CASSAZIONE

La Cassazione approfondisce la distinzione tra crediti d’imposta non spettanti e inesistenti

Tributi – Accertamento – Recupero credito d’imposta per mancanza dei requisiti – Termine decadenziale – Art.27, c.16, del Dl 185/2008 – Art. 13, c. 5, D.lgs. n. 471/1997, introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34445 del 16 novembre 2021, intervenendo sull’annosa questione dell’applicazione del termine di decadenza per la compensazione di crediti tributari e sulla distinzione tra i crediti inesistenti e i crediti non spettanti, ha affermato il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza «termale, previsto dall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997 (introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972”.

Da oggi, quindi, si può far riferimento a questa innovativa sentenza odierna e alla gemella n. 34443, con le quali i giudici della Suprema Corte hanno superato il precedente e tradizionale orientamento che non ravvisava differenze tra crediti d’imposta non spettanti e inesistenti. Adesso, secondo la Cassazione, per “credito inesistente” deve intendersi quello connotato da due requisiti essenziali e che debbono essere entrambi presenti: la mancanza del presupposto costitutivo necessario per farlo sorgere, di modo che il credito è stato indicato dal contribuente in maniera fraudolenta o comunque in base a una rappresentazione dei dati non reale e non veritiera, e l’impossibilità di riscontrare l’inesistenza del credito mediante le ordinarie attività di liquidazione e controllo, automatizzato o formale, delle dichiarazioni presentate dai contribuenti.

Peraltro la controversia riguardava il termine decadenziale stabilito dall’articolo 27, comma 16, del Dl 185/2008, in base al quale lo specifico atto di recupero per l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti deve essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo: perciò la Suprema Corte ha ritenuto opportuno dare una più puntuale definizione della compensazione di crediti tributari, chiarendo che il credito utilizzato dal contribuente può definirsi inesistente quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili-patrimoniali del contribuente, e quando tale assenza sia evincibile dai controlli automatizzati o formali sugli elementi della dichiarazione o in possesso dell’Anagrafe tributaria. Inoltre, ne è prova che il raddoppio dei termini (da 4 a 8 anni) dipende dalla non immediata riscontrabilità da parte del Fisco, che richiede una più complessa attività di accertamento.

Il termine ottennale di decadenza deriva dalla nuova disciplina prevista dall’articolo 13, comma 5, D.lgs. 471/1997, introdotto dall’articolo 15 del D.lgs. 158/2015, che tra l’altro definisce il credito inesistente come quello al quale “manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter D.P.R. 600/1973 e all’articolo 54-bis D.P.R. 633/1972”.

In definitiva e in altre parole, la Suprema Corte ha dichiarato che andrebbe superata la precedente affermazione secondo la quale non aveva senso distinguere tra crediti d’imposta non spettanti e inesistenti, cioè quanto veniva affermato dalla Sentenza 24093/2020, che riaffermava quanto sentenziato nel 2017 e dichiarava che non vi è alcuna differenza in diritto tra i crediti d’imposta inesistenti e non spettanti, rinviando in definitiva la questione di merito ai giudici competenti. Riportiamo per completezza un significativo passo di quella pronunzia che sosteneva nel punto: “… (è…) priva di fondamento logico-giuridico la distinzione tra credito non spettante e credito inesistente e, pertanto, hanno statuito che il termine di decadenza vada indistintamente fissato in otto anni”. Questa affermazione non appare più condivisibile in quanto determinerebbe una più gravosa applicazione in relazione ai termini di notifica degli avvisi di accertamento e in termini sanzionatori.

Rammentiamo che i crediti fiscali, innanzitutto, sono una sorta di sconto sulle tasse da pagare e sono adoperati per ridurre o azzerare l’imposta a debito; c’è inoltre da premettere che le norme relative agli strumenti agevolativi attuati mediante crediti d’imposta non brillano per chiarezza dei testi, né per semplicità di applicazione e che sfuggono a un’interpretazione chiara.

Inoltre, chi viene accertato per un credito non spettante può accedere alla definizione agevolata e così potrà pagarlo a rate e con sanzioni ridotte, possibilità è preclusa se il credito è qualificato come inesistente. E’ anche noto che i crediti d’imposta operano in diminuzione delle imposte a debito dove la compensazione opera in applicazione, in ambito tributario, del principio generale stabilito dall’art. 1241 del Codice civile, secondo il quale “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti”.

Ricordiamo che nella compensazione fiscale i soggetti interessati sono, da un lato il Fisco, che attraverso gli organi dell’Amministrazione finanziaria esercita le proprie pretese impositive e, dall’altro il contribuente, che fa valere le poste a proprio credito e le pone in compensazione con i suoi debiti fiscali. 

I crediti fiscali inesistenti hanno un regime sanzionatorio molto più severo rispetto a quello dei crediti non spettanti, il che spiega l’importanza pratica della loro esatta qualificazione. Per i crediti inesistenti infatti, la sanzione amministrativa va dal 100% al 200% del loro ammontare; nel caso dei crediti non spettanti, invece, la sanzione è pari al 30% del credito utilizzato. Questa differenza sanzionatoria si spiega con la maggiore pericolosità e gravità dei crediti inesistenti, creati con rappresentazioni false e con modalità fraudolente. Inoltre, in caso di crediti inesistenti l’Amministrazione ha a propria disposizione un termine decadenziale maggiore: ci sono otto anni di tempo per operarne il recupero, notificando l’atto di accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui il credito è stato indicato dal contribuente. Un termine doppio a quello dell’accertamento ordinario, che si applica ai crediti non spettanti come a tutte le altre ipotesi di rettifica delle dichiarazioni. Il raddoppio dei termini di accertamento per i crediti inesistenti ha la sua spiegazione nel fatto che il Fisco non riuscirebbe a riscontrare immediatamente e in modo automatico, mediante gli ordinari controlli, il carattere fittizio e indebito della compensazione operata dal contribuente.

In questo quadro alquanto preoccupante è stato richiesto al legislatore di semplificare il procedimento di accertamento della debenza o meno del credito d’imposta. Ne costituisce testimonianza anche la indubbia presenza dei numerosi documenti di prassi, tra cui ricordiamo la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 7/E del 25 giugno 2021, e il gran numero di risposte a interpelli riconducibili tutti alla questione dibattuta, che nascono da una serie di fattori compresi quelli commessi in buona fede, documentalmente notevoli: peraltro non si può al contempo escludere che alle volte tali errori siano deliberatamente commessi con abusi e illecite compensazioni. Il grado di intensità della volontà di violare la legge per trarne un profitto indebito può, però, essere molto diverso e può oscillare dalla inconsapevolezza di compiere la violazione, ritenendo di avere agito correttamente, alla evidente volontà di infrangere la legge con la piena consapevolezza di farlo.

Ci possono essere, però, numerose sfumature intermedie da valutate in sede di controllo fiscale e/o di disamina giudiziaria conseguente.

L’attenzione si è concentrata, per questo motivo, tanto a livello dottrinario che nella prassi e nella giurisprudenza, sulla distinzione tra le compensazioni che rientrano nelle fattispecie previste dalla legge, ma che non competono in mancanza di taluni requisiti richiesti alcuni dei quali di non agevole individuazione, e crediti che sono del tutto inesistenti nel senso che non rientrano nella fattispecie legale che descrive l’agevolazione. Il risultato è in ogni caso l’indebita fruizione dell’agevolazione, nel senso che il beneficio non compete e va recuperato.

Tornando all’argomento di oggi, una società contribuente ricorre alla giustizia tributaria per un avviso di recupero con cui il Fisco contestava l’indebito utilizzo in compensazione di un credito IVA, affermando che la società operava in modo continuativo e che nella specie, non trattandosi di crediti inesistenti, non poteva trovare applicazione il termine decadenziale di otto anni ex art. 27, comma 16, Dl n. 185/2008, convertito in legge 2/2009, bensì quello ordinario quadriennale, nella specie non rispettato.

Da segnalare che i giudici regionali, chiamati in causa dal successivo ricorso proposto dall’Agenzia, evidenziavano che per effetto della novella apportata all’art. 13, D.lgs. 471/1997 dal D.lgs. 158/2015, si era al cospetto di compensazione di un credito non spettante e non già di un credito inesistente, come pure implicitamente ritenuto dalla stessa Agenzia laddove aveva disposto la sanzione del 30% del credito utilizzato, ai sensi dell’art. 13, comma 4, D.lgs. n. 471/1997, anziché quella prevista dal comma 5, nella misura dal 100% al 200%.

Da qui il ricorso per Cassazione delle Entrate affidato a due motivi, in cui essenzialmente si duole che una tale distinzione – valevole soltanto nell’ambito sanzionatorio e solo dal 2015, per effetto delle modifiche apportate all’art. 13 del D.lgs. 471 dal D.lgs. 158 – non abbia ragion d’essere ai fini del calcolo del termine per l’accertamento, che deve ritenersi nella specie soggetto al raddoppio ai sensi dell’art. 27, comma 16, cit.

Pertanto, avrebbe errato la CTR nel rilevare l’intervenuta decadenza per superamento del termine quadriennale. Il ricorso del Fisco però è stato rigettato dalla Suprema Corte, poiché: “… La questione del termine di decadenza in discorso risulta senz’altro intercettata dalla nuova disciplina dettata dall’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471/1997, introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015, che così stabilisce: “Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. Come è evidente, nel contesto della rideterminazione del quadro sanzionatorio circa l’indebita compensazione di crediti, il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come appunto introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015, si spinge a dettare la definizione normativa di credito “inesistente”, tale essendo il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36 -bis e 36 -ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54 -bis del d.P.R. n. 633/1972. Al riguardo, può dunque affermarsi che il credito fiscale illegittimamente utilizzato dal contribuente può dirsi “inesistente” quando ne manca il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili-patrimoniali-finanziari del contribuente) e quando tale mancanza sia evincibile dai controlli automatizzati o formali sugli elementi dichiarati dal contribuente stesso o in possesso dell’anagrafe tributaria, banca dati pubblica disciplinata dal d.P.R. n. 605 del 1973, su cui detti controlli anche si fondano. Non è affatto casuale, del resto, che il raddoppio dei termini dì decadenza in discorso sia collegato alla non immediata riscontrabilità da parte del fisco, mediante i suddetti controlli, del carattere indebito della compensazione, la maggior durata giustificandosi, all’evidenza, solo per i casi in cui sia necessaria una più complessa attività istruttoria. Così stando le cose, ritiene la Corte che l’affermazione secondo cui sarebbe priva di senso logico-giuridico la distinzione tra “credito inesistente” e “credito non spettante” – come sostenuto, nel solco di Cass. n. 10112/2017, da Cass. n. 19237/2017 (di recente confermata da Cass. n. 24093/2020 e da Cass. n. 354/2021) – vada necessariamente superata anche per effetto della citata novella, non solo perché quest’ultima è direttamente applicabile alla fattispecie, ratione temporis, ma anche perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati dal contribuente, mediante l’emissione dell’atto di recupero di cui all’art. 1, comma 421, della legge n. 311 del 2004. Infatti, è già assai significativo che tale ultima disposizione si riferisca in linea generale alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, mentre l’art. 27, comma 16, d.l. cit., che estende il termine di decadenza all’ottennio dal relativo utilizzo, concerna invece la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, ossia – già intuitivamente, sul piano semantico, prim’ancora che giuridico – ad una fattispecie necessariamente più ristretta rispetto a quella generale, evidentemente ritenuta più grave.  A ciò si aggiunga che la citata novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, d.l. cit. (che regolava il relativo quadro sanzionatorio), e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione anche secondo il linguaggio comune – “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza (come pure può evincersi dal contenuto della Relazione illustrativa al d.l. n. 185/2008). In tale prospettiva, il ricorso è dunque infondato, perché – fermo l’incontestato accertamento fattuale circa la mera non spettanza del credito IVA per cui è processo, a cagione del mancato superamento del test di operatività di cui all’art. 30, comma 1, della legge n. 724/1994 – la tesi seguita dalla C.T.R., laddove si distingue, ai fini della verifica della tempestività del recupero fiscale, tra “credito inesistente” e “credito non spettante e/o non utilizzabile”, è del tutto corretta e conforme all’impianto normativo pretesamente violato. Del resto, come anche evidenziato dal giudice d’appello, non può non rilevarsi come detta distinzione finisca con l’essere corroborata dalla stessa attività di recupero realizzata dall’Agenzia, che ha inflitto alla contribuente la sanzione di cui all’art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 471/1997, concernente appunto l’indebito utilizzo di “crediti non spettanti”, e non già la sanzione di cui al comma 5 della stessa disposizione, relativa invece ai “crediti inesistenti”.  Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza «termale, previsto dall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997 (introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972”.

Corte di Cassazione Sentenza 16 novembre 2021, n. 34445

sul ricorso 13854-2019 proposto da: AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del 2021 Direttore pro tempore, elettivamente 90 domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, t che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro SOC. AGR. C. DI C. SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA VENEZIA 11, presso lo studio dell’avvocato LIVIA SALVINI, che la rappresenta e difende;

– -controricorrente-

avverso la sentenza n. 4577/2018 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA, depositata il 26/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/05/2021 dal Consigliere Dott. SALVATORE SAIJA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale dott. TOMMASO BASILE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

FATTI DI CAUSA

In data 4.5.2016, la D.P. di Pavia notificò alla Società Agricola C. di C. s.r.l. un avviso di recupero con cui si contestava l’indebito utilizzo in compensazione di un credito IVA maturato nel 2008 e pari ad € 381.339,00, e ciò stante l’accertata natura di società di comodo della contribuente, ex art. 30 della legge n. 724/1994.

La società impugnò l’avviso con ricorso dinanzi alla C.T.P. di Pavia, che con sentenza n. 34/02/16 lo accolse, rilevando che la società operava in modo continuativo e che nella specie, non trattandosi di crediti inesistenti, non poteva trovare applicazione il termine decadenziale di otto anni ex art. 27, comma 16, del d.l. n. 185/2008, conv. in legge n. 2/2009, bensì quello ordinario quadriennale, nella specie non rispettato.

Avverso detta sentenza, propose appello l’Agenzia delle Entrate, ma la C.T.R. della Lombardia, con sentenza n. 4577/2018 del 26.10.2018, lo rigettò, in particolare evidenziando che, per effetto della novella apportata all’art. 13 d.lgs. n. 471/1997 dal d.lgs. n. 158/2015, si è al cospetto di compensazione di un credito “non spettante” e non già di un “credito inesistente”, come pure implicitamente ritenuto dalla stessa Agenzia, laddove ha comminato la sanzione del 30% del credito utilizzato, ai sensi dell’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471/1997, anziché quella prevista dal comma 5, nella misura dal 100% al 200% del credito.

L’Agenzia delle Entrate ricorre ora per cassazione, affidandosi due motivi cui resiste la società con controricorso, illustrato da memoria ex art. 380-bis c.p.c.

Con ordinanza interlocutoria n. 29717/2020 del 29.12.2020, la Sez. VI-T ha rimesso il ricorso a questa Sezione per la discussione in udienza pubblica, non sussistendo i presupposti per la sua definizione ai sensi dell’art. 375 c.p.c.

Il P.G. ha quindi rassegnato conclusioni scritte, ai sensi dell’art. 23, comma 8- bis, del d.l. n. 137/2020, conv. in legge n. 176/2020, chiedendo l’accoglimento del ricorso.

La controricorrente ha depositato ulteriore memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE  

1.1 Con l’unico motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185/2008, conv. in legge n. 2/2009, conseguente alla falsa applicazione dell’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471/1997, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

La ricorrente si duole dell’erroneità della decisione d’appello, nella parte in cui s’è distinto, ai fini della verifica della tempestività dell’azione di recupero, tra l’ipotesi della inesistenza del credito d’imposta indebitamente portato in compensazione (cui solo si riferisce la disciplina speciale in rubrica, che prevede il raddoppio dei termini di accertamento), e quella della mera non spettanza del credito. Ritiene invece la ricorrente che una tale distinzione – valevole soltanto nell’ambito sanzionatorio e solo dal 2015, per effetto delle modifiche apportate all’art. 13 del d.lgs. n. 471/1997 dal d.lgs. n. 158/2015 – non abbia ragion d’essere ai fini del calcolo del termine per l’accertamento, che deve ritenersi nella specie soggetto al raddoppio ai sensi dell’art. 27, comma 16, cit. Pertanto, avrebbe errato la C.T.R. nel rilevare l’intervenuta decadenza per superamento del termine quadriennale.

2.1 – Il ricorso è infondato.

L’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2/2009, così recita: “Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”.

La questione del termine di decadenza in discorso risulta senz’altro intercettata dalla nuova disciplina dettata dall’art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 471/1997, introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015, che così stabilisce: “Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.

Come è evidente, nel contesto della rideterminazione del quadro sanzionatorio circa l’indebita compensazione di crediti, il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come appunto introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015, si spinge a dettare la definizione normativa di credito “inesistente”, tale essendo il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36 -bis e 36 -ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54 -bis del d.P.R. n. 633/1972. Al riguardo, può dunque affermarsi che il credito fiscale illegittimamente utilizzato dal contribuente può dirsi “inesistente” quando ne manca il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili-patrimoniali-finanziari del contribuente) e quando tale mancanza sia evincibile dai controlli automatizzati o formali sugli elementi dichiarati dal contribuente stesso o in possesso dell’anagrafe tributaria, banca dati pubblica disciplinata dal d.P.R. n. 605 del 1973, su cui detti controlli anche si fondano. Non è affatto casuale, del resto, che il raddoppio dei termini dì decadenza in discorso sia collegato alla non immediata riscontrabilità da parte del fisco, mediante i suddetti controlli, del carattere indebito della compensazione, la maggior durata giustificandosi, all’evidenza, solo per i casi in cui sia necessaria una più complessa attività istruttoria.

Così stando le cose, ritiene la Corte che l’affermazione secondo cui sarebbe priva di senso logico-giuridico la distinzione tra “credito inesistente” e “credito non spettante” – come sostenuto, nel solco di Cass. n. 10112/2017, da Cass. n. 19237/2017 (di recente confermata da Cass. n. 24093/2020 e da Cass. n. 354/2021) – vada necessariamente superata anche per effetto della citata novella, non solo perché quest’ultima è direttamente applicabile alla fattispecie, ratione temporis, ma anche perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati dal contribuente, mediante l’emissione dell’atto di recupero di cui all’art. 1, comma 421, della legge n. 311 del 2004. Infatti, è già assai significativo che tale ultima disposizione si riferisca in linea generale alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, mentre l’art. 27, comma 16, d.l. cit., che estende il termine di decadenza all’ottennio dal relativo utilizzo, concerna invece la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”, ossia – già intuitivamente, sul piano semantico, prim’ancora che giuridico – ad una fattispecie necessariamente più ristretta rispetto a quella generale, evidentemente ritenuta più grave.

A ciò si aggiunga che la citata novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, d.l. cit. (che regolava il relativo quadro sanzionatorio), e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione anche secondo il linguaggio comune – “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza (come pure può evincersi dal contenuto della Relazione illustrativa al d.l. n. 185/2008). In tale prospettiva, il ricorso è dunque infondato, perché – fermo l’incontestato accertamento fattuale circa la mera non spettanza del credito IVA per cui è processo, a cagione del mancato superamento del test di operatività di cui all’art. 30, comma 1, della legge n. 724/1994 – la tesi seguita dalla C.T.R., laddove si distingue, ai fini della verifica della tempestività del recupero fiscale, tra “credito inesistente” e “credito non spettante e/o non utilizzabile”, è del tutto corretta e conforme all’impianto normativo pretesamente violato.

Del resto, come anche evidenziato dal giudice d’appello, non può non rilevarsi come detta distinzione finisca con l’essere corroborata dalla stessa attività di recupero realizzata dall’Agenzia, che ha inflitto alla contribuente la sanzione di cui all’art. 13, comma 4, del d.lgs. n. 471/1997, concernente appunto l’indebito utilizzo di “crediti non spettanti”, e non già la sanzione di cui al comma 5 della stessa disposizione, relativa invece ai “crediti inesistenti”.

Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza «termale, previsto dall’art. 27, comma 16, del d.l. n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997 (introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non è, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del d.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del d.P.R. n. 633/1972”.

3.1 — In definitiva, il ricorso è rigettato.

La complessità delle questioni trattate, testimoniata anche dalla sussistenza di precedenti di legittimità di segno contrario alla presente decisione, giustifica ampiamente l’integrale compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il giorno 12.5.2021

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