essere data dal contribuente, questione estranea per come tracciata dal ricorrente (che affronta il tema sotto il profilo della diligenza) sia alla perdita del carico, sia al thema decidendum posto dalla sentenza impugnata, incentrato sulla obbligazione conseguente a una prestazione di garanzia. 11. Va, infine, rigettata la richiesta di rinvio pregiudiziale formulata dal ricorrente, in quanto non si verte, in questo caso, in tema di presunzione assoluta di responsabilità, bensì – in disparte la estraneità della questione alla ratio decidendi, fondata sull’assunzione di garanzia – in tema di mancata presentazione alla dogana di destino di merci vincolate al regime del transito comunitario esterno per le quali non sia provata la perdita irrimediabile della merce stessa. 12. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo, oltre al raddoppio del contributo unificato.  Va rigettata l’istanza di anonimizzazione formulata dalla società ricorrente, posto che in tema di diritto all’anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti interessati garantito dall’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003 nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali – stanti le modifiche apportate dall’art. 40 D.L. n. 201 del 2011, conv. in l. n. 214/2011, che ha eliminato il riferimento (anche) alla persona giuridica – riveste la qualità di interessato, legittimato a presentare l’istanza di anonimizzazione delle generalità e degli altri dati identificativi, solamente la persona fisica, la quale può proporla in presenza di motivi legittimi, da intendersi come motivi opportuni (Cass., Sez. V, 7 agosto 2020, n. 16807; Cass., Sez. V, 12 agosto 2021, n. 22754; Cass., Sez. VI, 9 febbraio 2022, n. 4167).  13. Nella specie fa difetto – salva la mancanza del presupposto soggettivo – il presupposto oggettivo delle ragioni per procedere alla anonimizzazione delle generalità del ricorrente – ragioni, peraltro, non indicate dal ricorrente – trattandosi di questioni relative a dazi doganali e sanzioni tributarie, le quali non attengono a dati sensibili e, comunque, sono prive di quella particolare riservatezza che risulti tale da inibire la pubblicità del provvedimento giurisdizionale”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 23 agosto 2023, n. 25173

sui ricorsi proposti da

C. A., nato a Cremona il 27/8/1951 T. A., nato a Roma il 24/4/1974, B. A., nato a Nocera Inferiore il 19/7/1949

avverso la sentenza emessa il 18/5/2022 dalla Corte di appello di Bologna

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso;

udita la relazione del consigliere Paolo Di Geronimo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Perla Lori, che ha chiesto l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio per T., il rigetto dei ricorsi di B. e C.;

udito l’avvocato Marco Zincani, difensore della parte civile S.t.T. Holding s.p.a, il quale ha chiesto il rigetto dei ricorsi e la conferma della statuizioni civili, depositando nota spese;

udito l’avvocato Maurizio Bellacosa, difensore di A. B., che conclude per l’accoglimento del ricorso;

uditi gli avvocati Beniamino Migliucci e Patrizia Pecoraro, difensori di A. C., che concludono per l’accoglimento del ricorso;

udito l’avvocato Gian Domenico Caiazza, difensore di A. T., il quale chiede l’accoglimento del ricorso

Svolgimento del processo

1. La società contribuente (Omissis) Srl , società di spedizioni internazionali titolare del regime doganale di transito comunitario esterno, ha separatamente impugnato un avviso di pagamento per diritti di confine e un atto di contestazione di sanzioni, relativi a operazioni di transito di 66 partite di merce acquistate in Cina tramite emissione del documento T1 con procedura informatica NCTS, avvenute tra l’aprile e il settembre 2007, in relazione ai quali l’Ufficio aveva riscontrato l’assenza dei presupposti del transito doganale per non essere state le merci presentate alla dogana di destinazione (Romania).

2. In particolare, si accertava – in relazione al DAU emesso dalla dogana rumena di destinazione, esibito dalla società contribuente a comprova dell’arrivo a destino della merce – la falsità di tale documento, per cui veniva recuperato l’importo dei dazi. L’atto impositivo faceva seguito a precedenti atti impositivi annullati in sede giurisdizionale e teneva conto del pagamento da parte del garante.

La società contribuente riteneva di essere vittima di una frode perpetrata da terzi.

3. La CTP di Brescia ha accolto i ricorsi, con sentenza confermata dalla CTR della Lombardia.

Questa Corte (Cass., Sez. V, 23 gennaio 2019, n. 1788) ha cassato con rinvio la sentenza del giudice di appello, ritenendo che il giudice di appello, in presenza di documenti manifestamente falsi, avesse erroneamente ritenuto rilevante la buona fede della contribuente, trasferendo sull’Ufficio l’onere di provare la mala fede del contribuente.

4. La CTR della Lombardia, Sezione staccata di Brescia, adita in sede di giudizio di rinvio, con sentenza del 14 gennaio 2021 ha accolto l’appello dell’Ufficio. Ha ritenuto il giudice del rinvio che la società contribuente, in quanto spedizioniere e garante dell’operazione, ha assunto la responsabilità solidale in relazione alla merce oggetto di spedizione.

5. Propone ricorso per cassazione la società contribuente, affidato a tre motivi e ulteriormente illustrato da memoria; resiste con controricorso l’Ufficio.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Premette parte ricorrente che la responsabilità della contribuente non deriva dall’aver prestato una garanzia, come rilevato dal giudice del rinvio, bensì dall’essere la società contribuente titolare del regime doganale di transito comunitario esterno.

Al riguardo, il ricorrente deduce che non sarebbe stato oggetto di esame la circostanza che i timbri del documento doganale rumeno non fossero falsi, ma semplicemente non più in uso, circostanza che avrebbe reso impossibile per la contribuente riconoscere la falsità ideologica dei documenti.

2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 201 Reg. (CEE) n. 2913/92, sostituito dall’art. 79 Reg. (UE) n. 952/13.

Osserva parte ricorrente che le disposizioni del codice doganale non contengono una presunzione assoluta di responsabilità, ma una affermazione di corresponsabilità del titolare del regime doganale, a condizione che vi fosse prova che egli sapesse o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che non fosse rispettato un obbligo previsto dalla normativa doganale. Il ricorrente osserva come l’obbligato principale non potesse essere a conoscenza della circostanza che i timbri, benché genuini, non fossero più in uso presso la dogana di destinazione, costituendo ciò violazione dell’art. 79 Reg. (UE) n. 952/13 quale ius superveniens.

3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per motivazione apparente in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., mancando la stessa dell’illustrazione dell’iter logico che ha condotto alla decisione.

4. Il terzo motivo, il quale appare pregiudiziale, è infondato.

 Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il vizio di nullità della sentenza per motivazione apparente è rubricabile solo nel caso in cui non sia evincibile il percorso logico che ha condotto il giudice del merito alla decisione, così venendo meno all’obbligo costituzionale di motivazione (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053). Il giudice di appello ha ritenuto che l’obbligazione doganale sia sorta a carico della società contribuente per avere questa garantito, in qualità di spedizioniere, che la merce sarebbe giunta alla dogana di destinazione (Romania), considerandosi la società contribuente “responsabile del buon esito del transito stesso a prescindere dal fatto che essa abbia agito in buona o in cattiva fede”.

Il percorso motivazionale appare compiuto e comprensibile.

5. Il primo motivo è inammissibile per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, non viene illustrata la decisività di tale circostanza, ossia se e in che termini – ove il giudice avesse preso in esame tale cirC.nza in fatto – la decisione del giudice del rinvio sarebbe stata diversa, posto che la decisione del giudice di appello è stata fondata sull’assunzione di garante da parte della società contribuente.

6. In secondo luogo, l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; “neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma” (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476). Nella specie, risulta dalla narrativa della sentenza impugnata che era stato accertato, tra le altre cose, che “i timbri apposti (…) non erano più in uso a partire dal 1° gennaio 2006” e che, come visto supra, la società contribuente è stata ritenuta “responsabile del buon esito del transito stesso a prescindere dal fatto che essa abbia agito in buona o in cattiva fede”. Quand’anche, pertanto, la circostanza dedotta da parte ricorrente fosse (in tesi) indiziaria dell’esenzione da responsabilità, tale circostanza è stata implicitamente considerata dal giudice di appello e ritenuta irrilevante.

7. Va, peraltro, osservato che parte ricorrente censura con il suddetto motivo la decisione nella parte in cui la responsabilità della società contribuente è stata incentrata sulla prestazione di garanzia, questione giuridica che non può rientrare – al pari delle argomentazioni difensive – nel paradigma dell’omesso esame di un fatto storico (Cass., Sez. V, 17 febbraio 2013, n. 5113; Cass., Sez. V, 11 luglio 2022, n. 21948; Cass., Sez. II, 26 aprile 2022, n. 13024).

8. Il secondo motivo, sul quale il ricorrente ritorna diffusamente in memoria, è infondato.

In disparte l’inammissibilità del suddetto motivo, dovendosi censurare l’eventuale violazione del principio di diritto enunciato in fase rescindente da questa Corte, va, in primo luogo, precisato che – vertendosi in tema di importazioni risalenti al periodo di imposta 2007 – la norma applicabile è l’art. 203 Reg. (CEE) n. 2913/1992, in vigore sino al 30 aprile 2016. Ciò premesso, in disparte l’estraneità della questione prospettata alla ratio decidendi, incentrata sull’assunzione di garanzia da parte della società contribuente, nel caso di omessa presentazione della merce in regime comunitario esterno alla dogana di destinazione “si configura la responsabilità dello spedizioniere, unitamente all’obbligato principale, perché la merce è uscita dal territorio doganale dell’Unione Europea e il titolare di detto regime non è in grado di produrre documenti conformi all’art. 365, paragrafo 3, del regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento n. 2913/92, nella versione di cui al regolamento (CE) n. 993/2001 della Commissione, del 4 maggio 2001, o all’art. 366, paragrafi 2 e 3, del regolamento n. 2454/93, nella versione di cui al regolamento (CE) n. 1192/2008 della Commissione, del 17 novembre 2008” (CGUE, 29 ottobre 2015, B & S Global Transit, C-319/14; Cass., Sez. V, 23 luglio 2019, n. 19796).

9. La mancata presentazione della merce alla dogana di destinazione di merce sottoposta a vigilanza doganale impedisce il controllo anche temporaneo da parte delle autorità doganali e costituisce sottrazione al controllo doganale, di cui all’art. 203, paragrafo 1 CDC (CGUE, C-391/14, cit., punto 28). Pertanto, ove si tratti di merci vincolate al regime del transito comunitario esterno non presentate all’Ufficio doganale di destinazione, l’art. 203, paragrafo 1 CDC non trova applicazione solo nel caso in cui sia provata la perdita irrimediabile della merce stessa e limitatamente alla parte di cui sia provata la distruzione (CGUE, 18 maggio 2017, Latvijas Dzelzcelè VAS, C-154/16, punti 50, 65, 72).

10. In ogni caso, le questioni dedotte dal ricorrente e ribadite in memoria, attengono alla prova contraria che dovrebbe essere data dal contribuente, questione estranea per come tracciata dal ricorrente (che affronta il tema sotto il profilo della diligenza) sia alla perdita del carico, sia al thema decidendum posto dalla sentenza impugnata, incentrato sulla obbligazione conseguente a una prestazione di garanzia.

11. Va, infine, rigettata la richiesta di rinvio pregiudiziale formulata dal ricorrente, in quanto non si verte, in questo caso, in tema di presunzione assoluta di responsabilità, bensì – in disparte la estraneità della questione alla ratio decidendi, fondata sull’assunzione di garanzia – in tema di mancata presentazione alla dogana di destino di merci vincolate al regime del transito comunitario esterno per le quali non sia provata la perdita irrimediabile della merce stessa.

12. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo, oltre al raddoppio del contributo unificato.

Va rigettata l’istanza di anonimizzazione formulata dalla società ricorrente, posto che in tema di diritto all’anonimato delle parti in giudizio o dei soggetti interessati garantito dall’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003 nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali – stanti le modifiche apportate dall’art. 40 D.L. n. 201 del 2011, conv. in l. n. 214/2011, che ha eliminato il riferimento (anche) alla persona giuridica – riveste la qualità di interessato, legittimato a presentare l’istanza di anonimizzazione delle generalità e degli altri dati identificativi, solamente la persona fisica, la quale può proporla in presenza di motivi legittimi, da intendersi come motivi opportuni (Cass., Sez. V, 7 agosto 2020, n. 16807; Cass., Sez. V, 12 agosto 2021, n. 22754; Cass., Sez. VI, 9 febbraio 2022, n. 4167).

13. Nella specie fa difetto – salva la mancanza del presupposto soggettivo – il presupposto oggettivo delle ragioni per procedere alla anonimizzazione delle generalità del ricorrente – ragioni, peraltro, non indicate dal ricorrente – trattandosi di questioni relative a dazi doganali e sanzioni tributarie, le quali non attengono a dati sensibili e, comunque, sono prive di quella particolare riservatezza che risulti tale da inibire la pubblicità del provvedimento giurisdizionale.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 7.800,00, oltre spese prenotate a debito; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico di parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. 24 dicembre 2012, n. 228, per il versamento o di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso il 13 aprile 2023

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