CASSAZIONE

Il giudice tributario deve motivare l’annullamento della pretesa erariale

Tributi – Reddito d’impresa – Accertamento – Indagini bancarie – Processo tributario – Impugnazione-merito

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16731 del 25 giugno 2018, ha ricordato che il giudice tributario, dinanzi a un’invalidità sostanziale o parziale dell’atto impugnato, è tenuto a una riquantificazione della pretesa e non alla semplice rimozione totale dell’atto stesso.

Gli Ermellini hanno sostenuto, fra l’altro, che secondo la ormai pacifica giurisprudenza dello stesso giudice di legittimità, il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato ma a una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, anche con verifica delle movimentazioni bancarie dei conti correnti riconducibili all’interessato, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto a esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte.

Peraltro, si ricorda che le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono (mai) rilevabili d’ufficio dal giudice, né possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di Cassazione (Cass. sez. 5^ n. 18448-2015).

Il dettato normativo di riferimento dei controlli bancari/ finanziari si rinviene, per le imposte dirette, nell’art. 32, co. 1, nn. 2), 5) e 7), DPR 600/1973, e per l’IVA nell’art. 51, co. 2, DPR 633/1972, così come modificati dai co. 402, 403 e 404, dell’art. 1, L. 311/2004 e dalle norme introdotte dall’art. 37, co. 4 e 5, DL 223/2006, convertito con modificazioni dalla L. 248/2006. Inoltre, il DL 203/2005, convertito con modifiche dalla L. 248/2005, ha ampliato i poteri istruttori poiché consente all’Amministrazione finanziaria di utilizzare la documentazione acquisita dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’accertamento delle imposte sulla produzione e sui consumi, presso gli istituti di credito e l’amministrazione postale, ai fini dell’accertamento delle imposte dirette e dell’IVA.

In forza di tali norme gli elementi risultanti dal conto corrente sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza per lo stesso fine. Per questa ragione i prelevamenti, oltre che i versamenti, si considerano ricavi tassabili ai fini delle imposte sul reddito qualora non sia indicato il beneficiario o non si abbia riscontro nelle scritture contabili tenute dal contribuente.

E’ comunque un principio di diritto consolidato che in tema di indagini finanziarie l’invito al contribuente a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari costituisce per l’ufficio finanziario una mera facoltà da esercitarsi in piena discrezionalità, e non un obbligo. Dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva, quindi, alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti, né degrada a presunzione semplice la presunzione legale posta dalla norma che consente di riferire i movimenti bancari all’attività svolta dal contribuente, gravando su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria.

Controlli bancari e finanziari rappresentano una delle più incisive modalità d’indagine a disposizione dell’Agenzia delle Entrate e della Guardia di Finanza e possono combinarsi con le modalità sintetiche di determinazione del reddito soprattutto laddove risulta difficile procedere a una ricostruzione fondata sui dati economici di un’attività “ufficiale”.

Tale modalità istruttoria può essere adottata sia nelle operazioni propriamente definibili di polizia tributaria, sia in quelle di polizia giudiziaria, eseguite nell’ambito di istruttorie penali riguardanti varie ipotesi criminose. In ambito fiscale esse traggono tutta la propria forza dall’operare di presunzioni legali relative, e dunque dall’inversione dell’onere della prova, posta a carico dei soggetti controllati.

Anche le sentenze della Cassazione emanate nel corso degli ultimi anni, che investono la questione dell’obbligatorietà o meno di ascoltare il contribuente, giungono unanimemente a una medesima conclusione: non è necessario il preventivo contraddittorio con il contribuente per la contestazione delle risultanze bancarie/ finanziarie.

La norma fiscale prevede che le risultanze dei controlli sono poste a base delle rettifiche, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono a operazioni imponibili, senza che le stesse debbano essere necessariamente e preventivamente contestate al contribuente.

Tanto premesso e tornando al caso in trattazione, una contribuente produceva appello contro la sentenza dei giudici tributari regionali che avevano annullato il giudizio di primo grado a lei favorevole. La contribuente chiedeva, in buona sostanza, che tale giudizio venisse annullato per difetto assoluto di motivazione, in violazione dell’art. 36 D.lgs. 546/1992.

I giudici del Palazzaccio non accoglievano tale tesi, ricordando che: “ … invero, la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha affermato che «ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento» (Cass. n. 1756 del 2006, n. 16736 del 2007, n. 9105 del 2017); ipotesi, queste, che non ricorrono nel caso in esame, in quanto la CTR ha esposto in motivazione una chiara ratio decidendi; al riguardo deve, peraltro, osservarsi che l’obbligo motivazionale nel caso di accertamenti bancari, come quelli posti a base della pretesa fiscale in esame, risente necessariamente, da un lato, della presunzione legale “juris tanum” posta dagli artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 d.P.R. n. 633 del 1972 (che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito e addebito riscontrato sul conto corrente del medesimo) e, dall’altro, dei principi giurisprudenziali in materia secondo i quali, posta la predetta presunzione e la conseguente inversione dell’onere della prova, spetta al contribuente fornire non una prova generica, ma una prova analitica, che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014); ne consegue, che solo in tal caso il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, dandone adeguata contezza in motivazione, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017);

– che, nel caso di specie, a fronte di una situazione in cui l’amministrazione finanziaria aveva ridotto la pretesa fiscale applicando i medesimi criteri utilizzati per l’anno di imposta 2009 (ovvero, non considerando i prelievi pari ed inferiori a 500,00 euro, le movimentazioni riconciliabili con la contabilità della ditta, nonché le operazioni effettuate dalla contribuente sul conto della madre e considerando le operazioni effettuate sul conto cointestato con il coniuge soltanto nella misura del 50 per cento) e non risultando che la contribuente avesse offerto prove dirette a superare quella presunzione legale, la motivazione dei giudici di appello ben poteva limitarsi a rilevare tali evenienze e a confermare l’atto impositivo, senza che ciò potesse essere interpretato, come invece erroneamente sostiene la ricorrente, come acritica condivisione dei «criteri operati dall’Ufficio» e, specialmente, senza necessità di «esplicitare le ragioni di tale incondizionata adesione», perché rinvenibile nel dettato normativo;

– che con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione dell’art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992, sostenendo che l’Agenzia delle entrate in grado di appello aveva insistito «per la conferma dell’avviso di accertamento annullato dalla CTP di Lodi, ma alla luce di una intervenuta rideterminazione del volume d’affari dell’attività della contribuente» (ricorso pag. 11), in tal modo introducendo nel giudizio presupposti di fatto nuovi, in violazione della disposizione censurata;

– che, ricordato preliminarmente il principio secondo cui il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, come tale diretto ad una decisione sostitutiva dell’accertamento dell’Ufficio (cfr. Cass. n. 13294 del 2016, n. 24611 del 2014 e n. 26157 del 2013), cosicché ove il giudice di merito ritenga l’atto impositivo solo in parte fondato, deve ricondurre la pretesa tributaria, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, il motivo in esame è inammissibile in quanto la ricorrente non ha interesse a contestare la riduzione della pretesa impositiva anche ove effettuata mediante l’introduzione nel giudizio di secondo grado di nuovi presupposti di fatto”.

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 25 giugno 2018, n. 16731

 

Sul ricorso iscritto al n. 8521/2017 R.G. proposto da:

  1. L., rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dagli avv.ti Federico VENERI e Vincenzo SPARANO ed elettivamente domiciliata in Roma, al corso Vittorio Emanuele II, n. 154, presso lo studio legale del secondo difensore;

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5045/29/2016 della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, depositata il 3/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/05/2018 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Rilevato

– che, in controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento di maggiori redditi di impresa ai fini IVA, IRPEF ed IRAP per il periodo d’imposta 2008, emersi dalla verifica delle movimentazioni bancarie dei conti correnti intestati e comunque riconducibili alla contribuente L.D., titolare della ditta individuale “C.”, esercente l’attività di istituto di bellezza, la CTR accoglieva l’appello dell’Ufficio avverso la sentenza di primo grado che aveva annullato l’atto impositivo, rideterminando comunque in diminuzione l’entità delle somme riprese a tassazione;

– che avverso la predetta statuizione ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, la ricorrente nei confronti dell’Agenzia delle entrate che replica con controricorso;

– che sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale la ricorrente ha depositato memoria;

– che il Collegio ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata;

Considerato

– che il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione, in violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546 del 1992, è infondato e va rigettato;

– che, invero, la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha affermato che «ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento» (Cass. n. 1756 del 2006, n. 16736 del 2007, n. 9105 del 2017); ipotesi, queste, che non ricorrono nel caso in esame, in quanto la CTR ha esposto in motivazione una chiara ratio decidendi; al riguardo deve, peraltro, osservarsi che l’obbligo motivazionale nel caso di accertamenti bancari, come quelli posti a base della pretesa fiscale in esame, risente necessariamente, da un lato, della presunzione legale “juris tanum” posta dagli artt. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 d.P.R. n. 633 del 1972 (che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito e addebito riscontrato sul conto corrente del medesimo) e, dall’altro, dei principi giurisprudenziali in materia secondo i quali, posta la predetta presunzione e la conseguente inversione dell’onere della prova, spetta al contribuente fornire non una prova generica, ma una prova analitica, che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014); ne consegue, che solo in tal caso il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, dandone adeguata contezza in motivazione, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. 21800 del 2017);

– che, nel caso di specie, a fronte di una situazione in cui l’amministrazione finanziaria aveva ridotto la pretesa fiscale applicando i medesimi criteri utilizzati per l’anno di imposta 2009 (ovvero, non considerando i prelievi pari ed inferiori a 500,00 euro, le movimentazioni riconciliabili con la contabilità della ditta, nonché le operazioni effettuate dalla contribuente sul conto della madre e considerando le operazioni effettuate sul conto cointestato con il coniuge soltanto nella misura del 50 per cento) e non risultando che la contribuente avesse offerto prove dirette a superare quella presunzione legale, la motivazione dei giudici di appello ben poteva limitarsi a rilevare tali evenienze e a confermare l’atto impositivo, senza che ciò potesse essere interpretato, come invece erroneamente sostiene la ricorrente, come acritica condivisione dei «criteri operati dall’Ufficio» e, specialmente, senza necessità di «esplicitare le ragioni di tale incondizionata adesione», perché rinvenibile nel dettato normativo;

– che con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione dell’art. 57 d.lgs. n. 546 del 1992, sostenendo che l’Agenzia delle entrate in grado di appello aveva insistito «per la conferma dell’avviso di accertamento annullato dalla CTP di Lodi, ma alla luce di una intervenuta rideterminazione del volume d’affari dell’attività della contribuente» (ricorso pag. 11), in tal modo introducendo nel giudizio presupposti di fatto nuovi, in violazione della disposizione censurata;

– che, ricordato preliminarmente il principio secondo cui il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, come tale diretto ad una decisione sostitutiva dell’accertamento dell’Ufficio (cfr. Cass. n. 13294 del 2016, n. 24611 del 2014 e n. 26157 del 2013), cosicché ove il giudice di merito ritenga l’atto impositivo solo in parte fondato, deve ricondurre la pretesa tributaria, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, il motivo in esame è inammissibile in quanto la ricorrente non ha interesse a contestare la riduzione della pretesa impositiva anche ove effettuata mediante l’introduzione nel giudizio di secondo grado di nuovi presupposti di fatto;

– che, in sintesi, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo;

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.

 

 

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