CASSAZIONE

La prova della non imponibilità IVA nelle cessioni intracomunitarie

La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 14369 dell’8 giugno 2017, intervenendo in merito al riconoscimento della non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie, ha ricordato che la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario, pur rimanendo centrale ai fini della sussumibilità dell’operazione nell’ambito di quelle regolate dagli artt. 41 e 50, D.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, non può determinare, se mancante, il venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’ambito di quelle intracomunitarie nel momento in cui l’operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore, sulla base degli elementi ritualmente prodotti nel corso del procedimento.

Ricordiamo che in tema di IVA, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti, recuperando l’imposta non versata, la non imponibilità – ai sensi dell’art. 41, comma 1, lett. a), prima parte, D.l. n. 331/1993, convertito nella legge n. 427/1993 – della cessione intracomunitaria di beni a titolo oneroso, per difetto del presupposto dell’introduzione dei beni ceduti nel territorio di altro Stato membro, grava sul cedente la prova dei fatti costitutivi del diritto, che intende far valere in giudizio, di fruire della deroga agevolativa rispetto al normale regime impositivo.

Come già espresso dalla Suprema Corte (v. Cassazione 3603/2009), l’onere di provare l’esistenza dello scambio intracomunitario è peraltro, in tali casi, sicuramente a carico del contribuente, anche in ragione del principio generale secondo il quale l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è sempre a carico di chi invoca detta deroga.

Sicché, in presenza della disciplina che prevede in via ordinaria l’assoggettamento a IVA delle cessioni, incombe sul soggetto che intenda fruire del regime di non imponibilità previsto per la cessione intracomunitaria la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti essenziali per la configurazione dell’invocata fattispecie non imponibile.

Dunque, la prova della movimentazione fisica delle merci dall’Italia a un altro stato membro Ue, che legittima la non applicazione dell’IVA, ricade per intero sul cedente.

E poiché per l’articolo 41 del Dl 331/1993 la territorialità è elemento costitutivo della cessione intracomunitaria, in assenza di questo elemento (o comunque della sua prova) non può essere applicato il trattamento di non imponibilità.

Sul tema, anche la Corte di Giustizia comunitaria ha più volte espresso il principio generale (vedi C-146/05, C-184-05 e C-409/04) secondo il quale l’onere della prova che i beni siano stati transitati in altro Stato membro ricade sul fornitore. In particolare, la Corte di Giustizia ha affermato che: “… l’esenzione della cessione intracomunitaria diventa applicabile solo quando il potere di disporre del bene come proprietario è stato trasmesso all’acquirente e quando il fornitore prova che tale bene è stato spedito o trasportato in altro Stato membro e che, in seguito a tale spedizione e trasporto, esso ha lasciato fisicamente il territorio dello Stato membro di cessione” (v. sentenza del 27/9/2007, C-409/04, punto 42; nello stesso senso, sentenza del 27/9/2007, C-184/05, punto 23).

Difettando la dimostrazione dell’elemento costitutivo della territorialità, previsto dal citato articolo 41, non si è dunque neppure in presenza di cessione intracomunitaria perché la mancanza di detta prova si traduce nell’omesso assolvimento di un onere essenziale ai fini della configurazione della fattispecie, con conseguente obbligo del versamento dell’IVA dovuta per le cessioni nel territorio nazionale.

In conclusione, a fronte di rilievi che disconoscono la condizione di non imponibilità a causa della mancata dimostrazione del trasferimento della merce fuori dal territorio nazionale, è sempre onere del contribuente provare, con una qualsiasi idonea documentazione avente carattere di certezza e incontrovertibilità, l’avvenuto trasferimento fisico della merce.

Su questo punto, tornando all’odierno dibattimento, l’ufficio del Fisco lamentava, proponendo ricorso, violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 50 D.l. 331/1993, 115 e 116 cod. proc. civ., 2697 cod. civ., poiché la CTR adita aveva ritenuto che l’erronea indicazione del codice IVA del cessionario di un’operazione intracomunitaria non implicasse il recupero dell’imposta e delle relative sanzioni, ritenendo irrilevante che fosse concretamente comprovato dalla società contribuente che il cessionario fosse effettivamente un soggetto passivo IVA.

I Supremi Giudici hanno condiviso le ragioni dell’Agenzia ricorrente e censurando l’operato dei giudici tributari hanno stabilito che: “…Ai fini del riconoscimento della non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie, la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario, pur rimanendo centrale ai fini della sussumibilità dell’operazione nell’ambito di quelle regolate dagli artt. 41 e 50 del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, non può determinare, se mancante, il venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’ambito di quelle intracomunitarie, allorchè l’operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore, sulla base degli elementi ritualmente prodotti nel corso del procedimento» (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17254 del 29/07/2014, Rv. 632187 – 01) ed altresì che «In tema d’IVA, le cessioni intracomunitarie, a norma dell’art. 50, commi 1 e 2, del d.l. n. 331 del 1993, conv. in I. n. 427 del 1993, sono effettuate senza applicazione d’imposta nei confronti dei cessionari e dei committenti che abbiano comunicato il numero d’identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza a condizione che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo al Ministero la conferma della validità attuale del numero d’identificazione attribuito al cessionario; in assenza di tali adempimenti, legittimamente l’Ufficio finanziario può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’IVA, restando onere del contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo» (Sez. 5, Sentenza n. 15871 del 29/07/2016, Rv. 640662 – 01).Orbene nel caso di specie la CTR toscana ha sì correttamente applicato la prima asserzione di tale principio di diritto, ma non la seconda, non sviluppando adeguatamente la -necessaria- valutazione circa l’assolvimento dell’onere probatorio, gravante sulla società contribuente, di dimostrare che il cessionario fosse un soggetto passivo dell’IVA.Come fondatamente criticatosi con la censura proposta, sul punto in questione il giudice tributario di appello infatti si è limitato ad osservare che l’Ente impositore ha contestato l’erroneità del codice identificativo del cessionario, ma non la sua soggettività IVA, pertanto su tale rilievo considerando assolto detto onere probatorio della società contribuente in ordine alla circostanza de qua.L’errore applicativo degli evocati principi circa la disponibilità e la valutazione delle prove nonché quello sull’onere della prova (rispettivamente artt. 115, 116, cod. proc. civ., 2697, cod. civ.), come concretizzati e specificati dai citati arresti giurisprudenziali, ne appare evidente. Nel caso di specie infatti, contestata l’erroneità del codice identificativo IVA del soggetto cessionario, l’Agenzia fiscale non aveva altresì l’onere di contestare anche la qualità di soggetto passivo di tale imposta del cessionario stesso, bensì appunto, rettamente intendosi dette disposizioni legislative e di detti principi di diritto, doveva essere la società contribuente cedente ad allegare e provare tale qualità del cessionario comunitario, indi la CTR doveva valutare l’adeguatezza di tali allegazioni e prove .Pertanto, avendo fatto la contribuente stessa tale allegazione defensionale ed offerto prove documentali a sostegno della medesima, esprimendosi nei termini di cui sopra il giudice tributario di appello di conto non ha adempiuto al proprio obbligo valutativo di tali allegazioni e prove”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza n. 14369 dell’8 giugno 2017

Rilevato che

Con sentenza in data 12 ottobre 2015 la Commissione tributaria regionale della Toscana respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, ufficio locale, avverso la sentenza n. 36/16/13 della Commissione tributaria provinciale di Firenze che aveva accolto il ricorso della A. srl contro l’avviso di accertamento IVA 2005. La CTR osservava in particolare che, trattandosi di un’operazione intracomunitaria realmente avvenuta tra soggetti passivi IVA, l’erronea indicazione del numero di identificazione del soggetto cessionario non si poteva considerare quale violazione sostanziale ai fini della detrazione e delle sanzioni.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione l’ Agenzia delle entrate deducendo un motivo unico.

La società intimata non si è difesa.

Considerato che

Con l’unico motivo dedotto -ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- l’Agenzia fiscale ricorrente lamenta violazione/falsa applicazione degli artt. 41, 50 d.l. 331/1993, 115, 116, cod. proc. civ., 2697, cod. civ., poiché la CTR ha ritenuto che l’erronea indicazione del codice IVA del cessionario di un’operazione intracomunitaria non implicasse il recupero dell’imposta e delle relative sanzioni, ritenendo irrilevante che fosse concretamente comprovato dalla società contribuente che il cessionario fosse effettivamente un soggetto passivo IVA.

La censura è fondata.

Va infatti ribadito che «Ai fini del riconoscimento della non imponibilità ai fini IVA delle cessioni intracomunitarie, la procedura di attribuzione del codice identificativo del cessionario, pur rimanendo centrale ai fini della sussumibilità dell’operazione nell’ambito di quelle regolate dagli artt. 41 e 50 del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella legge 29 ottobre 1993, n. 427, non può determinare, se mancante, il venir meno della possibilità di inquadrare la cessione nell’ambito di quelle intracomunitarie, allorchè l’operatore provi in modo rigoroso tutti i requisiti sostanziali della normativa di settore, sulla base degli elementi ritualmente prodotti nel corso del procedimento» (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17254 del 29/07/2014, Rv. 632187 – 01) ed altresì che «In tema d’IVA, le cessioni intracomunitarie, a norma dell’art. 50, commi 1 e 2, del d.l. n. 331 del 1993, conv. in I. n. 427 del 1993, sono effettuate senza applicazione d’imposta nei confronti dei cessionari e dei committenti che abbiano comunicato il numero d’identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza a condizione che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica, richiedendo al Ministero la conferma della validità attuale del numero d’identificazione attribuito al cessionario; in assenza di tali adempimenti, legittimamente l’Ufficio finanziario può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’IVA, restando onere del contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo» (Sez. 5, Sentenza n. 15871 del 29/07/2016, Rv. 640662 – 01).

Orbene nel caso di specie la CTR toscana ha sì correttamente applicato la prima asserzione di tale principio di diritto, ma non la seconda, non sviluppando adeguatamente la -necessaria- valutazione circa l’assolvimento dell’onere probatorio, gravante sulla società contribuente, di dimostrare che il cessionario fosse un soggetto passivo dell’IVA.

Come fondatamente criticatosi con la censura proposta, sul punto in questione il giudice tributario di appello infatti si è limitato ad osservare che l’Ente impositore ha contestato l’erroneità del codice identificativo del cessionario, ma non la sua soggettività IVA, pertanto su tale rilievo considerando assolto detto onere probatorio della società contribuente in ordine alla circostanza de qua.

L’errore applicativo degli evocati principi circa la disponibilità e la valutazione delle prove nonché quello sull’onere della prova (rispettivamente artt. 115, 116, cod. proc. civ., 2697, cod. civ.), come concretizzati e specificati dai citati arresti giurisprudenziali, ne appare evidente. Nel caso di specie infatti, contestata l’erroneità del codice identificativo IVA del soggetto cessionario, l’Agenzia fiscale non aveva altresì l’onere di contestare anche la qualità di soggetto passivo di tale imposta del cessionario stesso, bensì appunto, rettamente intendosi dette disposizioni legislative e di detti principi di diritto, doveva essere la società contribuente cedente ad allegare e provare tale qualità del cessionario comunitario, indi la CTR doveva valutare l’adeguatezza di tali allegazioni e prove.

Pertanto, avendo fatto la contribuente stessa tale allegazione defensionale ed offerto prove documentali a sostegno della medesima, esprimendosi nei termini di cui sopra il giudice tributario di appello di conto non ha adempiuto al proprio obbligo valutativo di tali allegazioni e prove.

In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio al giudice a quo per nuovo esame che tenga conto dei principi sopra espressi.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

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