CASSAZIONE

Indagini bancarie sui conti dei genitori: se riferibili al contribuente, l’accertamento è legittimo

Tributi – Accertamento – Maggior reddito – Indagini bancarie – Libero professionista -Movimentazioni sui conti di terzi – Artt. 32, n. 7, DPR n. 600/1973 e 51 del DPR n. 633/1972 – Prova analitica di ogni movimentazione- Legittimità

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22089 dell’11 settembre 2018, intervenendo in tema di imposte sui redditi ha confermato che deve ritenersi legittimo l’accertamento del Fisco fondato su indagini bancarie inerenti i conti correnti dei congiunti del contribuente a quelle legate all’attività propria come professionista, salvo prova contraria. In particolare, la S.C. ha ritenuto valido l’accertamento bancario sui conti correnti dei genitori se si ha fondato motivo di ritenerli connessi e inerenti al reddito del contribuente, soprattutto se lo stesso dispone di una delega a operare e se, per alcuni movimenti, ne è stata confermata la riconducibilità alla propria attività di libero professionista.

In buona sostanza, gli Ermellini hanno ritenuto legittime le indagine sui conti correnti intestati a terzi, nelle ipotesi in cui vi sia un legame di parentela stretto, se il contribuente abbia la delega a operare sul conto o se sul conto siano confluite operazioni riguardanti l’attività professionale. A fronte della sussistenza di tali elementi si configura una presunzione legale in favore dell’ufficio e spetta al contribuente dimostrare, in maniera precisa e analitica, la non imponibilità di ogni singola operazione, ovvero la riferibilità delle stesse a soggetti terzi.

Peraltro, lo strumento accertativo delle indagini finanziarie si è evoluto nel tempo, per effetto delle innovazioni normative e delle sentenze della Suprema Corte e della Consulta e pertanto si è ormai consolidato l’orientamento che inquadra le indagini finanziarie nell’ambito delle presunzioni legali relative, con la conseguenza che i movimenti finanziari non giustificati dal contribuente vengono considerati fiscalmente rilevanti dall’Amministrazione finanziaria, tanto da essere posti a base delle rettifiche e degli accertamenti.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 228/2014 ha però segnato un solco, relativamente al caso di specie, tra le imprese e i liberi professionisti, laddove ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 32 del DPR 600/1973, nella parte in cui stabiliva anche nell’ambito dei lavoratori autonomi la correlazione esistente tra prelevamento e compenso, per effetto della presunzione secondo la quale un prelevamento non giustificato rappresenta un investimento produttivo di redditi occultati al Fisco.

Tanto premesso, la Corte di Cassazione nel caso di specie ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate in una controversia relativa a impugnazione di un avviso di accertamento ai fini IVA, IRAP e IRPEF emesso a carico di un libero professionista che in sede contenziosa aveva avuto inizialmente esito negativo. Da precisare che a seguito di verifica fiscale a un professionista da parte della Guardia di Finanza, erano stati contestati maggiori ricavi non dichiarati sulla base della documentazione extracontabile rinvenuta in sede di accesso e delle movimentazioni bancarie sul c/c del verificato (cointestato col coniuge) e dei suoi genitori. Conseguentemente, l’ufficio notificava avviso di accertamento ai fini delle imposte dirette e IVA, che veniva impugnato innanzi alla CTP e da questa annullato integralmente.

La decisione era parzialmente riformata in appello, dove la CTR riteneva fondata la pretesa fiscale solo in relazione a quattro operazioni rinvenute sul c/c intestato ai genitori del contribuente, il quale aveva riconosciuto la riferibilità delle stesse alla propria attività professionale.

L’Amministrazione impugnava quindi la sentenza di secondo grado lamentando: l’omessa valutazione, da parte dei giudici, degli elementi raccolti in sede di verifica e della presunzione prevista in favore dell’ufficio per i versamenti sui conti correnti – nella parte in cui era stata esclusa la ripresa a tassazione – quali ricavi professionali del contribuente non contabilizzati, delle somme movimentate sul conto corrente intestato ai genitori del medesimo, il quale neppure li aveva in qualche modo giustificati, come era suo onere.

Un motivo che, secondo gli Ermellini, è fondato e va accolto. Per i supremi giudici, in tema di accertamento del reddito d’impresa, l’ufficio finanziario è autorizzato (ex artt. 32, n. 7, DPR n. 600/1973 e 51 del DPR n. 633/1972), a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi e inerenti al reddito del contribuente.

Al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dall’art. 32 del DPR 600/1973 – in virtù della quale i prelevamenti e i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa – non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente.

La Cassazione rammenta che “…Con consolidata giurisprudenza alla quale si aderisce (da ultimo, Cass., Sez. 5, n. 14556 del 2018) questa Corte ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività (di recente, Cass. n. 4829/2015) e che tale principio si applica, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come la ristretta compagine sociale ed il rapporto di stretta contiguità familiare tra l’amministratore o i soci ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica, anche alle movimentazioni effettuate su questi ultimi, poiché in tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci, e perfino dei loro familiari, debbano — in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario — ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (Cass. civ. Sez. V, Ord., 15 novembre 2017, n. 27075. In senso analogo si espressa Cass. n. 1898 del 2016, secondo cui «In tema di accertamento del reddito d’impresa, gli artt. 32, n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente», nonché Cass. n. 26173 del 2011, n.26829 del 2014, n. 12276 del 2015 e, con riferimento ad un caso analogo a quello in esame, Cass. n. 428 del 2015, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale è sufficiente a giustificare, salva la prova contraria, la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari di tali soggetti all’attività economica della società sottoposta a verifica, sicché in assenza di prova di attività economiche svolte dagli intestatari dei conti, idonee a giustificare i versamenti e i prelievi riscontrati, ed in presenza di un contestuale rapporto di collaborazione con la società, deve ritenersi soddisfatta la prova presuntiva a sostegno della pretesa fiscale, con spostamento dell’onere della prova contraria sul contribuente. (Nella specie, la S.C. ha enunciato il principio con riferimento a conti bancari intestati ad amministratori, legati da evidenti rapporti di parentela, e nessuno degli intestatari svolgeva attività economica idonea a giustificare simili importi reddituali)”.

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 11 settembre 2018, n. 22089

 

Sul ricorso iscritto al n. 9864/2017 RG. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro N. A., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al controricorso, dall’avv. Giuditta MERONE, ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Angelo Emo, n. 106, presso lo Studio Legale Castaldo;

-controricorrente –

avverso la sentenza n. 9421/17/2016 della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, depositata il 21/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/07/2018 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Rilevato che:

  1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento ai fini IVA, IRAP ed IRPEF emesso a carico di A.N., libero professionista, sulla scorta delle risultanze di una verifica fiscale condotta nei confronti del medesimo dalla G.d.F. e compendiata in apposito p.v.c., da cui emergevano maggiori ricavi conseguiti dal predetto contribuente con riferimento al periodo d’imposta 2008 sulla base della documentazione extracontabile rinvenuta in sede di accesso (n. 48 schede clienti) e delle movimentazioni verificate sia sul conto corrente bancario cointestato al medesimo ed alla coniuge, che a quello intestato ai genitori, sul quale aveva delega ad operare, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR, in parziale accoglimento dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, riteneva fondata la pretesa fiscale limitatamente all’importo di Euro 1.500,00 di cui a quattro operazioni effettuate sul secondo dei predetti conti correnti in quanto espressamente riconosciute dal contribuente.
  2. Avverso tale statuizione l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione sulla base di un unico motivo, cui replica l’intimato con controricorso.
  3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale il controricorrente ha depositato memorie.

Considerato che:

  1. Va preliminarmente esaminata e rigettata, perché infondata, l’eccezione di giudicato interno proposta dal controricorrente con riferimento agli esiti degli accertamenti condotti sul conto corrente personale del contribuente; invero, dallo stesso contenuto della sentenza impugnata (pag. 4), in cui si dà atto che con l’appello l’Agenzia delle entrate aveva censurato la sentenza di prime cure — totalmente sfavorevole all’amministrazione finanziaria — lamentando che «nella stessa non venivano spiegati quali sarebbero stati gli elementi probatori forniti dal contribuente che contraddicono i rilievi emessi in sede di indagine finanziaria», si evince che l’impugnazione riguardava tutti i capi di quella statuizione, compresi i movimenti verificati sul conto corrente cointestato al contribuente e al coniuge.
  2. Va altresì esaminata con priorità l’eccezione di inammissibilità del ricorso per avervi la ricorrente provveduto mediante la tecnica dell’assemblaggio degli atti processuali.

2.1. Al riguardo, giova ricordare il principio giurisprudenziale (cfr. Cass. Sez. U., n. 5698 del 2012) secondo il quale «In tema di ricorso per cassazione, ai fini del requisito di cui all’art. 366, n. 3, cod. proc. civ., la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso»; ne consegue che il ricorso redatto con la tecnica dell’assemblaggio di una serie di documenti è sanzionabile con l’inammissibilità «a meno che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, essendo facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall’atto processuale, la cui autosufficienza, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi» (Cass. n. 18363 del 2015 e n. 12641 del 2017).

2.2. Partendo da tali premesse, osserva il Collegio che nel caso in esame la riproduzione degli atti processuali è limitata, quanto al primo motivo, a due prospetti contenuti nel p.v.c. redatto dalla G.d.F. ed ai fogli n. 6, 11, 12, 13, 14, 15, 17,23 e 33 del predetto p.v.c., e quanto al secondo motivo, ai fogli da n. 41 a n. 46 dello stesso p.v.c.

2.3. E’ quindi palesemente infondata e va rigettata l’eccezione in esame in quanto dall’analisi della struttura della parte del ricorso dedicata all’esposizione dei mezzi di cassazione emerge che la ricorrente ha riprodotto il contenuto del p.v.c. esclusivamente nelle parti essenziali a corroborare le ragioni dell’impugnazione e a soddisfare il requisito dell’autosufficienza richiesto dall’art. 366 cod. proc. civ. 3.

Venendo, quindi, ai motivi di ricorso, con il primo la difesa erariale deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame da parte dei giudici di appello dei dati extracontabili emersi nel corso della verifica fiscale.

  1. In relazione al predetto motivo va preliminarmente esaminata l’eccezione di inammissibilità proposta dal controricorrente ai sensi dell’art. 348-ter cod. proc. civ. (c.d. doppia conforme), che è infondata e va rigettata avendo la sentenza di appello confermato la decisione di primo grado limitatamente alle riprese fiscali derivanti dagli esiti degli accertamenti bancari, mentre nessuna statuizione risulta adottata, neppure dal giudice di primo grado (la cui parte motivazionale è integralmente riprodotta nella sentenza qui vagliata) in ordine ai ricavi non contabilizzati risultanti dalla documentazione extracontabile rinvenuta dalla G.d.F. in sede di verifica fiscale, tale da evidenziare la sussistenza sub specie di una “doppia omissione” di apparato argomentativo dei giudici di merito sul complessivo compendio probatorio che esclude, in quanto tale, l’operatività della citata disposizione processuale.
  2. Ciò precisato, rileva il Collegio che il motivo sia fondato e vada accolto. La motivazione della sentenza impugnata rende palese che i giudici di appello si sono limitati ad elencare nella stessa gli elementi probatori comprovanti l’omessa contabilizzazione di ricavi da parte del contribuente, tra cui la documentazione extracontabile rinvenuta in sede di verifica della G.d.F., ma ne hanno del tutto pretermesso l’esame e, quindi, la valutazione, confinati invece si soli dati risultanti dalle movimentazioni bancarie effettuate sul conto corrente intestato ai genitori del contribuente, come confermato anche dal fatto che la fondatezza della pretesa erariale è stata quasi del tutto esclusa per la mancanza al ricorso d’appello di un “prospetto” di quelle movimentazioni che l’amministrazione finanziaria sosteneva esservi, invece, allegato.
  3. Con il secondo motivo la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, 2728, comma 1, e 2697 cod. civ., sostenendo che la CTR aveva errato nell’escludere la ripresa a tassazione, quali ricavi professionali del contribuente non contabilizzati, delle somme movimentate sul conto corrente intestato ai genitori del medesimo, il quale neppure li aveva in qualche modo giustificati, come era suo onere.
  4. Il motivo è fondato e va accolto.

7.1. Con consolidata giurisprudenza alla quale si aderisce (da ultimo, Cass., Sez. 5, n. 14556 del 2018) questa Corte ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività (di recente, Cass. n. 4829/2015) e che tale principio si applica, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come la ristretta compagine sociale ed il rapporto di stretta contiguità familiare tra l’amministratore o i soci ed i congiunti intestatari dei conti bancari sottoposti a verifica, anche alle movimentazioni effettuate su questi ultimi, poiché in tal caso, infatti, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci, e perfino dei loro familiari, debbano — in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario — ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (Cass. civ. Sez. V, Ord., 15 novembre 2017, n. 27075. In senso analogo si espressa Cass. n. 1898 del 2016, secondo cui «In tema di accertamento del reddito d’impresa, gli artt. 32, n. 7, del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 autorizzano l’Ufficio finanziario a procedere all’accertamento fiscale anche attraverso indagini su conti correnti bancari formalmente intestati a terzi ma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente», nonché Cass. n. 26173 del 2011, n.26829 del 2014, n. 12276 del 2015 e, con riferimento ad un caso analogo a quello in esame, Cass. n. 428 del 2015, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, lo stretto rapporto familiare e la composizione ristretta del gruppo sociale è sufficiente a giustificare, salva la prova contraria, la riferibilità delle operazioni riscontrate sui conti correnti bancari di tali soggetti all’attività economica della società sottoposta a verifica, sicché in assenza di prova di attività economiche svolte dagli intestatari dei conti, idonee a giustificare i versamenti e i prelievi riscontrati, ed in presenza di un contestuale rapporto di collaborazione con la società, deve ritenersi soddisfatta la prova presuntiva a sostegno della pretesa fiscale, con spostamento dell’onere della prova contraria sul contribuente. (Nella specie, la S.C. ha enunciato il principio con riferimento a conti bancari intestati ad amministratori, legati da evidenti rapporti di parentela, e nessuno degli intestatari svolgeva attività economica idonea a giustificare simili importi reddituali)».

  1. La sentenza impugnata non si è attenuta ai suddetti principi escludendo, peraltro immotivatamente, la riferibilità a ricavi conseguiti dal contribuente nell’esercizio della propria attività professionale e non contabilizzati, delle somme rinvenute sul conto corrente intestato ai genitori del medesimo, sul quale costui aveva la delega ad operare e che dal medesimo veniva comunque utilizzato per uso professionale, come reso palese dall’espresso riconoscimento effettuato dal contribuente con riferimento a quattro operazioni contabili.
  2. Pare altresì necessario ricordare, in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di accertamenti bancari, il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi degli artt. 38-41 dello stesso decreto, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), omologa a quella stabilita dall’art. 51, comma 2, n. 2, d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di IVA, consentendo di riferire a redditi (e, nel secondo caso, a ricavi) imponibili, conseguiti nell’attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli “accrediti” (e, per le sole attività imprenditoriali, anche gli “addebiti”) come ricav4frattasi di presunzione legale “juris tantum” che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività professionale o imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo e a quello dei congiunti, in presenza di chiari elementi sintomatici come quelli sussistenti nella specie, e comportante l’inversione dell’onere della prova, spettando a quest’ultimo di superare detta presunzione offrendo la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti (e gli addebiti) registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che venga indicato e dimostrato dal contribuente la provenienza dei singoli versamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (arg. da Cass. 26111 del 2015 e n. 21800 del 2017; conf. Cass. n. 5152, n. 5153, n. 19807 e n. 19806 del 2017, n. 18065, n. 18066, n. 18067, n.16686, n. 16699, n. 16697, n. 11776, n. 6093 del 2016; Sez. 6-5, ord. n. 7453, n. 9078 e n. 19029 del 2016). Con specifico riferimento al contenuto dell’onere probatorio gravante sul contribuente si è affermato che il contribuente ha l’onere di dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e, a tal fine, deve fornire non una prova generica, ma una prova analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014) ed il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto e già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017). 10. In definitiva, all’accoglimento del ricorso, cui si deve pervenire alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, non superabili da quelle sviluppate dal controricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380-bis, secondo comma, ultima parte, c.p.c., la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla compete ente CTR, che provvederà a rivalutare la vicenda alla stregua dei suesposti principi, fornendo adeguata e congrua motivazione, nonché a regolamentare le spese del presente giudizio di legittimità

P.Q.M.

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma il 18/07/2018

 

 

 

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