CASSAZIONE

La motivazione dell’atto tributario garantisce il diritto di difesa del contribuente

Tributi – Dichiarazione di successione – Imposte ipotecaria e catastale – Accertamento – Difetto di motivazione dell’atto – Nullità – Art 33, c. 3, D.lgs. 346/90 – L. 241/1990

La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 310 del 10 gennaio 2020 ha ricordato che se il Fisco, anche in tema di imposta sulle successioni e donazioni, utilizza come  motivazione di un avviso di rettifica la definizione “insufficiente pagamento dell’imposta”, questa non è espressione che possa considerarsi come valida motivazione perché è troppo generica e non può consentire un compiuto esercizio del diritto di difesa. Al riguardo si rammenta che nel procedimento tributario la motivazione di un qualsiasi atto impositivo ha lo scopo non solo di delimitare l’ambito delle ragioni che l’Ufficio pone a supporto della propria tesi, ma consente anche al contribuente il pieno esercizio del diritto di difesa. La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha più volte ribadito che la motivazione dell’atto tributario costituisce lo strumento essenziale di garanzia del diritto di difesa del contribuente e, pertanto, nell’atto impositivo devono essere indicati tutti gli elementi che l’ufficio pone alla base della pretesa fiscale. 

Da ciò si comprende la necessità che l’atto tributario deve essere correlato a monte di tutti gli elementi essenziali per renderlo idoneo a svolgere la funzione cui è destinato, e per delimitare i confini entro cui svolgere l’eventuale lite tributaria. In altre parole, ogni atto dell’Amministrazione finanziaria deve essere motivato e deve mettere il contribuente nelle condizioni non solo di comprendere le ragioni poste alla base della pretesa fiscale, ma anche di esercitare il pieno diritto di difesa laddove si ritiene opportuno contestare quell’atto impositivo.

Ricordiamo che  la Suprema Corte di Cassazione con una dirimente pronunzia, la n. 24417 del 5 ottobre 2018,  è intervenuta proprio sul tema della motivazione degli atti tributari, ovvero di quegli elementi che l’Ufficio pone a supporto del recupero a tassazione, stabilendo che: “… in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione Finanziaria di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (Legge n. 212 del 2000 articolo 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità integrativa delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la Legge n. m241 del 1990 articolo 3, comma 3. Ne consegue che all’avviso di accertamento vanno allegati i soli atti aventi contenuto integrativo della motivazione dell’avviso medesimo e che non siano sati già trascritti nella loro parte essenziale, ma non anche gli altri atti cui l’amministrazione finanziaria faccia comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva”.

Inoltre, l’articolo 3, L. 241/1990, nel dettare disposizioni di ordine generale sulla motivazione degli atti amministrativi dispone espressamente che la motivazione degli stessi “deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”, precisando al terzo comma che “se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui essa si richiama”. Tale principio trova chiaro riconoscimento, in materia tributaria, nel generale principio affermato dall’articolo 7 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale espressamente afferma che “... se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”. Questo perché la motivazione dell’atto tributario è finalizzata a far comprendere non solo le ragioni di diritto, ma anche i presupposti di fatto e soprattutto i passaggi logici che hanno condotto l’Amministrazione a stabilire quella determinata pretesa fiscale, inclusi, quindi, tutti i documenti che l’Ufficio ha preso in considerazione garantendo al contribuente il pieno e immediato esercizio del diritto di difesa. Ne consegue che l’atto deve enunciare i criteri astratti in base ai quali è stato determinato il maggior valore, senza necessità di esplicitare gli elementi di fatto utilizzati per la loro applicazione in quanto il contribuente, conosciuto il criterio di valutazione adottato, è già in condizione di contestare e documentare l’infondatezza della pretesa erariale.

Il caso oggi affrontato riguarda la notifica agli eredi un avviso di liquidazione per imposta ipotecaria e catastale relativa alla dichiarazione di successione di una loro congiunta. I contribuenti presentavano ricorso lamentando l’assenza di motivazione dell’atto. Avverso il rigetto dell’impugnazione veniva proposto appello. Il giudice di seconde cure accoglieva il gravame ritenendo che l’atto impugnato fosse privo di motivazione e l’ufficio ricorreva così in Cassazione. La Corte di Cassazione ha però rigettato il ricorso e condannato l’ufficio al pagamento delle spese di giudizio rammentando che: “… Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il comma 3 dell’art 33 del d.lgs 346/90 di cui si discute, dispone, con riferimento al potere dell’Ufficio di correggere gli errori materiali e di calcolo e di escludere le passività (o altri oneri, riduzioni e detrazioni) esposte in dichiarazione ma non spettanti o non documentate, che dette correzioni ed esclusioni “devono risultare nell’avviso di liquidazione dell’imposta”. Deve al riguardo ritenersi che tale obbligo non possa essere assolto in modo generico e globale, ma esiga, al fine di porre il contribuente in condizione di approntare una adeguata difesa, che le “voci” escluse siano analiticamente individuate (Cass. 8190/11; Cass. 22148/17). In ogni caso, la necessità di tale obbligo è generalizzata e discende dal citato art 7 della legge 212 del 2000. Questa Corte ha a tale proposito già avuto occasione di affermare che in tema di imposta sulle successioni, la motivazione dell’avviso di rettifica e di liquidazione, ha la funzione di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio finanziario nell’eventuale successiva fase contenziosa e di consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa.  Ne consegue che l’atto deve enunciare i criteri astratti in base ai quali è stato determinato il maggior valore, ma non anche gli elementi di fatto utilizzati per l’applicazione di essi, in quanto il contribuente, presa conoscenza del criterio di valutazione adottato, è in condizione di contestare e documentare l’infondatezza della pretesa erariale, fermo restando l’onere della prova gravante sull’Amministrazione. (Cass. 14027/12 vedi anche Cass. 8136/12). Venendo dunque alla fattispecie in esame la Commissione regionale ha correttamente affermato che la motivazione dell’avviso di liquidazione basata sulle parole “ pagamento imposta principale insufficiente” non è in grado di consentire al contribuente un adeguato esercizio del diritto di difesa poiché trattasi di affermazione del tutto generica che non consente in alcun modo di comprendere le ragioni della rideterminazione dell’imposta poiché il “ termine insufficiente pagamento” può riferirsi ad una vasta casistica di ipotesi. Il ricorso va in conclusione respinto. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 10 gennaio 2020, n. 310

Sul ricorso 16639-2018 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. 06363391001), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro M. S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ADIGE 43, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CAPO, rappresentato e difeso da se stesso;

 – controricorrente –

contro M. E., M. A. M.;

– intimate –

avverso la sentenza n. 100/12/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di PALERMO, depositata il 09/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 28/11/2019 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI.

Svolgimento del processo

La Commissione tributaria provinciale di Palermo con sentenza 4056/14, sez 7, rigettava il ricorso proposto da M. S., M. E. e M. A. M. avverso l’avviso di liquidazione 09/00493/000027/001 per imposta ipotecaria e catastale 2009 relativa alla dichiarazione di successione di P. K. L.

Avverso detta decisione i contribuenti proponevano appello, innanzi alla CTR Sicilia.

Il giudice di seconde cure, con sentenza 100/12/2018, accoglieva l’impugnazione ritenendo la mancanza di motivazione da parte dell’atto impugnato.

Avverso la detta sentenza ha proposto ricorso per Cassazione l’Agenzia delle Entrate sulla base di un motivo.

M. S. ha resistito con controricorso.

La causa è stata discussa in camera di consiglio ai sensi dell’art 380 bis c.p.c.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate sostiene che, essendosi trattato nella specie di una erronea applicazione dell’aliquota da parte degli eredi senza che l’Ufficio avesse disposto alcuna rettifica dei dati esposti o  disconosciuto alcuna passività, non sussisteva alcun obbligo motivazionale per cui era sufficiente  l’indicazione nell’avviso che la maggiore imposta  era dovuta  “ per pagamento imposta principale : imposta e sanzioni dovuta per pagamento insufficiente “.

In particolare sotto tale profilo la sentenza impugnata avrebbe fatto erronea applicazione dell’art 33 comma 3 del d.lgs 346/90.

Il ricorso appare ammissibile risultando, da un lato, una adeguata, sia pur sintetica, esposizione dei fatti di causa, e, dall’altro, non costituendo ragione di inammissibilità la mancanza di riferimenti alla sentenza di primo grado dovendo le censure incentrarsi esclusivamente sulla sentenza di secondo grado oggetto di ricorso.

Ciò posto, il motivo appare infondato.

La controversia si incentra sulla valutazione delle conseguenze che discendono dalla applicazione da parte dei dichiaranti la successione di una aliquota d’imposta errata.

L’Ufficio espressamente riconosce che nel caso di specie non è stata effettuata alcuna rettifica dei dati esposti in dichiarazione e non è stata disconosciuta alcuna passività e che si è provveduto soltanto alla applicazione della imposta corretta.

Va premesso che, ai sensi dell’art 7 della legge 212 del 2000, “gli atti dell’amministrazione finanziaria sono motivati secondo quanto prescritto dall’articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.

Ciò comporta che tutti gli atti dell’amministrazione devono fornire adeguata motivazione riguardo la loro adozione ed il contenuto e siffatta necessità non è esclusa dalla circostanza che in materia tributaria, l’esistenza e la congruità della motivazione, deve essere valutata alla stregua delle regole dettate specificatamente per il singolo tributo cui l’atto si riferisce, attesa la polisistematicità della normativa,(v. Cass.5190/15).

Venendo al caso di specie si osserva che si verte in tema di imposta ipotecarie e catastali da versare in sede di successione.

A tale proposito l’art 13, comma 2 bis ,del decreto legislativo 347 del 1990 espressamente prevede che “Gli uffici del registro, in sede di liquidazione di imposta di successione, provvedono a correggere gli errori e le omissioni commessi dagli eredi e dai legatari nell’adempimento degli obblighi previsti dall’articolo 33, comma 1-bis, del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni, approvato con decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 346. In caso di omesso o insufficiente versamento gli uffici liquidano la maggiore imposta che risulta dovuta con le modalità e nei termini di cui all’articolo 27 del suddetto decreto legislativo n. 346 del 1990.”

Nel caso di specie la controversia si incentra sull’errata applicazione dell’aliquota delle imposte in questione in occasione della dichiarazione di successione da parte dei ricorrenti effettuata ai sensi dell’art 33 , comma 1 bis del citato d.lgs 346/90.

In siffatta situazione l’Ufficio era tenuto a liquidare la maggiore imposta in osservanza delle modalità e dei termini di cui all’art. 27 del d.lgs 346 del 1990 come prescritto dal dianzi riportato art 13 ,comma 2 bis, del d.lgs 347/90.

Ebbene, l’art 27del d.lgs 346/90 in questione ai commi 2 e 5 ,che qui interessano, prevede quanto segue:

(omissis)

“2. L’imposta è liquidata dall’ufficio in base alla dichiarazione della successione, a norma dell’art. 33, ed è nuovamente liquidata, a norma dello stesso articolo, in caso di successiva presentazione di dichiarazione sostitutiva o integrativa dì cui all’art. 28, comma 6. La liquidazione deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di tre anni dalla data di presentazione della dichiarazione della successione o della dichiarazione sostitutiva o integrativa. ( omissis)

5. Se nelle liquidazioni di cui ai commi 2, 3 e 4 vi sono stati errori od omissioni, l’ufficio può provvedere alla correzione e liquidare la maggiore imposta che ne risulta dovuta. Il relativo avviso deve essere notificato entro il termine di decadenza stabilito per la liquidazione alla quale si riferisce la correzione”.

Nel caso di specie non è dubbio che la liquidazione dell’Ufficio è stata effettuata ai sensi del citato articolo 27 del d.lgs 346/90.

Ciò tuttavia non vuol dire che non vi è stata alcuna rettifica dei dati esposti nella dichiarazione di successione perché si è evidentemente corretta l’aliquota applicata dai contribuenti e modificato l’importo dovuto.

Ora, è ben vero che nella fattispecie non risultano applicabili i commi 2 e 3 dell’art 33 del decreto legislativo in esame che prevedono quanto segue:

“2. In sede di liquidazione l’ufficio provvede a correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dal dichiarante nella determinazione della base imponibile e ad escludere:

a) le passività esposte nella dichiarazione per le quali non ricorrono le condizioni di deducibilità di cui agli articoli 21 e 24 o eccedenti i limiti di deducibilità di cui agli articoli 22 e 24, nonché gli oneri non deducibili a norma dell’art. 8, comma 1;

b) le passività e gli oneri esposti nella dichiarazione che non risultano dai documenti prodotti in allegato alla dichiarazione o su richiesta dell’ufficio;

c) le riduzioni e le detrazioni indicate nella dichiarazione non previste negli articoli 25 e 26 o non risultanti dai documenti prodotti in allegato alla dichiarazione o su richiesta dell’ufficio.

3. Le correzioni e le esclusioni di cui al comma 2 devono risultare nell’avviso di liquidazione dell’imposta.

Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il comma 3 dell’art 33 del d.lgs 346/90 di cui si discute, dispone, con riferimento al potere dell’Ufficio di correggere gli errori materiali e di calcolo e di escludere le passività (o altri oneri, riduzioni e detrazioni) esposte in dichiarazione ma non spettanti o non documentate, che dette correzioni ed esclusioni “devono risultare nell’avviso di liquidazione dell’imposta”. Deve al riguardo ritenersi che tale obbligo non possa essere assolto in modo generico e globale, ma esiga, al fine di porre il contribuente in condizione di approntare una adeguata difesa, che le “voci” escluse siano analiticamente individuate (Cass. 8190/11; Cass. 22148/17)

In ogni caso, la necessità di tale obbligo è generalizzata e discende dal citato art 7 della legge 212 del 2000.

Questa Corte ha a tale proposito già avuto occasione di affermare che in tema di imposta sulle successioni, la motivazione dell’avviso di rettifica e di liquidazione, ha la funzione di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’Ufficio finanziario nell’eventuale successiva fase contenziosa e di consentire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa.

Ne consegue che l’atto deve enunciare i criteri astratti in base ai quali è stato determinato il maggior valore, ma non anche gli elementi di fatto utilizzati per l’applicazione di essi, in quanto il contribuente, presa conoscenza del criterio di valutazione adottato, è in condizione di contestare e documentare l’infondatezza della pretesa erariale, fermo restando l’onere della prova gravante sull’Amministrazione. (Cass. 14027/12 vedi anche Cass. 8136/12)

Venendo dunque alla fattispecie in esame la Commissione regionale ha correttamente affermato che la motivazione dell’avviso di liquidazione basata sulle parole “ pagamento imposta principale insufficiente” non è in grado di consentire al contribuente un adeguato esercizio del diritto di difesa poiché trattasi di affermazione del tutto generica che non consente in alcun modo di comprendere le ragioni della rideterminazione dell’imposta poiché il “ termine insufficiente pagamento” può riferirsi ad una vasta casistica di ipotesi.

Il ricorso va in conclusione respinto. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna l’Amministrazione ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in euro 2500,00 oltre spese forfettarie 15% ed accessori.

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