CASSAZIONE

La Riscossione non può porre ipoteca sui beni del fondo patrimoniale

Tributi – Riscossione coattiva delle imposte – Iscrizione ipotecaria su beni compresi nel fondo patrimoniale – Debiti tributari per attività di impresa – Proventi non destinati ai bisogni della famiglia – Consapevolezza del creditore – Illegittimità dell’ipoteca

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 15741 del 7 giugno 2021 ha confutato l’iscrizione ipotecaria da parte della Riscossione sui beni del fondo patrimoniale scaturente da un carico fiscale relativo a redditi da partecipazione, ribadendo che non possono essere ricondotti a obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia.  Gli Ermellini hanno rammentato che il creditore, anche quello privilegiato come è il Fisco, non può procedere ex art. 170 del codice civile all’esecuzione per debiti che sa essere stati contratti per scopi estranei alle esigenze della famiglia, rilevando per tali fini la sola relazione tra il fatto che l’ha generata e i bisogni del privato e dei suoi familiari.

In effetti, la presenza di debiti tributari non onorati da parte dei contribuenti ha portato la giurisprudenza a doversi confrontare sovente anche con l’istituto del fondo patrimoniale, disciplinato dagli artt. da 167 a 171 c.c. e introdotto dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 in sostituzione del precedente istituto del patrimonio familiare.

E’ notorio che il fondo patrimoniale impone un vincolo di destinazione su determinati beni per far fronte ai bisogni dei coniugi e dei figli, come specificato dal primo comma dell’art. 167 c.c. che recita: “Ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia”. É altrettanto risaputo che la convenzione in questione crea un regime di protezione per i beni conferiti in fondo che divengono, per ciò stesso, inaggredibili da parte dei creditori.

Tale privilegio comporta una rilevante deroga al principio di responsabilità patrimoniale posto dall’art. 2740 c.c.  “Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri»), non è tuttavia assoluto, ma va declinato in ragione della funzione del conferimento dei beni in fondo, consistente, ex art. 167 c.c. cit., nel «far fronte ai bisogni della famiglia”. Ne deriva, dunque, che solo in relazione a obbligazioni sorte per scopi estranei ai bisogni della famiglia, e che il creditore sapeva essere state assunte per tale genere di scopo, sarà precluso rivalersi sui beni del fondo, laddove una tale protezione non è accordata in ipotesi diversa, come peraltro dispone l’art. 170 c.c. che recita: “La esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. E ciò perché deve escludersi che i carichi tributari sui redditi da partecipazione siano di per sé riconducibili a obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, il presupposto che consente all’Amministrazione finanziaria di procedere all’esecuzione forzata.

Sotto un certo profilo è innegabile che ogni ricchezza individuale è potenzialmente idonea ad arrecare un vantaggio anche indiretto al nucleo familiare, ma ai fini che qui interessano la nozione di obbligazione contratta per i bisogni della famiglia deve necessariamente avere una portata più circoscritta: diversamente si vanificherebbe la riconosciuta possibilità per il debitore di dimostrare la sussistenza del requisito soggettivo, anche sulla base di presunzioni (Cass. n. 15886/2014; Cass. n. 4011/2013). 

Quindi, è possibile ritenere che il punto focale dell’attuale pronunzia, su cui la S.C. ha fornito e motivato altri e importanti chiarimenti, consista proprio nella definizione della natura del debito fiscale o, in altre parole, se il debito è o non è contratto per far fronte ai bisogni della famiglia.

Diviene allora importante precisare cosa si debba intendere per bisogni familiari e come si individuano le risorse economiche ad essi destinate, all’interno di un modello familiare che nel tempo si è evoluto e tende ad armonizzare e bilanciare gli interessi della famiglia con quelli individuali ed a valorizzare le scelte di libertà e l’autonomia dei coniugi nel regolare la vita familiare, nella cornice data dai doveri definiti come inderogabili dall’art 160 c.c.

Da sottolineare, poi, che il problema riguarda anche il fatto che l’esecuzione sui beni del fondo e sui suoi frutti non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia. Questo passo, contenuto nell’art. 170 della legge 151/1975, è stato al centro di un vivace dibattito interpretativo soprattutto in merito all’iscrizione di ipoteca prevista dall’art. 77, DPR 29 settembre 1973, n. 602 da parte dell’agente della riscossione.  

Sul punto occorre sottolineare che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano statuito che “… l’iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, possa essere considerata un atto dell’espropriazione forzata, dovendosi piuttosto essa essere considerata «un atto riferito ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria” (cfr. Cass., SS.UU., 18 settembre 2014, n. 19667 e Cass., SS.UU., 22 luglio 2015, n. 15354).

Questa impostazione è stata successivamente mitigata dalla stessa Corte, che rifacendosi a un precedente orientamento (Cass., 5 marzo 2013, n. 5385) aveva sostenuto che l’art. 170 c.c., nel disciplinare le condizioni di ammissibilità dell’esecuzione sui beni costituiti nel fondo patrimoniale, detta una regola applicabile anche all’iscrizione di ipoteca non volontaria, ivi compresa quella di cui all’art. 77, DPR 3 marzo 1973, n. 602. Ciò perché, “… l’ipoteca si può iscrivere alle stesse condizioni in base alle quali un titolo esecutivo formatosi a carico del coniuge o del terzo che ha conferito il bene nel fondo patrimoniale potrebbe essere fatto valere su di esso e, in particolare, l’art. 170 c.c., regolando l’efficacia sui beni del fondo di titoli che possono giustificare l’esecuzione su di essi, si presta a regolare altresì l’efficacia dei titoli che giustificano l’iscrizione di ipoteca ai sensi dell’art. 2817 c.c., n. 3, e art. 2818 c.c., e che, in conseguenza, sono funzionali all’esecuzione” (Cass.  24 febbraio 2015, n. 3738).

L’agente della riscossione, quindi, può iscrivere ipoteca su beni appartenenti al coniuge o al terzo conferiti nel fondo solo quando il debito facente capo a costoro sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari, ovvero quando – nell’ipotesi contraria – il titolare del credito, per il quale l’esattore procede alla riscossione, non conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia (Cass. 23 novembre 2015, n. 23876).

Sulla asserzione di debiti contratti “per i bisogni della famiglia” si è concentrata da tempo l’attenzione della giurisprudenza, posto che in ambito tributario, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea a escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare detti bisogni (Cass. 31 maggio 2006, n. 12998).

Nello specifico, il criterio identificativo dei crediti che possono essere realizzati esecutivamente sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni, ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia, nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento e all’univoco sviluppo, ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (si veda Cass. 10 ottobre 2019, n. 25437).

La Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla questione con due ordinanze emesse a due giorni di distanza, il 25 e il 27 febbraio del 2020, praticamente di segno opposto, che dimostrano come la materia sia complessa e di non pronta soluzione,come nel caso della decisione, n. 5369/20 che ha asserito che il debito erariale sottostante all’iscrizione ipotecaria di specie era ricollegabile a un investimento di carattere speculativo posto in essere dal contribuente, che aveva acquistato una partecipazione in una società di capitali diversa rispetto all’impresa commerciale da egli condotta e dalla quale provenivano i fondi necessari per far fronte al sostentamento familiare. Circostanze, queste ultime, tutte pienamente conosciute (o meglio, potenzialmente conoscibili) dall’Amministrazione finanziaria.

In questo quadro, dunque, a fronte della secca affermazione difensiva erariale secondo la quale: “… i debiti fiscali rientrano a pieno titolo tra le spese necessarie all’armonico sviluppo della famiglia”, la Corte ha invece chiarito che sotto un profilo istruttorio,  “… grava in capo al debitore opponente l’onere della prova non solo della regolare costituzione del fondo patrimoniale, e della sua opponibilità al creditore procedente, ma anche della circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, avuto riguardo al fatto generatore dell’obbligazione e a prescindere dalla natura della stessa”, confermando l’indirizzo in ragione del quale il criterio di riparto tra debiti contratti per far fronte ai bisogni del nucleo familiare e debiti che, invece, esulano da tale ambito “ va ricercato non già nella natura dell’obbligazione ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, e la predetta finalità non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa, dovendosi accertare che l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi”.

Di diverso avviso l’ordinanza n. 5017/2020, sempre relativa a un’ipoteca iscritta ex art. 77, DPR 602/1973, su beni costituiti in fondo patrimoniale in un’ipotesi concreta, tuttavia, ma diversa da quella che si è sopra vista e nella quale il debito erariale era costituito da maggiori redditi accertati a carico di un’impresa edile costituita in forma di Sas di cui era socio il contribuente in questione. In questo secondo caso il contribuente, derivando i debiti tributari dal maggior reddito accertato a una società in accomandita semplice di cui era socio accomandante, aveva sostenuto che essi dovessero ritenersi estranei ai bisogni della famiglia in quanto l’attività di accomandante doveva qualificarsi come speculativa connessa all’impiego di capitali. Sul punto, sottolinea la Corte che “… il ricorrente non ha offerto alcuna prova in merito alle finalità speculative dei redditi societari, limitandosi ad affermare che il lungo lasso di tempo trascorso dalla loro percezione gli aveva impedito di fornire la relativa dimostrazione. Sarebbe stato, invece, onere del ricorrente quanto meno allegare (e poi provare) che il maggior reddito conseguito all’evasione era stato destinato a scopi voluttuari estranei ai bisogni della famiglia (Cass., ordinanza 25 febbraio 2020, n. 5017) Inoltre la circostanza che il contribuente percepisse altri redditi da lavoro che addizionati a quelli del coniuge erano ‘sufficienti’ a soddisfare le esigenze della famiglia, viene ritenuta dalla Corte in ordinanza ‘un’affermazione tautologica e disancorata dal preciso onere probatorio gravante su chi contesta la pignorabilità dei cespiti’ (Cass., ordinanza 25 febbraio 2020, n. 5017).

Sarà dunque il contribuente a dover dimostrare davanti al giudice che il maggior reddito conseguito dall’evasione era stato destinato a scopi voluttuari estranei ai bisogni della famiglia quali investimenti azionari o acquisti di immobili non costituiti nel fondo patrimoniale. In difetto, il fondo resterà perfettamente aggredibile, a nulla rilevando che la difficoltà di provare la conoscenza dell’Erario della non inerenza dei crediti alle esigenze della famiglia, “… non integra sul piano giuridico un elemento idoneo a invertire la regola di distribuzione dell’onere probatorio”.

Le due ordinanze dimostrano come l’opponibilità al Fisco del fondo patrimoniale non abbia una soluzione univoca, poiché il tutto dipende dall’assolvimento dell’onere della prova, che grava in capo al debitore opponente (il contribuente), non solo in merito alla regolare costituzione del fondo patrimoniale ma anche sulla circostanza che il debito sia stato contratto per scopi estranei alle necessità familiari, e che tale estraneità sia infine conosciuta (o potenzialmente conoscibile) da parte dell’Erario.

L’esame di queste circostanze si risolve in un giudizio di mero fatto che spetta al giudice di merito, non sindacabile per Cassazione e, pertanto, la resistenza o meno del fondo patrimoniale rispetto all’ipoteca iscrivibile dal Fisco dipende dalle circostanze di fatto sottostanti e dalla prova che il contribuente è in grado di offrire.

Tanto premesso e tornando al caso oggi in dibattimento, un contribuente si opponeva a una iscrizione ipotecaria deducendo che l’ipoteca era stata iscritta su beni inclusi nel fondo patrimoniale. I giudici tributari hanno ritenuto che per i debiti tributari inerenti l’attività d’impresa cui il contribuente partecipava quale mero socio di capitale non si potesse procedere a esecuzione forzata sui beni facenti parte del fondo patrimoniale. Avverso la predetta sentenza l’agente della riscossione  ha proposto ricorso per cassazione lamentando essenzialmente che la CTR era incorsa in errore violando il principio dell’onere della prova, che impone al contribuente di provare che i debiti sono stati contratti per esigenze estranee ai bisogni della famiglia, affermando che i debiti tributari da partecipazioni in società di capitale sarebbero per definizione estranei alle esigenze di famiglia e, in quanto tali, la circostanza non poteva non essere conosciuta dall’agente di riscossione, non fornendo però prova di tale asserzione.

La Suprema Corte non ha condiviso tale interpretazione affermando invece che “… Il fondo patrimoniale costituito ex art 167 c.c. impone infatti un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art 170 c.c., che “la esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver o per debiti che il creditore conosceva essere, stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Qualora sorga controversia sulla assoggettabilità dei beni ad esecuzione forzata deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni) e, in particolare, qualora si tratti di obbligazioni tributarie gravanti sui redditi, se il reddito in questione è destinato alla soddisfazione dei bisogni familiari: con la importante precisazione che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni (v. da ultimo Cass. 10166/2020).  Diviene allora importante precisare cosa si debba intendere per bisogni familiari e come si individuano le risorse economiche ad essi destinate, all’interno di un modello familiare che nel tempo si è evoluto e tende ad armonizzare e bilanciare gli interessi della famiglia con quelli individuali ed a valorizzare le scelte di libertà nonché l’autonomia dei coniugi nel regolare la vita familiare, nella cornice data dai doveri definiti come inderogabili dall’art 160 c.c.  Sotto un certo profilo è innegabile che ogni ricchezza individuale è potenzialmente idonea ad arrecare un vantaggi anche indiretto al nucleo familiare, ma ai fini che qui interessano la nozione di obbligazione contratta per i bisogni della famiglia deve necessariamente avere una portata più circoscritta, diversamente si vanificherebbe la riconosciuta possibilità per il debitore di dimostrare la sussistenza del requisito soggettivo, anche sulla base di presunzioni (Cass., n. 15886/2014; Cass. n. 4011/2013).  Una parte della dottrina ha infatti osservato che se si fornisce un’interpretazione lata della locuzione “bisogni della famiglia”, facendovi rientrare ogni vincolo obbligatorio idoneo a determinare un arricchimento indiretto del nucleo familiare, la prova della consapevolezza in capo al creditore dell’estraneità del debito per cui si procede a quelli contratti per il soddisfacimento di tali bisogni risulta non solo estremamente difficile, ma anche in ultima analisi inutile. Di questa criticità appare però consapevole quella giurisprudenza di legittimità, in progressivo consolidamento, che tende a richiedere la inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia della obbligazione contratta (v. Cass. 16176/2018; Cass.8201/2020).  In quest’ottica, può dirsi che non sono estranei ai bisogni della famiglia i debiti tributari inerenti all’attività di lavoro dei coniugi (o altre attività produttive), seda tale attività la famiglia trae i mezzi di mantenimento. Ciò però implica la necessità di inquadrare la questione nella disciplina della contribuzione familiare, che è data da un regime primario e cioè l’obbligo di contribuzione di cui agli artt. 143 e 316 bis c.c. e un regime secondario, dato dal regime patrimoniale scelto dai coniugi, e qui non può disconoscersi che i coniugi che costituiscono un fondo patrimoniale per ciò stesso esprimono una scelta che tende, se non a circoscrivere, quantomeno a separare le risorse che si vuole destinare alla famiglia da altre.  In questo contesto, i bisogni familiari non possono intendersi come potenzialmente assorbenti tutti i redditi del soggetto obbligato. Deve considerarsi che non sussiste un dovere generalizzato dei coniugi di destinare tutti proventi della propria attività lavorativa (o i redditi da capitale) ai bisogni della famiglia.  Infatti, ciascun coniuge percettore di reddito ha, rispetto ai proventi, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia (Cass. 2597/2006). Questa regola è stata enunciata dalla Corte di legittimità con riferimento ai coniugi in regime di comunione legale; a maggior ragione si dovrà ritenere libero (una volta assolto l’onere di contribuzione) di destinare ad altre finalità i propri beni e proventi il coniuge che ha provveduto a costituire un fondo patrimoniale, e cioè un insieme di beni che già di per sé sono destinati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.  Deve inoltre tenersi conto dell’autonomia dei coniugi nel concordare l’indirizzo della vita familiare, ex art 144 c.c., accordo che riguarda anche il tenore di vita, e che di conseguenza definisce l’area dei bisogni familiari ed individua le risorse da destinare ad essi, nonché della complessità e pluralità degli attuali modelli familiari, il che rende possibile la concorrenza contemporanea di più obbligazioni di natura familiare nei confronti di soggetti diversi e che non fanno parte dello stesso gruppo (ad esempio, un ex coniuge e nuova famiglia fondata dopo il divorzio, ma anche la sussistenza, in concreto, di obbligazioni alimentari verso i soggetti indicati dall’art. 433 c.c.). I bisogni della famiglia devono allora intendersi non solo in senso oggettivo, né come potenzialmente assorbenti l’intero reddito dei coniugi, ma anche come quei bisogni che sono ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari (v. in arg. Cass. 5017/2020). La valorizzazione della regola dell’accordo anche in tema di esecuzione coattiva sui beni del fondo patrimoniale è stata di recente ribadita da questa Corte che, anche richiamando precedenti in tema, ha precisato che i bisogni della famiglia debbono essere “intesi in senso lato, non limitatamente cioè alle necessità e di essere vitali o indispensabili della famiglia ma avendo più ampiamente riguardo a quanto necessario e funzionale allo svolgimento e sviluppo della vita familiare secondo il relativo indirizzo, concordato ed attuato dai coniugi” (Cass. n. 2904/2021).  Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, nella stessa sentenza si afferma che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatori;) abbiano “inerenza diretta ed immediata con i predetti bisogni” (v. anche Cass. 16176/2018). E’ pertanto necessario l’accertamento da parte del giudice di merito della relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto, ed al riguardo si deve rimarcare che nel citato arresto giurisprudenziale del 2021 vi è, tra gli altri, un richiamo esplicito alla sentenza di questa Corte n. 12998/2006, la quale, nel chiarire i rapporti tra reddito di impresa e bisogni della famiglia, ha affermato la necessità di verificare se “l’obbligo, a fronte del debito, sia stato ab origine contratto per soddisfare bisogni della famiglia….. Diversamente opinando ogni esercizio di attività di impresa (e non solo) verrebbe per ciò stesso intrapresa e svolta per esigenze della famiglia e non potrebbero sussistere attività che non siano destinate a soddisfare i bisogni della famiglia stessa”, così rendendo “solo virtuale peraltro la possibilità della probatio diabolica della conoscenza da parte del creditore che il debito fosse contrailo per scopi estranei ai bisogni della famiglia” (Cass. 12998/2006 cit.).  Il rischio di imporre al debitore una probazio diabolica si può in verità scongiurare ammettendo, così come la giurisprudenza di questa Corte ammette, che la prova della consapevolezza da parte del creditore della estraneità del debito ai bisogni della famiglia possa darsi per presunzioni semplici (sempre in Cass. 2904/2021), che sono da leggersi nel contesto normativo specifico, poiché le obbligazioni che. si contraggano nell’interesse della famiglia non hanno una fonte puramente volontaria ma discendono da obblighi legali fondati sullo status, che ne definiscono miche i confini entro i quali si esercita l’autonomia privata, tramite l’accordo sull’indirizzo della vita familiare. Ancora deve osservarsi che, se il creditore è l’erario, che non ha rapporti personali con il debitore e non ne conosce la situazione familiare e personale se non per quanto emerge dagli atti fiscalmente rilevanti e dal regime legale della famiglia (primario e secondario), è giocoforza affidarsi a presunzioni semplici fondate sui fatti oggettivamente rilevanti, al loro inquadramento nella disciplina del regime patrimoniale della famiglia, ed alle conclusioni che se ne possono trarre secondo un processo logico deduttivo.  Sulla base di questi principi, deve ritenersi consentito al contribuente che abbia una pluralità di fonti di reddito e, in particolare, una pluralità di partecipazioni societarie, di provare, anche per presunzioni semplici, e al fine di contrastare l’ esecuzione sui beni del fondo patrimoniale, la diversa natura di ciascuna partecipazione e la destinazione dei relativi proventi, così da accertare se l’obbligazione tributaria grava su un reddito destinato al mantenimento della famiglia, o se si tratti di interessi speculativi con finalità di lucro personale ovvero di spese personali anche voluttuarie, ovvero anche di proventi destinati alla soddisfazione di altri interessi e all’assolvimento di altri obblighi, tra essi compresi gli obblighi di natura familiare per soggetti che non fanno parte di quella “famiglia” per le cui esigenze è stato costituito il fondo patrimoniale.  Rese queste premesse in termini generali, in virtù delle quali deve escludersi che i carichi tributari sui redditi da partecipazione siano di per sé riconducibili ad obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, deve osservarsi che la CTR – come si evince dalla intera ricostruzione della sentenza e nonostante qualche passaggio motivazionale non del tutto perspicuo – non ha enunciato una regola di carattere generale in termini inversi, e cioè che la percezione di tali redditi comporta di per sé che il relativo carico tributario sia estraneo alle esigenze della famiglia; l’ha piuttosto enunciata come regola valevole per il caso concreto, accertando che il contribuente era socio anche di altra società (una s.a.s. denominata S.c.) diversa da quella cui ineriscono i debiti tributari e ha concluso nel senso che da questa seconda società egli traeva il sostentamento per sé e per la propria famiglia; desumendo la consapevolezza, da parte dell’agente di riscossione, della estraneità dei debiti tributari della Soc. An O. alle esigenze della famiglia dalla circostanza che in essa il contribuente era mero socio di capitali, svolgendo invece attività lavorativa nell’altra società.  Si tratta di un giudizio di fatto, e sulla medesima vicenda già questa Corte si è espressa nel giudizio n. 2724/21-114 con sentenza n. 5369/2020, citata nella memoria di parte controricorrente, rigettando il ricorso dell’Agenzia in quantosi tratta di un giudizio di fatto non censurabile in questa sede, posto che il principio di cui all’art. 2697 c..c. è stato correttamente applicato e spetta al giudice del in via esclusiva (e salvo che si tratti di prova a valutazione legale) il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità  e  la concludenza (Cass. 16497/ 2019)”.  Vero è che il precedente giudizio è intervenuto tra l’Agenzia e la socia dell’odierno ricorrente, ma riguarda pur sempre una iscrizione ipotecaria sui beni del fondo patrimoniale costituito in data 22.3.1995 e le medesime società, di cui solo una (la Soc. _An. Ohi) interessata, dai debiti tributari per i quali è stata effettuata l’iscrizione. Il fatto dunque è il medesimo ed in entrambi i casi la CTR ha espresso la medesima valutazione di merito, e cioè che gli elementi addotti da parte contribuente fossero sufficienti a dimostrare non solo l’esistenza e l’opponibilità del fondo, ma anche che i redditi destinati al mantenimento della famiglia erano quelli del lavoro svolto nella s.a.s. e non quelli derivanti dalla Soc. An. O., gravata dei debiti tributari di cui oggi si discute, oltre alla consapevolezza di ciò da parte dell’agente di riscossione. – Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. ed omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 , co.1., n. 5 c.p.c. Parte ricorrente deduce che ha errato la C.T.R. nel ritenere che i certificati camerali attestanti la qualità di socio accomandatario della ditta S. Car provassero di per sé che il contribuente vi svolgesse attività lavorativa e ha quindi reso una motivazione insufficiente ed un macroscopico errore di valutazione del contenuto probatorio di questi documenti. Il motivo è inammissibile atteso che alla controversia, poiché la sentenza di secondo grado è stata pubblicata in data 11 giugno 2013, si applica l’art 360 , co.1., n. 5 c.p.c. come riformato dal DL n. 83/2012, convertito in legge 134/2012 in virtù della disciplina transitoria prevista dall’art. 54, in ragione del quale non è più consentito censurare la insufficienza della motivazione, ma solo l’omesso esame di fatto decisivo per la controversia; quanto al resto, possono richiamarsi le sopra esposte considerazioni sul giudizio di fatto. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese del ‘giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con distrazione in favore del procuratore antistatario che ne ha fatto richiesta nella memoria ex art 378 c.p.c. (Cass. 12111/2014)”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 7 giugno 2021, n.15741

sul ricorso n. 3371/2014 proposto da:

EQUITALIA SUD S.P.A. (c.f. 11210661002) in persona del Direttore pro tempore elettivamente domiciliata in Roma via Cos tabella 26 presso lo studio dell’avv. A. Fiorini rappresentata e difesa dall’avv. Ivana Carso del Foro di Bari

– ricorrente –

Contro B. N., c.f. xxxxx, elettivamente domiciliato in Roma via Alberico II n. 35 presso lo studio dell’avv. Giuseppe de Simone, rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Guantario del Foro di Trani

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/08/13 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REG. della PUGLIA depositata in data 11 giugno 2013;

visto il parere del PG che conclude per l’accoglimento;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 03/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RITA RUSSO;

RILEVATO CHE

1.- Nicola Bernardino ha opposto la comunicazione di iscrizione ipotecaria P.I. .11210661002 per la somma di curo 526.420,16, pari al doppio del carico tributario, deducendo, in particolare, che la ipoteca è stata iscritta su beni compresi nel fondo patrimoniale costituito con atto del 22.3.1995, ai rogiti del Notaio Michele Vittorio Russo.

Il ricorso è stato respinto in primo grado.

Il contribuente ha proposto appello, che la CTR della Puglia, con sentenza depositata in data 11 giugno 2014, ha accolto, ritenendo che per i debiti tributari di cui si tratta, inerenti l’attività di impresa della SOC. AN. O., s.r.l. cui il contribuente partecipa quale mero socio di capitale, non si potesse procedere ad esecuzione forzata sui beni facenti parte del fondo patrimoniale, di cui il contribuente aveva provato la costituzione, trattandosi di obbligazioni estranee ai bisogni della famiglia.

2. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Equitalia con atto notificato in data 27 gennaio 2014, affidandosi a due motivi.

Il contribuente ha resistito con controricorso.

Il PG ha concluso per l’accoglimento.

Il controricorrente ha depositato memoria.

 La causa è stata trattata alla udienza camerale del 3 febbraio 2021.

RILEVATO CHE

3.- Con il primo motivo del ricorso la parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli articoli 170 e 2697 c.c. Secondo l’agente di riscossione la CTR è incorsa in errore, violando il principio dell’onere della prova che impone al contribuente di provare che i debiti sono stati contratti per esigenze estranee ai bisogni della famiglia, poiché ha affermato che i debiti tributari da partecipazioni in società di capitale sarebbero per definizione estranei alle esigenze di famiglia e, in quanto tali, la circostanza non poteva non essere conosciuta dall’agente di riscossione.

Si tratta di una affermazione apodittica, mentre come da costante giurisprudenza della Corte di legittimità, è necessario che l’accertamento venga svolto in concreto dal giudice e non sulla base della natura del debito.

Di contro, il richiedente non ha fornito prova della consapevolezza da parte dell’agente di riscossione dell’estraneità del debito ai bisogni della famiglia.

3.1- Il motivo è infondato.

La CTR ha fatto riferimento nella motivazione ad un principio di diritto affermato da questa Corte, secondo il quale, una volta costituito il fondo patrimoniale, il criterio identificativo dei crediti il cui soddisfacimento può essere realizzato in via esecutiva sui beni conferiti nel fondo va ricercato non già nella natura delle obbligazioni (legale o contrattuale), ma nella relazione esistente tra il fatto generatore di esse ed i bisogni della famiglia (Cass. 15862/2009).

Il principio è stato nel tempo confermato e ulteriormente sviluppato da questa Corte, affermando che in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’iscrizione ipotecaria di cui all’art. 77 del D.P.R. n. 602 del 1973 è ammissibile anche sui beni facenti parte di un fondo patrimoniale alle condizioni indicate dall’art. -170 c.c., anche per le obbligazioni tributarie, se strumentali,ai bisogni della famiglia o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità ai bisogni della famiglia (Cass. n. 23876/2015).

Ed ancora, si è affermato che il criterio identificativo dei debiti per i quali può avere luogo l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale va ricercato non già nella natura dell’obbligazione, ma nella relazione tra il fatto generatore di essa e i bisogni della famiglia, sicché anche un debito di natura tributaria sorto per l’esercizio dell’attività imprenditoriale può ritenersi contratto per soddisfare tale finalità, fermo restando che essa non può dirsi sussistente per il solo fatto che il debito derivi dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, dovendosi accertare se l’obbligazione sia sorta per il soddisfacimento dei bisogni familiari (nel cui ambito vanno incluse le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’univoco sviluppo della famiglia) ovvero per il potenziamento della di lui capacità lavorativa, e non per esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi (Cass. n. 3738/2015; Cass. n. 23876/2015; Cass. n. 25443/2017).

Il fondo patrimoniale costituito ex art 167 c.c. impone infatti un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art 170 c.c., che “la esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver o per debiti che il creditore conosceva essere, stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”.

Qualora sorga controversia sulla assoggettabilità dei beni ad esecuzione forzata deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni) e, in particolare, qualora si tratti di obbligazioni tributarie gravanti sui redditi, se il reddito in questione è destinato alla soddisfazione dei bisogni familiari: con la importante precisazione che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni (v. da ultimo Cass. 10166/2020).

Diviene allora importante precisare cosa si debba intendere per bisogni familiari e come si individuano le risorse economiche ad essi destinate, all’interno di un modello familiare che nel tempo si è evoluto e tende ad armonizzare e bilanciare gli interessi della famiglia con quelli individuali ed a valorizzare le scelte di libertà nonché l’autonomia dei coniugi nel regolare la vita familiare, nella cornice data dai doveri definiti come inderogabili dall’art 160 c.c.

Sotto un certo profilo è innegabile che ogni ricchezza individuale è potenzialmente idonea ad arrecare un vantaggi anche indiretto al nucleo familiare, ma ai fini che qui interessano la nozione di obbligazione contratta per i bisogni della famiglia deve necessariamente avere una portata più circoscritta, diversamente si vanificherebbe la riconosciuta possibilità per il debitore di dimostrare la sussistenza del requisito soggettivo, anche sulla base di presunzioni (Cass., n. 15886/2014; Cass. n. 4011/2013).

Una parte della dottrina ha infatti osservato che se si fornisce un’interpretazione lata della locuzione “bisogni della famiglia”, facendovi rientrare ogni vincolo obbligatorio idoneo a determinare un arricchimento indiretto del nucleo familiare, la prova della consapevolezza in capo al creditore dell’estraneità del debito per cui si procede a quelli contratti per il soddisfacimento di tali bisogni risulta non solo estremamente difficile, ma anche in ultima analisi inutile. Di questa criticità appare però consapevole quella giurisprudenza di legittimità, in progressivo consolidamento, che tende a richiedere la inerenza diretta ed immediata con i bisogni della famiglia della obbligazione contratta (v. Cass. 16176/2018; Cass.8201/2020).

In quest’ottica, può dirsi che non sono estranei ai bisogni della famiglia i debiti tributari inerenti all’attività di lavoro dei coniugi (o altre attività produttive), seda tale attività la famiglia trae i mezzi di mantenimento. Ciò però implica la necessità di inquadrare la questione nella disciplina della contribuzione familiare, che è data da un regime primario e cioè l’obbligo di contribuzione di cui agli artt. 143 e 316 bis c.c. e un regime secondario, dato dal regime patrimoniale scelto dai coniugi, e qui non può disconoscersi che i coniugi che costituiscono un fondo patrimoniale per ciò stesso esprimono una scelta che tende, se non a circoscrivere, quantomeno a separare le risorse che si vuole destinare alla famiglia da altre.

In questo contesto, i bisogni familiari non possono intendersi come potenzialmente assorbenti tutti i redditi del soggetto obbligato. Deve considerarsi che non sussiste un dovere generalizzato dei coniugi di destinare tutti proventi della propria attività lavorativa (o i redditi da capitale) ai bisogni della famiglia.

Infatti, ciascun coniuge percettore di reddito ha, rispetto ai proventi, un potere di godimento, amministrazione e disposizione pieno, salvo il limite di contribuire ai bisogni della famiglia (Cass. 2597/2006). Questa regola è stata enunciata dalla Corte di legittimità con riferimento ai coniugi in regime di comunione legale; a maggior ragione si dovrà ritenere libero (una volta assolto l’onere di contribuzione) di destinare ad altre finalità i propri beni e proventi il coniuge che ha provveduto a costituire un fondo patrimoniale, e cioè un insieme di beni che già di per sé sono destinati al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

Deve inoltre tenersi conto dell’autonomia dei coniugi nel concordare l’indirizzo della vita familiare, ex art 144 c.c., accordo che riguarda anche il tenore di vita, e che di conseguenza definisce l’area dei bisogni familiari ed individua le risorse da destinare ad essi, nonché della complessità e pluralità degli attuali modelli familiari, il che rende possibile la concorrenza contemporanea di più obbligazioni di natura familiare nei confronti di soggetti diversi e che non fanno parte dello stesso gruppo (ad es.: un ex coniuge e nuova famiglia fondata dopo il divorzio, ma anche la sussistenza, in concreto, di obbligazioni alimentari verso i soggetti indicati dall’art. 433 c.c.). I bisogni della famiglia devono allora intendersi non solo in senso oggettivo, né come potenzialmente assorbenti l’intero reddito dei coniugi, ma anche come quei bisogni che sono ritenuti tali dai coniugi in ragione dell’indirizzo della vita familiare e del tenore prescelto, in conseguenza delle possibilità economiche familiari (v. in arg. Cass. 5017/2020).

La valorizzazione della regola dell’accordo anche in tema di esecuzione coattiva sui beni del fondo patrimoniale è stata di recente ribadita da questa Corte che, anche richiamando precedenti in tema, ha precisato che i bisogni della famiglia debbono essere “intesi in senso lato, non limitatamente cioè alle necessità e di essere vitali o indispensabili della famiglia ma avendo più ampiamente riguardo a quanto necessario e funzionale allo svolgimento e sviluppo della vita familiare secondo il relativo indirizzo, concordato ed attuato dai coniugi” (Cass. n. 2904/2021).

Con particolare riferimento ai debiti derivanti dall’attività professionale o d’impresa del coniuge, nella stessa sentenza si afferma che l’esecuzione sui beni del fondo o sui frutti di esso può avere luogo qualora la fonte e la ragione del rapporto obbligatori;) abbiano “inerenza diretta ed immediata con i predetti bisogni” (v. anche Cass. 16176/2018).

E’pertanto necessario l’accertamento da parte del giudice di merito della relazione sussistente tra il fatto generatore del debito e i bisogni della famiglia avuto riguardo alle specifiche circostanze del caso concreto, ed al riguardo si deve rimarcare che nel citato arresto giurisprudenziale del 2021 vi è, tra gli altri, un richiamo esplicito alla sentenza di questa Corte n. 12998/2006, la quale, nel chiarire i rapporti tra reddito di impresa e bisogni della famiglia, ha affermato la necessità di verificare se “l’obbligo, a fronte del debito, sia stato ab origine contratto per soddisfare bisogni della famiglia.…. Diversamente opinando ogni esercizio di attività di impresa (e non solo) verrebbe per ciò stesso intrapresa e svolta per esigenze della famiglia e non potrebbero sussistere attività che non siano destinate a soddisfare i bisogni della famiglia stessa”, così rendendo “solo virtuale peraltro la possibilità della probatio diabolica della conoscenza da parte del creditore che il debito fosse contrailo per scopi estranei ai bisogni della famiglia” (Cass. 12998/2006 cit.).

Il rischio di imporre al debitore una probazio diabolica si può in verità scongiurare ammettendo, così come la giurisprudenza di questa Corte ammette, che la prova della consapevolezza da parte del creditore della estraneità del debito ai bisogni della famiglia possa darsi per presunzioni semplici (sempre in Cass. 2904/2021), che sono da leggersi nel contesto normativo specifico, poiché le obbligazioni che. si contraggano nell’interesse della famiglia non hanno una fonte puramente volontaria ma discendono da obblighi legali fondati sullo status, che ne definiscono miche i confini entro i quali si esercita l’autonomia privata, tramite l’accordo sull’indirizzo della vita familiare.

Ancora deve osservarsi che, se il creditore è l’erario, che non ha rapporti personali con il debitore e non ne conosce la situazione familiare e personale se non per quanto emerge dagli atti fiscalmente rilevanti e dal regime legale della famiglia (primario e secondario), è giocoforza affidarsi a presunzioni semplici fondate sui fatti oggettivamente rilevanti, al loro inquadramento nella disciplina del regime patrimoniale della famiglia, ed alle conclusioni che se ne possono trarre secondo un processo logico deduttivo.

Sulla base di questi principi, deve ritenersi consentito al contribuente che abbia una pluralità di fonti di reddito e, in particolare, una pluralità di partecipazioni societarie, di provare, anche per presunzioni semplici, e al fine di contrastare l’ esecuzione sui beni del fondo patrimoniale, la diversa natura di ciascuna partecipazione e la destinazione dei relativi proventi, così da accertare se l’obbligazione tributaria grava su un reddito destinato al mantenimento della famiglia, o se si tratti di interessi speculativi con finalità di lucro personale ovvero di spese personali anche voluttuarie, ovvero anche di proventi destinati alla soddisfazione di altri interessi e all’assolvimento di altri obblighi, tra essi compresi gli obblighi di natura familiare per soggetti che non fanno parte di quella “famiglia” per le cui esigenze è stato costituito il fondo patrimoniale.

Rese queste premesse in termini generali, in virtù delle quali deve escludersi che i carichi tributari sui redditi da partecipazione siano di per sé riconducibili ad obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia, deve osservarsi che la CTR – come si evince dalla intera ricostruzione della sentenza e nonostante qualche passaggio motivazionale non del tutto perspicuo – non ha enunciato una regola di carattere generale in termini inversi, e cioè che la percezione di tali redditi comporta di per sé che il relativo carico tributario sia estraneo alle esigenze della famiglia; l’ha piuttosto enunciata come regola valevole per il caso concreto, accertando che il contribuente era socio anche di altra società (una s.a.s. denominata S.c.) diversa da quella cui ineriscono i debiti tributari e ha concluso nel senso che da questa seconda società egli traeva il sostentamento per sé e per la propria famiglia; desumendo la consapevolezza, da parte dell’agente di riscossione, della estraneità dei debiti tributari della Soc. An O. alle esigenze della famiglia dalla circostanza che in essa il contribuente era mero socio di capitali, svolgendo invece attività lavorativa nell’altra società.

Si tratta di un giudizio di fatto, e sulla medesima vicenda già questa Corte si è espressa nel giudizio n. 2724/21-114 con sentenza n. 5369/2020, citata nella memoria di parte controricorrente, rigettando il ricorso dell’Agenzia in quanto “si tratta di un giudizio di fatto non censurabile in questa sede, posto che il principio di cui all’art. 2697 c..c. è stato correttamente applicato e spetta al giudice del in via esclusiva (e salvo che si tratti di prova a valutazione legale) il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità  e  la concludenza (Cass. 16497/ 2019)”.

Vero è che il precedente giudizio è intervenuto tra l’Agenzia e la socia dell’odierno ricorrente, ma riguarda pur sempre una iscrizione ipotecaria sui beni del fondo patrimoniale costituito in data 22.3.1995 e le medesime società, di cui solo una (la Soc. _An. Ohi) interessata, dai debiti tributari per i quali è stata effettuata l’iscrizione. Il fatto dunque è il medesimo ed in entrambi i casi la CTR ha espresso la medesima valutazione di merito, e cioè che gli elementi addotti da parte contribuente fossero sufficienti a dimostrare non solo l’esistenza e l’opponibilità del fondo, ma anche che i redditi destinati al mantenimento della famiglia erano quelli del lavoro svolto nella s.a.s. e non quelli derivanti dalla Soc. An. O., gravata dei debiti tributari di cui oggi si discute, oltre alla consapevolezza di ciò da parte dell’agente di riscossione.

4.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. ed omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell’art. 360 , co.1., n. 5 c.p.c. Parte ricorrente deduce che ha errato la C.T.R. nel ritenere che i certificati camerali attestanti la qualità di socio accomandatario della ditta S. Car provassero di per sé che il contribuente vi svolgesse attività lavorativa e ha quindi reso una motivazione insufficiente ed un macroscopico errore di valutazione del contenuto probatorio di questi documenti. Il motivo è inammissibile atteso che alla controversia, poiché la sentenza di secondo grado è stata pubblicata in data 11 giugno 2013, si applica l’art 360 , co.1., n. 5 c.p.c. come riformato dal D/L.n. 83/2012, convertito in legge 134/2012 in virtù della disciplina transitoria prevista dall’art. 54, in ragione del quale non è più consentito censurare la insufficienza della motivazione, ma solo l’omesso esame di fatto decisivo per la controversia; quanto al resto, possono richiamarsi le sopra esposte considerazioni sul giudizio di fatto. Ne consegue il rigetto del ricorso. Le spese del ‘giudizio di cassazione seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, con distrazione in favore del procuratore antistatario che ne ha fatto richiesta nella memoria ex art 378 c.p.c. (Cass. 12111/2014).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in curo 5.200,00, oltre euro 200,00 per esborsi oltre rimborso spese forfetarie ed accessori di legge, spese distratte in favore dell’avvocato Antonio Guantario.

Ai sensi dell’art. 13 comma i quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma i bis dello stesso art. 13, se dovuto.

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