CASSAZIONE SENTENZE

Il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte

Reati tributari – Omesso versamento di imposte – Subaffitto di ramo d’azienda e trasferimento all’estero della sede legale della società – Sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca – Legittimità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40240 del 10 settembre 2018 in merito a un omesso versamento delle imposte ha stabilito che, pur riconoscendo al Fisco la possibile effettuazione di un pignoramento presso terzi, l’imprenditore che trasferisce beni altrove in modo che le Entrate non possano aggredire il suo patrimonio rischia una condanna per sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Gli Ermellini hanno ricordato che la responsabilità sussiste ogni qual volta l’Erario non può aggredire direttamente il patrimonio e si commette il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento quando, per sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto per un ammontare complessivo superiore a 50.000 euro, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva (art. 11, D.lgs. 74/2000).

Con tali motivazioni la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un manager, indebitato con il Fisco, che aveva affittato degli immobili a società estere nel tentativo di sottrarsi ai pagamenti. La prevalente giurisprudenza, con cui la Corte concorda, considera “oggetto giuridico” del reato in esame non il diritto di credito dell’Erario, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato all’Erario stesso.

La norma richiamata (art. 11, D.lgs. 74/2000 – Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) testualmente recita:” 1. E’ punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni.

  1. E’ punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di ottenere per sé o per altri un pagamento parziale dei tributi e relativi accessori, indica nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi per un ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila. Se l’ammontare di cui al periodo precedente è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.

Il richiamo in ambedue i commi della parola “chiunque” non deve fuorviare: si tratta, infatti, non di un reato “comune” ma di un reato proprio in quanto i potenziali soggetti attivi possono essere esclusivamente coloro i quali siano già qualificati come debitori d’imposta. Da aggiungere che la fattispecie di cui al comma due è stata definita come reato proprio a soggettività allargata, perché attuabile anche da persona diversa dal debitore.

Si tratta dunque di dolo specifico, dove la condotta è connotata dallo scopo essenziale di rendere inefficace, per sé o per altri, in tutto o in parte, la procedura di riscossione coattiva o di ottenere un pagamento inferiore delle somme complessivamente dovute: il fine è dunque quello di pregiudicare la pretesa erariale attraverso l’impoverimento reale o fittizio del patrimonio del debitore. Se si considera anche l’elemento oggettivo, la condotta può risultare nell’alienazione simulata o nel compiere altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni o nell’indicare, nella documentazione presentata ai fini della procedura di transazione fiscale, elementi attivi o passivi diversi da quelli reali. Il reato è considerato, di conseguenza, come un “pericolo concreto” poiché richiede semplicemente che l’atto simulato di alienazione o gli altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni siano idonei a impedire il soddisfacimento totale o parziale del credito tributario vantato dall’Erario.

Infine, va ricordato che la ratio della norma va rapportata al pericolo che la pretesa tributaria non trovi capienza nel patrimonio del contribuente/debitore e, più in generale, al principio costituzionale per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva.

Mentre la fattispecie di cui al primo comma non necessita più, per la sua integrazione, che sia iniziata una qualsiasi attività ispettiva da parte del Fisco nei confronti del contribuente, la fattispecie del comma successivo la presuppone, visto che richiama espressamente una procedura di transazione fiscale in atto.

Nel tornare al caso di specie, per la difesa le cessioni di quote e le mutate rappresentanze legali sono inidonee a compromettere l’esazione fiscale, trattandosi di fatti che non hanno efficacia causale in quanto l’Erario aggredisce le garanzie patrimoniali del debitore/persona giuridica a prescindere dall’identità dei soci e degli amministratori. La tesi non ha però convinto i Giudici di piazza Cavour, che hanno ritenuto che la possibilità di intervenire pignorando i beni presso terzi non esclude certamente la sussistenza del reato in capo al manager, in considerazione del fatto che il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte si realizza quando è impossibile aggredire direttamente il patrimonio di colui che ha il debito con l’Erario.

Conclude la Corte.” … È noto l’indirizzo di questa Corte, autorevolmente avallato da Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, secondo il quale il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, non va individuato nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, bensì nella somma di denaro la cui sottrazione all’Erario viene perseguita attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust, Rv. 265036; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza, Rv. 262754; Sez. 3, n. 33184 del 12/06/2013, Abrusci, Rv. 256850, nonché nn. 33185, 33186, 33187, 33188 del 2013 non massimate; cfr., altresì, la più recente Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016, Tornasi Canovo, Rv. 265843, secondo cui la confisca per equivalente, disposta in relazione al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 attuato mediante atti fraudolenti o simulati compiuti sui beni di una società dichiarata fallita, non può riguardare somme superiori all’effettivo profitto conseguito, quantificato decurtando dal valore del patrimonio sottratto le somme recuperate dal fisco a seguito delle cessioni di ramo d’azienda e dei versamenti effettuati dall’imputato). Tuttavia, l’eventualità che il debito tributario equivalga al valore dei beni sottratti non può essere esclusa, ed in tal caso può certamente sostenersi che il profitto può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036). Contempla espressamente tale eventualità la citata Sez. 3, n. 40534 del 2015. Orbene, il ricorrente non deduce alcunché sulla non corrispondenza del valore dei beni sottratti al debito tributario. Secondo quanto si legge nell’ordinanza impugnata, non contestata in parte qua dal ricorrente, il tema del profitto del reato confiscabile era stato affrontato sotto l’esclusivo profilo della mera insussistenza della sottrazione tout court. L’ultimo motivo è manifestamente infondato. Il reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, è reato di pericolo; ne consegue che per individuarne il momento di consumazione può farsi riferimento al primo momento di realizzazione della condotta finalizzata ad eludere le pretese del fisco (Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648). Nel caso di specie, correttamente il luogo di consumazione è stato individuato in quello nel quale sono stati deliberati gli atti dispositivi dei beni aziendali, certamente in grado di porre in pericolo l’interesse tutelato dalla norma. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 10 settembre 2018, n. 40240

 

Sul ricorso proposto da P.L.T. nato a BASILEA (SVIZZERA) il 19/03/1952

avverso l’ordinanza del 28/07/2017 del TRIB. LIBERTA’ di MILANO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere LUCA SEMERARO;

sentite le conclusioni del PG MARILIA DI NARDO

Il P.G. conclude: inammissibilità del ricorso.

Ritenuto in fatto

  1. Con l’ordinanza del 28 luglio 2017, il Tribunale del riesame di Milano ha confermato il decreto di sequestro preventivo emesso il 29 giugno 2017 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano.

Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto sussistente il fumus del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv. cod. pen., 11 d.lgs. n. 74 del 2000, ed ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla confisca dei beni mobili ed immobili nella disponibilità di P.L.T. fino alla concorrenza dell’importo di € 4.753.084,67, equivalente al profitto del reato.

Secondo l’ipotesi accusatoria P.L.T., quale amministratore di fatto e di diritto delle società «O.C.L.» e «O.C.L.», al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dovute da entrambe per importi pari a complessivi € 1.885.222,50 la prima, e complessivi € 2.867.862,42 la seconda, con contratto stipulato lo stesso giorno (il 31 ottobre 2014) aveva subaffittato le rispettive aziende alla società «L.I. S.r.l.», a lui riconducibile; aveva quindi trasferito la sede legale di entrambe le società a Malta il 26 novembre 2014), le aveva poi cancellate dal registro delle imprese il 20 gennaio 2015.

  1. Il difensore di P.L.T. ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del 28 luglio 2017 del Tribunale del riesame di Milano.

2.1. Con il primo motivo la difesa ha dedotto la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. per motivazione apparente.

Rileva la difesa che il Tribunale del riesame, nell’affermare la sussistenza del fumus, ha ritenuto la natura fraudolenta, finalizzata all’ostacolo alla riscossione, delle cessioni di quote societarie di O.C.L. e O.C.L., dei cambiamenti delle relative rappresentanze legali, della stipula di contratti di subaffitto di rami d’azienda, dello spostamento delle sedi sociali a Malta con la cancellazione delle aziende dal registro delle imprese italiane.

Per la difesa, le cessioni di quote e le mutate rappresentanze legali sono inidonee a compromettere l’esazione fiscale; per la difesa si tratta di fatti che non hanno efficacia causale in quanto l’Erario aggredisce le garanzie patrimoniali del debitore/persona giuridica a prescindere dall’identità dei soci e degli amministratori.

2.2. Con il secondo motivo la difesa ha dedotto la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. per omessa motivazione. Premette la difesa che il Tribunale del riesame di Milano ha ritenuto che i contratti di subaffitto, il trasferimento delle sedi all’estero e la contestuale cancellazione dal registro delle imprese italiane costituiscano atti fraudolenti compiuti per ostacolare la riscossione dei canoni di subaffitto, impedendo il recupero forzoso delle imposte.

Per la difesa l’erario avrebbe potuto incamerare in Italia i canoni destinati alle due società trasferite all’estero e cancellate dal registro delle imprese italiane mediante il pignoramento presso terzi a carico della subaffittuaria L.I. s.r.l.

La difesa ha eccepito che il Tribunale del riesame ha omesso di valutare l’atto di pignoramento presso terzi, allegato dalla difesa al riesame, effettivamente eseguito da Equitalia all’indirizzo di L.I. s.r.l. per il credito spettante ad O.C.L..

La difesa ha altresì osservato che il mancato pagamento dei canoni dovuti ad O.C.L. è avvenuto proprio per effetto del pignoramento, sicché dal mancato pagamento non può dedursi l’ineffettività dei contratti di subaffitto. La mancata valutazione dell’atto di pignoramento inficia dunque la motivazione del Tribunale del riesame di Milano.

2.3. Con il terzo motivo la difesa ha dedotto la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen. per l’omessa motivazione e la violazione di legge per errata applicazione dell’art. 11 del d.lgs. 74/2000.

Per la difesa, il Tribunale del riesame di Milano non ha motivato sulla tesi difensiva per la quale la stipula del contratto di subaffitto di ramo d’azienda tra le società debitrici del Fisco, O.C.L. ed O.C.L., e L.I. s.r.l. non integra il reato in contestazione perché non costituisce sottrazione all’esazione tributaria, avendo ad oggetto un complesso di beni estranei al patrimonio delle contribuenti perché di proprietà di T.G..

Ritiene poi che sia insussistente la motivazione laddove il Tribunale del riesame di Milano ha ritenuto che il modus operandi sia una replica di iniziative già poste in essere da T.G. s.r.l. con l’affitto del medesimo ramo d’azienda a O.C.L. ed O.C.L., perché non si dimostra se i negozi costituiscano atti fraudolenti finalizzati a sottrarre risorse al Fisco.

Per la difesa, il Tribunale del riesame ha fatto erronea applicazione dell’art. 11 d.lgs. 74/2000, assumendo che il delitto sussisterebbe comunque dal momento che gli atti fraudolenti propri della condotta ben potrebbero compendiarsi su beni altrui, quindi anche sull’azienda di T.G. s.r.l.

Secondo la difesa l’art. 11, quando fa riferimento ai beni altrui, si riferisce al legale rappresentante della persona giuridica/contribuente che agisce sui beni di quest’ultima ma non propri ma non ai beni di terzi.

Ricorda la difesa che l’azienda traslata attraverso il contratto di subaffitto a L.I. s.r.l, non appartiene alle debitrici O.C.L. ed O.C.L. ma a T.G. s.r.l., terza estranea rispetto al credito vantato dalla Agenzia delle Entrate.

2.4. Con il quarto motivo la difesa ha dedotto la violazione degli artt. 11 e 12 bis d.lgs. 74 del 2000 in relazione all’individuazione del profitto del reato confiscabile anche per equivalente, ritenuto dal Tribunale del riesame pari all’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto da O.C.L. ed O.C.L. per € 4.753.084,67.

Per la difesa l’assunto è erroneo poiché l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non è il credito del fisco ma la garanzia rappresentata dai beni dell’obbligato.

La difesa ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite n. 10561/2014 (Gubert), secondo cui «il profitto confiscabile, anche nelle forme per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 D. Lgs. 74 del2000, va individuato non nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, ma nella riduzione simulata o fraudolenta del patrimonio su cui il fisco ha diritto di soddisfarsi e, quindi, nella somma di denaro la cui sottrazione all’erario viene perseguita, non importa se con esito favorevole o meno, attesa la struttura di pericolo del reato».

La difesa ha richiamato le sentenze che hanno confermato tale linea interpretativa, non in contrasto con la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Adami richiamata dal Tribunale del riesame.

Per la difesa, non è stato sottratto all’esazione nessun bene perché l’azienda subaffittata apparteneva a T.G. s.r.l., terzo estraneo alle pretese azionabili dall’Erario; i canoni di subaffitto appannaggio delle contribuenti trasferite all’estero erano pignorabili (e sono stati pignorati) alla fonte sul territorio nazionale presso L.I. s.r.l. in qualità di terza debitrice. Pertanto, conclude la difesa, la condotta non ha generato alcun profitto.

2.5. Con il quinto motivo la difesa ha dedotto la violazione degli artt. 8 cod. proc. pen., 11 d.lgs. 74/2000 e 125 cod. proc. pen. per contraddittorietà della motivazione. Per la difesa, il Tribunale del riesame di Milano ha erroneamente ritenuto la consumazione del delitto e la competenza territoriale a Milano, in base al luogo in cui si sono tenute le assemblee dei soci che hanno deliberato il trasferimento delle sedi sociali all’estero poiché tali verbali costituiscono atti dispositivi. Il Tribunale del riesame di Milano ha ritenuto invece che gli atti di cancellazione intervenuti a Vercelli non sarebbero atti dispositivi e quindi non radicano la competenza territoriale.

Ritiene però la difesa che la cancellazione dal registro delle imprese di una persona giuridica è un atto dispositivo in quanto compiuto con la precisa volontà di produrre un determinato effetto giuridico, quello di estinguere la società. Per la difesa, l’art. 11 d.lgs. 74/2000 parla indistintamente di atto fraudolento senza alcuna differenza tra atto giuridico e materiale. Per la difesa, la motivazione è contraddittoria perché in tema di fumus hanno annoverato tra gli atti fraudolenti la cancellazione dal registro delle imprese di O.C.L. ed O.C.L.. Ritiene pertanto la difesa che l’ordinanza debba essere cassata sussistendo la competenza per territorio del Tribunale di Vercelli.

Considerato in diritto

  1. Va premesso che la Corte di Cassazione con la sentenza del 17 novembre 2017 n. 14607/2018 ha già deciso il ricorso proposto da P.L.T., in qualità di legale rappresentante della società «L.I. s.r.l.», dichiarando inammissibile il ricorso.

Il ricorso da cui nasce il presente processo risulta essere stato presentato dal difensore di P.L.T., in proprio, nella sua qualità di indagato e non quale legale rappresentante, ma si fonda sugli stessi identici motivi già oggetto della sentenza della Corte di Cassazione del 17/11/2017 n. 14607/2018.

Devono pertanto ribadirsi le argomentazioni già espresse dalla Corte di Cassazione, riportate ai punti successivi, e la conseguente dichiarazione di inammissibilità del ricorso.

  1. Il primo motivo è manifestamente infondato.

L’argomento secondo il quale il Tribunale si sarebbe rifugiato in una motivazione di natura apparente per disattendere le doglianze difensive in ordine alla effettiva sussistenza degli indizi del reato ipotizzato non considera il fatto che, diversamente da quanto eccepito, l’ordinanza valorizza (anche) i costituti fattuali dell’imputazione provvisoria così come compendiati in premessa (il subaffitto di azienda, il trasferimento di azienda, la cancellazione delle due società). V’è da aggiungere, piuttosto, che il ricorrente neglige completamente l’ulteriore circostanza, pur riportata nell’ordinanza impugnata, che la subaffittuaria, «L.I. S.r.l.», non aveva corrisposto alcun canone di affitto alla «O.C.L.» e che la cancellazione delle due società debitrici aveva impedito la riscossione dei canoni di affitto ed il recupero forzoso delle relative somme.

  1. Anche il secondo motivo è totalmente infondato.

3.1. Sia sufficiente ribadire quanto già affermato in sede di esame del primo motivo circa l’inadempimento della subaffittuaria e l’impossibilità materiale di recuperare forzosamente le somme presso le società ormai trasferite all’estero e cancellate dal registro delle imprese (art. 2495, cod. civ.).

3.2. In ogni caso, la possibilità di pignorare presso terzi il credito maturato dal contribuente inadempiente non esclude la sussistenza del reato per il quale si procede soprattutto quando tale rimedio consegue all’impossibilità di aggredire direttamente il patrimonio del debitore erariale fraudolentemente spogliato.

Il delitto di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 ha, infatti, natura di reato di pericolo concreto (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio ex ante – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771; Sez. 3, n. 23986 del 05/05/2011, Pascone, Rv. 250646; Sez. 3, n. 40561 del 04/04/2012, Soldera, Rv. 253400). Ciò perché il riferimento alla procedura esecutiva appartiene al momento intenzionale e non alla struttura del fatto e non vi è alcun riferimento alle condizioni previste precedentemente dall’art. 97, comma sesto, del d.P.R n. 602 del 1973, come modificato dall’art. 15, comma quarto, della legge n. 413 del 1991 (ovvero alla avvenuta effettuazione di accessi, ispezioni o verifiche, o alla preventiva notificazione, all’autore della condotta fraudolenta, di inviti, richieste o atti di accertamento) (Sez. 5, n. 7916 del 10/01/2007, Cutillo, Rv. 236053). Il reato, dunque, sussiste a prescindere dalla fondatezza della pretesa erariale e dagli esiti, eventualmente favorevoli per il contribuente, del contenzioso avente ad oggetto la pretesa erariale stessa.

3.3. Non v’è dubbio che l’impossibilità di aggredire direttamente il patrimonio della società, ormai trasferita all’estero, rende più difficoltosa l’azione recuperatoria, anche se esercitabile mediante pignoramento presso terzi, soprattutto quando tale credito non è in grado di soddisfare la pretesa erariale. Tuttavia, le deduzioni difensive sono, sul punto, decisamente generiche e non considerano che il pignoramento presso terzi non è soltanto uno strumento sostitutivo o surrogatorio del pignoramento presso il debitore principale, ma anche aggiuntivo.

  1. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.

La lettura dell’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, secondo cui «è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni» (comma 1), non autorizza l’interpretazione che ne fa il ricorrente secondo il quale l’altruità della cosa si riferisce al solo caso del bene di proprietà dell’ente/persona giuridica di cui egli sia il legale rappresentante. Egli non considera che il pignoramento può avere ad oggetto l’azienda che sia nella disponibilità del debitore, essendo riservate le controversie relative alla proprietà dei relativi beni ad una fase giurisdizionale successiva (art. 58, d.P.R. n. 602 del 1973).

  1. Il quarto motivo è generico.

5.1. È noto l’indirizzo di questa Corte, autorevolmente avallato da Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014, Gubert, secondo il quale il profitto, confiscabile anche nella forma per equivalente, del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 74 del 2000, non va individuato nell’ammontare del debito tributario rimasto inadempiuto, bensì nella somma di denaro la cui sottrazione all’Erario viene perseguita attraverso l’atto di vendita simulata o gli atti fraudolenti posti in essere (Sez. 3, n. 40534 del 06/05/2015, Trust, Rv. 265036; Sez. 3, n. 10214 del 22/01/2015, Chiarolanza, Rv. 262754; Sez. 3, n. 33184 del 12/06/2013, Abrusci, Rv. 256850, nonché nn. 33185, 33186, 33187, 33188 del 2013 non massimate; cfr., altresì, la più recente Sez. 3, n. 4097 del 19/01/2016, Tornasi Canovo, Rv. 265843, secondo cui la confisca per equivalente, disposta in relazione al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di cui all’art. 11 d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 attuato mediante atti fraudolenti o simulati compiuti sui beni di una società dichiarata fallita, non può riguardare somme superiori all’effettivo profitto conseguito, quantificato decurtando dal valore del patrimonio sottratto le somme recuperate dal fisco a seguito delle cessioni di ramo d’azienda e dei versamenti effettuati dall’imputato).

5.2. Tuttavia, l’eventualità che il debito tributario equivalga al valore dei beni sottratti non può essere esclusa, ed in tal caso può certamente sostenersi che il profitto può, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. U, n. 18374 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036). Contempla espressamente tale eventualità la citata Sez. 3, n. 40534 del 2015.

5.3. Orbene, il ricorrente non deduce alcunché sulla non corrispondenza del valore dei beni sottratti al debito tributario. Secondo quanto si legge nell’ordinanza impugnata, non contestata in parte qua dal ricorrente, il tema del profitto del reato confiscabile era stato affrontato sotto l’esclusivo profilo della mera insussistenza della sottrazione tout court.

  1. L’ultimo motivo è manifestamente infondato.

6.1. Il reato di cui all’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000, è reato di pericolo; ne consegue che per individuarne il momento di consumazione può farsi riferimento al primo momento di realizzazione della condotta finalizzata ad eludere le pretese del fisco (Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648). Nel caso di specie, correttamente il luogo di consumazione è stato individuato in quello nel quale sono stati deliberati gli atti dispositivi dei beni aziendali, certamente in grado di porre in pericolo l’interesse tutelato dalla norma.

  1. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. si condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza «versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», si condanna altresì il ricorrente al pagamento della somma di euro 2.000,00, determinata in via equitativa, in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso il 21/06/2018.

 

 

 

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