CASSAZIONE

In tempi di crisi è più importante pagare gli stipendi invece che le tasse

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6737 del 12 febbraio 2018, torna nuovamente sul tema della possibile rilevanza della “crisi di liquidità” nell’ambito dell’omesso versamento di ritenute previsto dall’art. 10-bis del D.lgs. n. 74/2000, accogliendo il ricorso di una imprenditrice che si era trovata costretta ad affrontare una pesante situazione di crisi di liquidità dell’impresa che l’aveva costretta nella difficile scelta di pagare gli stipendi dovuti ai dipendenti piuttosto che ad assolvere gli obblighi fiscali incombenti. I Supremi Giudici, invertendo una rotta segnata da alcune pronunce passate, prendono atto degli effetti della crisi finanziaria dichiarando, dopo un lungo ragionamento giuridico e sull’evoluzione giurisprudenziale in atto, che non esiste dolo se l’impresa paga gli stipendi a 200 famiglie e poi pensa alle ritenute.

La giurisprudenza è stata più volte chiamata ad occuparsi dell’importante questione.

Sul punto, fra le altre, è d’obbligo segnalare che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20777 depositata il 22 maggio 2014, dove, secondo gli Ermellini, non vi era dubbio che in relazione alla fattispecie di cui all’art. 10-bis del D.lgs. n. 74/2000, pur prospettando l’ipotesi di dolo generico, occorre però considerare come anche a fronte di una tale connotazione dell’elemento soggettivo del reato il dolo non può essere ritenuto “in re ipsa” e, per il suo accertamento, non è possibile ricorrere, nel diritto penale, a presunzioni di dolo.

Inoltre, nella motivazione, la più recente Cass. Sez. 3^, 24 giugno 2014 – 25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, ha ben focalizzato questo profilo oltrepassando la restrittività di Cass. Sez. 3^, 26 maggio 2010 n. 25875, ric. Olivieri – per cui il dolo sarebbe stato integrato dalla mera consapevolezza della condotta omissiva – tramite l’osservazione che nel reato de quo il dolo “è integrato dalla condotta omissiva attuata nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma anche un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato” .

In definitiva, in tema di omesso versamento di ritenute fiscali non può essere ritenuto sussistente l’elemento soggettivo del reato – o, almeno, il giudice di merito deve adeguatamente motivarne la sussistenza – nel momento in cui a fronte di una crisi di liquidità l’agente abbia consapevolmente scelto di far fronte ad altri improcrastinabili adempimenti verso altri creditori quali i lavoratori dipendenti, tutelati dalla Costituzione.

In sintesi, quindi, tale dolo, seppur generico, deve essere provato e ricostruito secondo le circostanze del caso specifico, tenendo conto del contesto in cui si è esplicata la condotta illecita.

Tornando al caso esaminato, la vicenda riguarda un’azienda di Brescia caduta in una grave crisi finanziaria fra il 2009 e il 2010, dove il precedente amministratore aveva passato le consegne al nuovo manager che si era ritrovato a scegliere tra gli stipendi ai dipendenti e le tasse da versare.

Scelta difficile, che i Supremi Giudici hanno ben analizzato pervenendo a censurare l’operato della Corte territoriale: ”… La corte territoriale, comunque, dopo una semplice menzione dell’insegnamento di questa Suprema Corte, opera una ricostruzione della fattispecie penale non giuridicamente completa. Sorvolando la questione della sussistenza o meno, in concreto, di una crisi economica non imputabile e non affrontabile con misure idonee (sul punto, infatti, la corte esterna soltanto un rapido rilievo, senza indicare da che cosa risultasse che la Z. avesse mancato di provvedere quanto alla crisi della società, che peraltro dalla stessa motivazione della sentenza impugnata risulta essere stata avviata al concordato preventivo e nonostante questo non aver potuto sfuggire al fallimento) per argomentare, in realtà, soltanto tramite (come si è appena visto, non del tutto congruo) che il denaro per versare le ritenute era disponibile in quanto la Z. aveva ammesso di avere scelto di utilizzarlo per pagare i d pendenti della società. Da ciò, appunto, la corte territoriale desume che la Z. poteva (materialmente) adempiere al debito d’imposta, senza peraltro esaminare se una siffatta “scelta”, a suo avviso in sostanza confessata dalla Z., fosse realmente compatibile con il dolo della fattispecie criminosa. La giurisprudenza di questa Suprema Corte, dall’epoca in cui ha dovuto esaminare vari episodi di omesso versamento del debito d’imposta da parte di imprenditori la cui impresa veniva a trovarsi in una gravissima crisi di liquidità, e sovente persino sull’orlo del fallimento, ha riconosciuto che l’omesso versamento in una situazione di crisi simile può non integrare il reato, o sotto un profilo dell’elemento soggettivo o sotto il profilo della esimente rappresentata dalla forza maggiore: il problema, insorto da una globale situazione economica, era stato d’altronde ben percepito dalla dottrina, anche sulla scorta, ovviamente, delle prime pronunce della giurisprudenza di merito al riguardo. Prendendo le mosse, dunque, da un rigore, per così dire, di sistema che si era conformato in un’epoca economicamente opposta, in cui la sopravvenuta crisi di liquidità dell’impresa derivava ordinariamente dalla mala gestio del singolo imprenditore (e del quale gli ultimi fuochi, tra gli arresti massimati, sono ravvisabili in Cass. sez. 3, 12 giugno 2013 n. 37528, Corlianò, che espressamente esclude che la difficoltà finanziaria possa costituire forza maggiore in riferimento alla responsabilità per il reato di cui all’art. 10 bis d.lgs. 74/2000), questa Suprema Corte, alla luce di spiragli già creati da S.U. 23 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, ha successivamente aperto spazi di manovra, oscillando appunto, vista anche l’eterogeneità dei concreti casi esaminati, tra la soluzione rinvenibile nell’esimente e quella riconducibile, invece, all’elemento soggettivo (cfr., ex multis, Cass. sez. 3, 9 ottobre 2013-7 febbraio 2014 n. 5905, ric. Maffei, non massimata, cui fa riferimento anche il ricorso; Cass. sez. 3, 6 novembre 2013 n. 2614, ric. Saibene; Cass. sez. 3, :licerribre 2013-4 febbraio 2014 n. 5467, ric. Mercutello; Cass. sez. 3, 8 gennaio 2014 n. 15416, ric Tonti Sauro, non massimata; Cass. sez. 3, 11 dicembre 2014 n. 51436, ric. PM Sassari, non massimata; Cass. sez. 3, 21 gennaio 2015 n. 7429, ric. PM Potenza; Cass. sez. 3, 24 giugno 2014-25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, Cass. sez. 3, ric. Olivetto, 29 marzo 2017 n. 46459).

Non è il caso, peraltro, di approfondire giuridicamente al riguardo di entrambi i profili. Qual che qui rileva infatti è, indubbiamente, l’elemento soggettivo, poiché, come si è visto, il ricorso raggiunge l’acme delle sue argomentazioni nell’affermare (e a ciò implicitamente sottende anche la denuncia di un profilo di illegittimità costituzionale qualora non sia accolto quanto viene addotto) che il dolo non può sussistere in quanto, altrimenti, “non potrebbe che configurarsi un contrasto con la carta costituzionale laddove dovesse ritenersi la punibilità del soggetto imprenditore che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e ala conseguente retribuzione”.

Questione che – come già sopra si è constatato – la corte territoriale non affronta a proposito dell’analogo motivo d’appello, effettuando anzi, con una sorta di scorciatoia logica, una sua trasformazione: se l’imputata, quale legale rappresentante della società loro datrice di lavoro, aveva pagato gli stipendi ai lavoratori (si ricordi che l’argomento difensivo era stato addotto come pagamento di “mezzi di sostentamento necessari” ai dipendenti e alle loro famiglie, ma, dopo averlo riportato, la corte territoriale lo ha modificato, affermando che l’imputata aveva ammesso di aver pagato gli stipendi “al fine di assicurare la continuità aziendale”: in motivazione, pagina 8), si deve escludere “che la stessa si sia trovata in una situazione di assoluta impossibilità di adempiere debito d’imposta”.

Se così fosse stato, la questione allora si sarebbe incentrata sulla forza maggiore, che veniva così fattualmente esclusa dalla corte territoriale; ma la difesa veicolata nel motivo d’appello riguardava l’elemento psicologico, come d’altronde la stessa corte poco ‘prima aveva esposto (“motivo con il quale si afferma la mancanza di dolo da parte della 7aniboni”: motivazione, pagina 8). Non può non ricordarsi che per integrare il reato in questione è sufficiente il dolo generico (S. U. 28 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, cit., in motivazione; Cass. sez. III, 26 maggio 23:10 n. 23875, ric. Olivieri); quest’ultimo, tuttavia, proprio in quanto dolo non può essere scisso dalla consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà.

La piena consapevolezza della illiceità della condotta che si pone in essere non può, in effetti, mancare nei dolo in un reato come quello in esame, fattispecie propria di chi assume ex lege la funzione di sostituto d’imposta, funzione di assoluto rilievo nel sistema fiscale: e non a caso la sentenza Schirosi rafforza tale constatazione, a ben guardare, laddove poi osserva che “la scelta di non pagare prova il dolo”: il che significa che il dolo non viene integrato dall’omesso pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole, appunto, della illiceità della condotta rappresentata dall’omesso pagamento. La corte territoriale, invece, non ha considerato tale profilo, attestandosi su una “porzione” al negativo dell’elemento oggettivo del reato – la carenza di forza maggiore impeditiva della condotta – ovvero sulla prova, che ha reputato raggiunta nelle modalità sopra evidenziate, che sussisteva la liquidità per effettuare il versamento. Avrebbe, invece, dovuto accertare in modo completo la fattispecie criminosa, ovvero anche in relazione all’elemento soggettivo, non potendo a priori escludere che la convinzione che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione (non di somme di denaro di per sé, bensì: di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie, se realmente fosse stata propria della imputata e se realmente l’avesse indotta a pagarli a costo di omettere il versamento delle ritenute, fosse stata nel caso concreto compatibile con il dolo del reato in questione, ovvero con una contestuale consapevolezza di illiceità. In conclusione, il motivo deve essere accolto in quanto la corte territoriale non ha correttamente applicato l’articolo 10 bis d.lgs.74/2000 in relazione al necessario completo accertamento della fattispecie criminosa come disegnata dalla suddetta norma; pertanto deve essere annullata la sentenza con rinvio ad altra sezione della stessa corte territoriale”.

 

Corte di Cassazione Sentenza n. 6737 del 12 febbraio 2018

sul ricorso proposto da:

Z.V. N. IL 14/04/1971 avverso la sentenza n. 2524/2015 CORTE APPELLO di BRESCIA, del 31/01/2017

visti gli atti, la sentenza e il ricorso udita in PUBBLICA UDIENZA del 23/11/2017 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. F. Baldi- che ha concluso per il rigetto del ricorso

Udito, per la parte civile, l’Avv. /

Uditi difensor Avv. /

RITENUTO IN FATTO

1.Con sentenza del 31 gennaio 2017 la Corte d’appello di Brescia, a seguito di appello proposto da V. Z. avverso sentenza del 23 giugno 2015 con cui il gip del Tribunale d Bergamo l’aveva condannata alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di cui all’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000 – per avere omesso, quale legale rappresentante di Lupini Targhe S.p.A., di versare le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti entro il termine per presentare la dichiarazione annuale di sostituto d’imposta per il periodo di imposta 21.9, per un totale di € 873.371,95, in parziale riforma, riduceva la pena a un anno di reclusione e revocava la sospensione condizionale della pena.

  1. Ha presentato ricorso il difensore, sulla base di due motivi, il primo denunciante violazione di legge e vizio motivazionale e il secondo violazione di legge.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3 II ricorso è parzialmente fondato.

3.1 Il primo motivo del ricorso denuncia, in riferimento all’articolo 606, primo comma, lettere b) c .p.p., violazione dell’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000 e mancanza di contraddittorietà e logicità motivazionale.

Si adduce che nell’atto d’appello era stata lamentata l’assenza di ogni accertamento sull‘effettivo rilascio delle certificazioni di ritenute fiscali ai sostituiti per il periodo 2009, per cui, articolo 603 c.p.p., la corte territoriale aveva disposto l’acquisizione delle certificazioni sudette.

La ricorrente sostiene che “gli esiti di tale acquisizione sono riportati nell’annotazione dal Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Bergamo del 21 dicembre 2016 e nella successiva annotazione del 10 gennaio 2017”, a quest’ultima essendo allegate 214 copie da CUD dei dipendenti della società, come constatato nella sentenza impugnata.

La sentenza, fra l’altro, avrebbe poi fornito considerazioni “manifestamente erronee” sugli esiti della rinnovazione istruttoria, e ciò “alla luce del contenuto delle citate annotazioni della Guardia di Finanza”, da cui risulterebbero erogati redditi a favore di 247 persone, di cui 214 dipendenti e assimilati nonché 33 lavoratori autonomi, laddove la corte si sarebbe limitata a rilevare che erano state allegate 214 copie dei CUD dei dipendenti senza considerare la mancata acquisizione di 33 certificazioni di ritenute relative a redditi di lavoro autonomo e di provvigioni, che avrebbero dovuto essere detratte dall’importo complessivo di C 873.371,95;

andavano altresì detratte le ritenute per 16 percettori di redditi di lavoro dipendente ed assimilati per cui “le certificazioni non erano state rilasciate dal sostituto d’imposta”. Quindi non si sarebbe correttamente verificata l’eventualità del non superamento della soglia di punibilità di € 150.000 per anno d’imposta; e comunque, anche se tale soglia non fosse stata oltrepassata, “il trattamento sanzionatorio avrebbe potuto essere ridimensionato”.

A quanto si è appena riassunto, emerge chiaramente che il motivo richiede una verifica sugli esitii fattuali dell’acquisizione disposta ai sensi dell’articolo 603 c.p.p. dal giudice d’appello, così perseguendo una revisione da parte del giudice di legittimità di quanto il giudice di merito ne ha tratto. Non viene realmente denunciata, pertanto, una violazione di legge, né la censura permane entro i confini del vizio motivazionale, bensì entra nella inammissibilità. Meramente ad abuntantiam, allora, si rileva che il giudice d’appello (motivazione, pagina 7) ha chiaramente precisato che la Guardia di Finanza aveva dato atto che “le certificazioni acquisite corrispodono ai soggetti percettori di reddito riportati nella dichiarazione del sostituto d ‘imposta predisposta dalla Società per l’anno di imposta 2009”.

Il secondo motivo denuncia, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., violazione degli articoli 10 bis d.lgs. 74/2000, 45 e 54 c.p. Il centro del motivo viene ad imperniarsi sull’attribuzione al giudice d’appello di errore di diritto escludendo che potesse mancare nel caso in esame l’elemento soggettivo necessario ad integrare la fattispecie da l’articolo 10 bis, sia sotto il profilo del non avere potuto l’imputata accantonare mensilmente gli importi delle ritenute dovute per il periodo di imposta 2009, essendo ella divenuta amministratrice il 25 febbraio 2010, sia perché, in sostanza, non poteva non incidere la crisi di liquidità in cui ella, divenuta amministratrice, aveva trovato la società, in quanto sarebbe incostituzionale ritenere punibile l’imprenditore “che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e alla conseguente retribuzione”. Nel caso in esame, quindi, mancherebbe l’elemento soggettivo e comunque l’antigiuridicità “per impossibilità di diversa condotta, nell’omissione compiuta dall’imputata Z. V., per indisponibilità della somma necessaria, quale causa di forza maggiore…o comunque causa di stato di necessità…in considerazione della necessità di assicurare ai dipendenti e alle loro famiglie la prosecuzione da l’attività lavorativa e il loro sostentamento (che effettivamente è stato garantito sino alla dichiarazione di fallimento, del 10. 10. 2013, richiesta in proprio)”. Quindi la corte territoriale avrebbe dovuto assolvere l’imputata per carenza di elemento soggettivo, considerato altresì che l’imputata non aveva alcuna disponibilità di patrimonio personale per adempiere all’obbligo tributario della società.

Premesso che, pur dopo avere percorso un iter in cui sono stati inseriti altri argomenti, come il mancato accantonamento, la forza maggiore e lo stato di necessità, il motivo sfocia comunque – e quindi in essa si circoscrive – nella questione della asserita carenza di elemento soggettivo, deve darsi atto che ciò trova ad abundantiam conferma, per così dire, esterna nell’identico nucleo del corrispondente motivo introdotto con il gravame di merito.

A proposito d quest’ultimo, la corte territoriale non aveva ritenuto configurabile la mancanza di dolo dell’imputata, limitandosi peraltro ad una generica invocazione di quella che definisce “ormai costante giurisprudenza di legittimità sul punto, che esclude la responsabilità dell’imprenditore solo in presenza di una crisi economica a lui non imputabile, e solo quando siano state adottate tutte le misure idonee a fronteggiare la crisi”, e aggiungendo peraltro il seguente rilievo: “Il fatto che la Z. abbia ammesso di avere avuto una alternativa e di avere scelto di pagare gli stipendi e le mensilità in corso al fine di assicurare la continuità aziendale, anziché provvedere al pagamento delle ritenute operate nel precedente anno d’imposta, esclude che la stessa si sia trovata in una situazione di assoluta impossibilità di adempiere al debito d’imposta”,

Non si può anzitutto non osservare che tale rilievo altera l’effettivo contenuto della difesa della imputata, così come poche righe prima sintetizzato proprio nella stessa motivazione (pagina 8): l’imputata, infatti, non aveva affermato “di avere scelto di pagare”, bensì che le era “parsa sinceramente obbligata”, tra le due opzioni – pagamento dei dipendenti e delle ritenute fiscali -, alla prima: e affermare di essersi ritenuti obbligati a fare una determinata non equivale, logicamente, ad ammettere di avere scelto di non fare una cosa diversa, perché l’adempimento di un dovere non coincide con una scelta, neppure se questa ha un oggetto diverso. E una ulteriore deformazione si rinviene, subito dopo, laddove la corte territoriale asserisce che la Z. aveva scelto di pagare “gli stipendi per le mensilità in corso – ;c:( al fine di assicurare la continuità aziendale”, mentre, ancora come riportato nella stessa pagina della motivazione, era emersa una sua dichiarazione nel senso di essersi ella sentita obbligata ad “assicurare ad oltre 200 persone e relative famiglie, ovvero ai dipendenti della Luini Targhe, i mezzi di sostentamento necessari, derivanti dalla loro attività lavorativa”.

3.2.2 La corte territoriale, comunque, dopo una semplice menzione dell’insegnamento di questa Suprema Corte, opera una ricostruzione della fattispecie penale non giuridicamente completa. Sorvolando la questione della sussistenza o meno, in concreto, di una crisi economica non imputabile e non affrontabile con misure idonee (sul punto, infatti, la corte esterna soltanto un rapido rilievo, senza indicare da che cosa risultasse che la Z. avesse mancato di provvedere quanto alla crisi della società, che peraltro dalla stessa motivazione della sentenza impugnata risulta essere stata avviata al concordato preventivo e nonostante questo non aver potuto sfuggire al fallimento) per argomentare, in realtà, soltanto tramite (come si è appena visto, non del tutto congruo) che il denaro per versare le ritenute era disponibile in quanto la Z. aveva ammesso di avere scelto di utilizzarlo per pagare i d pendenti della società. Da ciò, appunto, la corte territoriale desume che la Z. poteva (materialmente) adempiere al debito d’imposta, senza peraltro esaminare se una siffatta “scelta”, a suo avviso in sostanza confessata dalla Z., fosse realmente compatibile con il dolo della fattispecie criminosa. La giurisprudenza di questa Suprema Corte, dall’epoca in cui ha dovuto esaminare vari episodi di omesso versamento del debito d’imposta da parte di imprenditori la cui impresa veniva a trovarsi in una gravissima crisi di liquidità, e sovente persino sull’orlo del fallimento, ha riconosciuto che l’omesso versamento in una situazione di crisi simile può non integrare il reato, o sotto un profilo dell’elemento soggettivo o sotto il profilo della esimente rappresentata dalla forza maggiore: il problema, insorto da una globale situazione economica, era stato d’altronde ben percepito dalla dottrina, anche sulla scorta, ovviamente, delle prime pronunce della giurisprudenza di merito al riguardo. Prendendo le mosse, dunque, da un rigore, per così dire, di sistema che si era conformato in un’epoca economicamente opposta, in cui la sopravvenuta crisi di liquidità dell’impresa derivava ordinariamente dalla mala gestio del singolo imprenditore (e del quale gli ultimi fuochi, tra gli arresti massimati, sono ravvisabili in Cass. sez. 3, 12 giugno 2013 n. 37528, Corlianò, che espressamente esclude che la difficoltà finanziaria possa costituire forza maggiore in riferimento alla responsabilità per il reato di cui all’art. 10 bis d.lgs. 74/2000), questa Suprema Corte, alla luce di spiragli già creati da S.U. 23 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, ha successivamente aperto spazi di manovra, oscillando appunto, vista anche l’eterogeneità dei concreti casi esaminati, tra la soluzione rinvenibile nell’esimente e quella riconducibile, invece, all’elemento soggettivo (cfr., ex multis, Cass. sez. 3, 9 ottobre 2013-7 febbraio 2014 n. 5905, ric. Maffei, non massimata, cui fa riferimento anche il ricorso; Cass. sez. 3, 6 novembre 2013 n. 2614, ric. Saibene; Cass. sez. 3, :licerribre 2013-4 febbraio 2014 n. 5467, ric. Mercutello; Cass. sez. 3, 8 gennaio 2014 n. 15416, ric Tonti Sauro, non massimata; Cass. sez. 3, 11 dicembre 2014 n. 51436, ric. PM Sassari, non massimata; Cass. sez. 3, 21 gennaio 2015 n. 7429, ric. PM Potenza; Cass. sez. 3, 24 giugno 2014-25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, Cass. sez. 3, ric. Olivetto, 29 marzo 2017 n. 46459).

3.2.3 Non è il caso, peraltro, di approfondire giuridicamente al riguardo di entrambi i profili. Qual che qui rileva infatti è, indubbiamente, l’elemento soggettivo, poiché, come si è visto, il ricorso raggiunge l’acme delle sue argomentazioni nell’affermare (e a ciò implicitamente sottende anche la denuncia di un profilo di illegittimità costituzionale qualora non sia accolto quanto viene addotto) che il dolo non può sussistere in quanto, altrimenti, “non potrebbe che configurarsi un contrasto con la carta costituzionale laddove dovesse ritenersi la punibilità del soggetto imprenditore che omette il versamento delle ritenute fiscali, a causa di una crisi finanziaria e per far fronte ad improcrastinabili adempimenti verso altri creditori, quali i lavoratori dipendenti, pure tutelati dalla Costituzione, con particolare riferimento al diritto al lavoro e ala conseguente retribuzione”.

Questione che – come già sopra si è constatato – la corte territoriale non affronta a proposito dell’analogo motivo d’appello, effettuando anzi, con una sorta di scorciatoia logica, una sua trasformazione: se l’imputata, quale legale rappresentante della società loro datrice di lavoro, aveva pagato gli stipendi ai lavoratori (si ricordi che l’argomento difensivo era stato addotto come pagamento di “mezzi di sostentamento necessari” ai dipendenti e alle loro famiglie, ma, dopo averlo riportato, la corte territoriale lo ha modificato, affermando che l’imputata aveva ammesso di aver pagato gli stipendi “al fine di assicurare la continuità aziendale”: in motivazione, pagina 8), si deve escludere “che la stessa si sia trovata in una situazione di assoluta impossibilità di adempiere debito d’imposta”. Se così fosse stato, la questione allora si sarebbe incentrata sulla forza maggiore, che veniva così fattualmente esclusa dalla corte territoriale;

ma la difesa veicolata nel motivo d’appello riguardava l’elemento psicologico, come d’altronde la stessa corte poco ‘prima aveva esposto (“motivo con il quale si afferma la mancanza di dolo da parte della 7aniboni”: motivazione, pagina 8).

Non può non ricordarsi che per integrare il reato in questione è sufficiente il dolo generico (S. U. 28 marzo 2013 n.37425, ric. Favellato, cit., in motivazione; Cass. sez. III, 26 maggio 23:10 n. 23875, ric. Olivieri); quest’ultimo, tuttavia, proprio in quanto dolo non può essere scisso dalla consapevolezza della illiceità della condotta che viene investita dalla volontà.

Nella motivazione, la recente Cass. sez. 3, 24 giugno 2014-25 febbraio 2015 n. 8352, ric. Schirosi, qui citata, ha ben focalizzato questo profilo, oltrepassando la restrittività di Cass. sez. III, 26 maggio 2010 n. 25875, ric. Olivieri, appena citata – per cui il dolo sarebbe stato integrato dalla mera consapevolezza della condotta omissiva – tramite l’osservazione che nel reato de quo il dolo ‘è integrato dalla condotta omissiva attuata nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma anche un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato” .

La piena consapevolezza della illiceità della condotta che si pone in essere non può, in effetti, mancare nei dolo in un reato come quello in esame, fattispecie propria di chi assume ex lege la funzione di sostituto d’imposta, funzione di assoluto rilievo nel sistema fiscale: e non a caso la sentenza Schirosi rafforza tale constatazione, a ben guardare, laddove poi osserva che “la scelta di non pagare prova il dolo”: il che significa che il dolo non viene integrato dall’omesso pagamento di per sé, ma da una scelta consapevole, appunto, della illiceità della condotta rappresentata dall’omesso pagamento. La corte territoriale, invece, non ha considerato tale profilo, attestandosi su una “porzione” al negativo dell’elemento oggettivo del reato – la carenza di forza maggiore impeditiva della condotta – ovvero sulla prova, che ha reputato raggiunta nelle modalità sopra evidenziate, che sussisteva la liquidità per effettuare il versamento.

Avrebbe, invece, dovuto accertare in modo completo la fattispecie criminosa, ovvero anche in relazione all’elemento soggettivo, non potendo a priori escludere che la convinzione che i dipendenti necessitassero l’immediata corresponsione (non di somme di denaro di per sé, bensì: di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie, se realmente fosse stata propria della imputata e se realmente l’avesse indotta a pagarli a costo di omettere il versamento delle ritenute, fosse stata nel caso concreto compatibile con il dolo del reato in questione, ovvero con una contestuale consapevolezza di illiceità.

In conclusione, il motivo deve essere accolto in quanto la corte territoriale non ha correttamente applicato l’articolo 10 bis d.lgs.74/2000 in relazione al necessario completo accertamento della fattispecie criminosa come disegnata dalla suddetta norma; pertanto deve essere annullata la sentenza con rinvio ad altra sezione della stessa corte territoriale.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Brescia, altra sezione, per nuovo esame.

Così deciso in Roma il 23 novembre 2017

 

 

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