SENTENZE

Il contribuente deve provare la non imponibilità dei movimenti bancari

Tributi – Accertamento induttivo – Indagini bancarie – Ingenti movimenti sproporzionati rispetto all’attività e ai redditi dichiarati

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4153 del 2 marzo 2016, intervenendo in tema di accertamenti bancari, ha stabilito che il giudice ha l’obbligo di motivare adeguatamente sul perché abbia ritenuto assolto l’onere probatorio gravante sul contribuente.

I supremi giudici tornano così ad esprimersi sulla corretta applicazione della presunzione in materia di indagini bancarie ricordando che compete al contribuente, nei confronti del quale la presunzione di redditività delle movimentazioni bancarie non giustificate è destinata ad operare, provare che esse non rappresentino attività imponibili. L’intestatario del conto corrente deve quindi fornire ogni adeguata informazione sui movimenti considerati sospetti dal fisco e il Giudice non può considerare illegittimo l’accertamento basandosi solo sulla prova dell’esistenza di rapporti d’affari tra il contribuente e alcune aziende.

Gli Ermellini hanno ugualmente dichiarato che il principio per cui il giudice di merito, laddove ritenga assolto dal contribuente l’onere probatorio a suo carico, ha l’obbligo di fornire una motivazione adeguata e non generica a supporto del proprio convincimento.

Nello specifico, l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la decisione della CTR, giustificando che i giudici di appello avevano erroneamente ritenuto che l’ente impositore dovesse giustificare l’idoneità di ogni singola movimentazione in entrata a costituire fonte di un’attività occulta, “dal momento che in base alle citate disposizioni nessuna ulteriore prova doveva fornire l’ufficio, mentre era a carico del contribuente la dimostrazione dell’irrilevanza dei movimenti rispetto alla sua attività economica”. Così come parimenti era erroneo il loro convincimento che il contribuente, spiegando che le movimentazione anzidette costituivano solo anticipazioni nei confronti di terzi che poi provvedevano a rimborsarlo e prendendo atto dell’equivalenza tra i movimenti in entrata e quelli in uscita, avesse assolto all’onere probatorio in parola, “nonostante la normativa sopra richiamata imponesse una prova rigorosa a carico del contribuente per escludere che i movimenti sui suoi conti non costituissero ricavi occulti”.

E infatti il giudice di merito aveva formulato il suo giudizio senza soppesare convenientemente gli elementi contrari che l’Agenzia aveva presentato. Il Giudice aveva ignorato questi elementi, ritenendo semplicemente che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova dimostrando l’esistenza di rapporti d’affari con alcune aziende, prove che non potevano essere considerate esaustive e che hanno inficiato il giudizio della CTR, evidentemente generico e non adeguatamente motivato.

In particolare la CTR aveva ritenuto che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova dimostrando l’esistenza di rapporti d’affari con le aziende beneficiate, ritenendo che: “… tutti i prelievi come assegni, nonostante risultassero diverse modalità di prelievo” ed abbiano dato “per scontata una equivalenza degli importi versati e prelevati limitata invece a due soli esempi su centinaia”.

I versamenti e i prelevamenti operati sui conti correnti dell’imprenditore rappresentano peraltro la base per gli accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini bancarie, se questi non dimostra di averne tenuto conto nella determinazione del reddito imponibile e del volume d’affari o che tali operazioni attengono a fatti fiscalmente irrilevanti (art. 32, comma 1, n. 2, DPR 600/1973, e art. 51, comma 2, n. 2, DPR 633/1972). È un principio solido in giurisprudenza che, in tema di accertamenti bancari, opera una presunzione legale relativa, per cui spetta al contribuente fornire una prova adeguata e rigorosa al fine di giustificare i movimenti finanziari riscontrati di sede di verifica (cfr Cassazione 25884/2013, 2895/2013 e 16650/2011). Le presunzioni legali relative – peraltro molto diffuse in ambito tributario – sono proprio quelle in cui la prova del fatto ignoto è data per assunta dalla legge. L’onere della prova si sposta in capo al contribuente, che dovrà dimostrare la non veridicità del fatto ignoto presunto per legge. Le presunzioni legali si distinguono dalle presunzioni semplici, che per aver dignità di prova devono presentare i requisiti di gravità, precisione e concordanza e dalle presunzioni semplicissime, valide anche in assenza dei predetti requisiti (come quelle operanti nell’accertamento induttivo o d’ufficio).

Ad ogni buon conto si ricorda che in tale materia la costante giurisprudenza della Corte (v. le pronunzie n. 16650/2011, 13516/2008 e 14847/2008) afferma che la prova contraria, che il contribuente può fornire, è formata nell’analitica dimostrazione dell’irrilevanza di ciascuna operazione finanziaria riscontrata, non potendo risultare sufficienti profili probatori generici.

Nel caso esaminato la Cassazione, ignorando l’inversione dell’onere della prova, ha affermato che: “… Come è noto il vizio di motivazione in guisa di insufficienza della stessa è, secondo un comune insegnamento di diritto vivente, configurabile qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza, sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (SS.UU. 24148/13). Nella specie è innegabile la sussistenza di esso nel ragionamento del giudice di appello, essendo costui pervenuto a formulare il proprio giudizio in ordine alla illegittimità della ripresa operata dall’ufficio senza minimamente soppesare i contrari elementi di valutazione che a fondamento della propria pretesa l’Agenzia appellante aveva nuovamente rappresentato nel proprio atto di gravame, facendo segnatamente rilevare che il pronunciamento del primo giudice meritava di essere riformato anche con riferimento al rilievo in parola; e ciò in ragione del fatto che “il M. non aveva individuato alcuna provenienza delle somme” oggetto di verifica in quanto movimentazioni ingiustificate e “che i soli in due casi portati ad esempio della tesi secondo cui vi era solo un transito di assegni rispetto alle centinaia di operazioni complessive non dimostravano alcunché, visto che non si indicava chi avesse eseguito le operazioni né altri elementi identificativi”. Avendo ignorato queste allegazioni ed avendo semplicemente ritenuto che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova dimostrando l’esistenza di rapporti d’affari con le aziende beneficiate la CTR ha espresso un giudizio generico e non adeguatamente motivato che impone la cassazione della decisione da essa adottata.

Non ricorre al contrario nella specie l’ulteriore doglianza formulata sotto il profilo motivazionale dalla ricorrente, posto, infatti, che il vizio di contraddittorietà della motivazione, secondo la costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità, “presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata” (14024/14; 10879/14; 10341/14). Nulla di tutto ciò è riscontrabile nel caso in esame, poiché le circostanze – fonte a giudizio dell’Agenzia del vizio in parola – che i giudici d’appello abbiano qualificato “tutti i prelievi come assegni, nonostante dal p.v. 24.2.2003 risultassero diverse modalità di prelievo” ed abbiano dato “per scontata una equivalenza degli importi versati e prelevati limitata invece a due soli esempi su centinaia” rafforzano semmai la denuncia in punto di insufficienza motivazionale del pronunciamento impugnato, ma non ne minano l’interna coerenza logica, contrapponendo affermazioni inconciliabili sul piano razionale che ne rendano imperscrutabile la ratio ispiratrice e ne rendano perciò doverosa la cassazione”.

È dunque legittimo l’accertamento dell’Agenzia delle Entrate.

bancario

Corte di Cassazione

Sentenza 2 marzo 2016, n. 4153

Svolgimento del processo

  1. L’Agenzia delle Entrate notificava a M. G. cinque distinti avvisi di accertamento con cui, recependo le risultanze di pregresse indagini di polizia tributaria e, segnatamente, quanto emerso in sede di verifica bancaria sui conti correnti riconducibili al medesimo, procedeva a rettificare, in relazione agli ingenti movimenti registrati sotto la voce avere, che risultavano del tutto sproporzionati rispetto all’attività e ai redditi dichiarati, le dichiarazioni IVA, IRPEF ed IRAP della parte per gli anni dal 1998 al 2002, determinando le imposte evase e perciò dovute con le debite maggiorazioni per interessi e sanzioni.

Avverso la sentenza di primo grado, che aveva totalmente accolto i ricorsi riuniti del contribuente, l’ufficio dispiegava appello avanti alla CTR Lazio che lo accoglieva solo in parte, confermando viceversa la sentenza di primo grado in relazione alle attività ricostruite in base alle movimentazioni bancarie.

Era avviso della CTR, nell’occasione, che “l’ente impositore non avesse giustificato per ogni singolo accreditamento transitato sul conto la relazione esistente tra l’operazione eseguita dal sig. M. ed il movimento finanziario rilevato, non fornendo in tal modo elementi utili per individuare le entrate collegate ad effettivi incrementi reddituali”. Peraltro, osservava ancora il giudice territoriale, il contribuente aveva spiegato che “i movimenti avere del conto corrispondevano a restituzione di anticipazioni” eseguite per conto di aziende di suo interesse, tanto che dalla dinamica delle poste a debito ed a credito registrate sul conto, nonché dall’equivalenza degli importi dare ed avere, “si arguiva che si trattava di assegni emessi dal M. per effettuare pagamenti per conto di terzi che poi venivano rimborsati entro breve termine dai rispettivi percettori”.

La cassazione di detta sentenza è ora chiesta dall’Agenzia delle Entrate con un ricorso affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso il M.

Motivi della decisione

2.1. Con il primo ed il secondo motivo di ricorso l’Agenzia impugnante si duole ex art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., dell’errore di diritto consumato dalla CTR nell’applicazione degli artt. 32, comma primo, n. 2, D.P.R. 600/73 e 51, comma secondo, n. 2, D.P.R. 633/72, avendo i giudici di appello erroneamente ritenuto che l’ente impositore dovesse giustificare l’idoneità di ogni singola movimentazione in entrata a costituire fonte di un’attività occulta, “dal momento che in base alle citate disposizioni nessuna ulteriore prova doveva fornire l’ufficio, mentre era a carico del contribuente la dimostrazione dell’irrilevanza dei movimenti rispetto alla sua attività economica”(primo motivo); così come parimenti era erroneo il loro convincimento che il M., spiegando che le movimentazione anzidette costituivano solo anticipazioni nei confronti di terzi che poi provvedevano a rimborsarlo e prendendo atto dell’equivalenza tra i movimenti in entrata e quelli in uscita, avesse assolto all’onere probatorio in parola, “nonostante la normativa sopra richiamata imponesse una prova rigorosa a carico del contribuente per escludere che i movimenti sui suoi conti non costituissero ricavi occulti” (secondo motivo).

2.2. Il primo motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi, mentre il secondo è infondato.

Invero, previamente ricordato che il carattere vincolato che assume nel nostro ordinamento il giudizio di cassazione impone che il ricorso sia veicolato attraverso uno dei motivi tassativamente previsti dall’art. 360 c.p.c. e che nell’esposizione del motivo trovino espressione le ragioni del dissenso, formulate in termini tali da soddisfare esigenze di specificità, di completezza e di riferibilità alla decisione impugnata proprie del mezzo azionato e, insieme, da costituire una critica precisa e puntuale e, dunque, pertinente delle ragioni che ne hanno indotto l’adozione, nella specie la censura che la parte muove alla decisione impugnata con il primo motivo non intercetta la ragione che ne ha ispirata l’adozione. Eppur vero che la CTR ha stigmatizzato l’operato dell’ufficio per non aver fornito elementi utili per individuare le entrate collegate ad effettivi incrementi reddituali, così, peraltro, incorrendo palesemente nel denunciato errore di diritto laddove mostra di disattendere il consolidato insegnamento di questa Corte secondo cui le norme citate sono fonte di una presunzione legale (2895/13; 16650/11; 14675/06) a favore dell’erario e generano perciò un inversione nell’onere della prova (18081/10; 4589/09; 7766/08), poiché compete al contribuente, nei confronti del quale la presunzione di redditività delle movimentazioni bancarie non giustificate è destinata ad operare, provare che esse non rappresentano attività imponibili. Tuttavia nel far questo la decisione d’appello non si è arrestata a questo unico rilievo, ritenendo sic e simpliciter che la rilevata carenza probatoria dell’assunto fatto valere dall’ufficio ne caducasse la pretesa e si opponesse perciò anche in parte qua all’accoglimento dell’appello da esso dispiegato. Diversamente, dando ulteriore svolgimento al proprio ragionamento, essa ha invece posto l’accento sull’ulteriore fatto – che vale a ristabilire la legittimità del dictum – che il ricorrente “ha dimostrato l’esistenza di rapporti d’affari ma soprattutto di comuni interessi commerciali con dette azienda”, in tal modo correggendo la pregressa statuizione in punto di prova, ma pure chiarendo che, in adesione alla vista interpretazione della disposizione, è decisiva la circostanza che il ricorrente abbia nella specie a suo giudizio puntualmente assolto l’onere probatorio su di esso incombente a fronte della presunzione di imponibilità stabilita dall’art. 32, comma primo, n. 2, D.P.R. 600/73 e dall’art. 51, comma secondo, n. 2, D.P.R. 633/72.

Dunque l’errore di diritto censurato con il primo motivo non intacca la legittimità della decisione, perché ragione della giudicata infondatezza della pretesa erariale è la dimostrazione offerta dalla parte che le rilevate movimentazioni bancarie contestate con gli impugnati accertamenti costituiscono attività giustificate dai suoi rapporti d’affari con le aziende che ne beneficiano, il che rende conseguentemente infondato l’errore di diritto denunciato con il secondo motivo.

3.1. Con il terzo motivo di ricorso è opinione della ricorrente Agenzia che la CTR sia venuta meno, per gli effetti dell’art. 360, comma primo, n. 5 c.p.c., anche all’obbligo di motivare sufficientemente o senza incorrere in contraddizione il proprio deliberato in ordine all’assolvimento dell’onere probatorio gravante nella specie sul contribuente, dal momento che l’appellante aveva fatto valere “che il M. non aveva individuato alcuna provenienza delle somme” e che i soli due casi portati ad esempio “non dimostravano alcunché visto che non si indicava chi avesse eseguito le operazioni né altri elementi identificativi” e che era altresì palese la contraddizione in cui erano incorsi i giudici di appello “qualificando tutti i prelievi come assegni nonostante dal p.v. risultassero diverse modalità di prelievo” e “dando per scontata una equivalenza degli importi versati e prelevati limitata invece a due soli esempi su centinaia” di movimenti privi di giustificazione.

3.2. Il motivo è fondato quanto al lamentato vizio di insufficiente motivazione, mentre si rivela privo di fondamento riguardo al pure lamentato vizio di contraddittorietà.

Come è noto il vizio di motivazione in guisa di insufficienza della stessa è, secondo un comune insegnamento di diritto vivente, configurabile qualora dal ragionamento del giudice di merito, come risultante dalla sentenza, sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento (SS.UU. 24148/13).

Nella specie è innegabile la sussistenza di esso nel ragionamento del giudice di appello, essendo costui pervenuto a formulare il proprio giudizio in ordine alla illegittimità della ripresa operata dall’ufficio senza minimamente soppesare i contrari elementi di valutazione che a fondamento della propria pretesa l’Agenzia appellante aveva nuovamente rappresentato nel proprio atto di gravame, facendo segnatamente rilevare che il pronunciamento del primo giudice meritava di essere riformato anche con riferimento al rilievo in parola; e ciò in ragione del fatto che “il M. non aveva individuato alcuna provenienza delle somme” oggetto di verifica in quanto movimentazioni ingiustificate e “che i soli in due casi portati ad esempio della tesi secondo cui vi era solo un transito di assegni rispetto alle centinaia di operazioni complessive non dimostravano alcunché, visto che non si indicava chi avesse eseguito le operazioni né altri elementi identificativi”. Avendo ignorato queste allegazioni ed avendo semplicemente ritenuto che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova dimostrando l’esistenza di rapporti d’affari con le aziende beneficiate la CTR ha espresso un giudizio generico e non adeguatamente motivato che impone la cassazione della decisione da essa adottata.

Non ricorre al contrario nella specie l’ulteriore doglianza formulata sotto il profilo motivazionale dalla ricorrente, posto, infatti, che il vizio di contraddittorietà della motivazione, secondo la costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità, “presuppone che le ragioni poste a fondamento della decisione risultino sostanzialmente contrastanti in guisa da elidersi a vicenda e da non consentire l’individuazione della ratio decidendi, e cioè l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione adottata” (14024/14; 10879/14; 10341/14).

Nulla di tutto ciò è riscontrabile nel caso in esame, poiché le circostanze – fonte a giudizio dell’Agenzia del vizio in parola – che i giudici d’appello abbiano qualificato “tutti i prelievi come assegni, nonostante dal p.v. 24.2.2003 risultassero diverse modalità di prelievo” ed abbiano dato “per scontata una equivalenza degli importi versati e prelevati limitata invece a due soli esempi su centinaia” rafforzano semmai la denuncia in punto di insufficienza motivazionale del pronunciamento impugnato, ma non ne minano l’interna coerenza logica, contrapponendo affermazioni inconciliabili sul piano razionale che ne rendano imperscrutabile la ratio ispiratrice e ne rendano perciò doverosa la cassazione.

Accolto dunque parzialmente il terzo motivo di ricorso, la sentenza va perciò cassata e la causa ai sensi dell’art. 383, comma primo, c.p.c. va rinviata al giudice territoriale competente per il doveroso riesame.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso cassa l’impugnata sentenza e rinvia avanti alla CTR Lazio che in altra composizione provvederà pure alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

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