CASSAZIONE FISCALITA

I ricavi degli appalti rientrano nell’anno del condono solo se i lavori sono stati ultimati

Tributi – Rettifica – Accertamento – Condono tombale ex art. 9 L. n. 289/2002 – Regolarizzazione delle scritture contabili

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32958 del 20 dicembre 2018, intervenendo in tema di determinazione del reddito d’impresa ha ricordato, prima in via generale, che le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito – dettate dall’art. 75, DPR 22 dicembre 1986 n. 917 (TUIR) – sono tassative e inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito a un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come “esercizio di competenza”.

Pertanto, con riferimento al reddito d’impresa beneficiato dal condono (come nel caso in esame), solo i corrispettivi dei lavori ultimati e sui quali vi sia stata accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del collaudo, “per facta concludentia” o per accettazione tacita, concorrono alla formazione del reddito d’impresa nell’anno di competenza così individuato per legge, secondo quanto stabilito nell’art. 1665, commi 2 e 3, c.c.

Come è noto, la legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modificazioni, al capo II, recante “Disposizioni in materia di concordato”, ha previsto, tra l’altro, agli artt. 8, 9 e 14, particolari misure finalizzate ad agevolare la definizione delle situazioni pregresse e delle pendenze in materia di imposte sui redditi, imposta regionale sulle attività produttive, imposta sul valore aggiunto, imposta sul patrimonio netto. La definizione comporta l’esclusione della punibilità per i reati indicati dall’art. 9, comma 10, nei limiti e alle condizioni ivi previsti. L’esclusione non si applica in caso di esercizio dell’azione penale della quale il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la data di presentazione della dichiarazione.

Il legislatore della Finanziaria 2003 ha ritenuto di dare la possibilità, ai contribuenti interessati, di effettuare alcune rettifiche di tali scritture. La disciplina relativa è contenuta nell’art. 14 della citata legge n. 289 che consente, appunto, di far emergere le spese relative alle immobilizzazioni immateriali non riportate nel bilancio d’esercizio, ovvero di indicare le rimanenze per un importo inferiore tenendo conto del fatto che il contribuente ha effettuato, durante i periodi d’imposta oggetto di regolarizzazione, la vendita di una parte di esse senza emettere la corrispondente fattura.

Dalla disciplina indicata nell’art. 14 conseguono sostanzialmente due effetti: uno di tipo fiscale, l’altro civilistico.

L’effetto fiscale è correlato alla redazione di un apposito prospetto, finalizzata a ottenere il riconoscimento fiscale dei nuovi valori attivi e passivi in esso specificati.

Come chiarito dall’Agenzia delle entrate (circolare n. 12/E del 21 febbraio 2003, paragrafo 9.1 ove vengono esaminati gli effetti fiscali delle dichiarazioni integrative) “se il contribuente non individua analiticamente nel prospetto gli elementi attivi e passivi correlati agli imponibili integrati, la dichiarazione integrativa non può avere effetti sui periodi d’imposta successivi e non consente alcuna regolarizzazione delle scritture contabili”. Tale precisazione è rilevante perché la regolarizzazione delle scritture contabili determina solo effetti civilistici ed è fondata sui dati indicati nel prospetto stesso. Il prospetto, quindi, è l’unico mezzo per ottenere il riconoscimento fiscale dei nuovi valori, indipendentemente dall’avvenuta regolarizzazione delle scritture contabili.

Tanto premesso e seguendo un orientamento affermato da principi consolidati, espressi in materia dalla Suprema Corte (Cass. n. 23725 del 21/10/2013 e n. 26665 del 18/12/2009), i giudici di piazza Cavour hanno voluto riaffermare anche nel caso di specie che, in tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili sia per il contribuente sia per l’ufficio finanziario e, pertanto, il recupero a tassazione dei ricavi nell’esercizio di competenza non può trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio.

In sostanza la Suprema Corte, accogliendo così il ricorso delle Entrate, afferma che: “Come chiarito da questa Corte già a partire dal condono degli anni ‘90 (sul punto, Cass. n. 25621 del 17/12/2010), non possono essere eliminate le rimanenze risultanti al 31 dicembre dell’anno oggetto di condono, in quanto si tratta di un’operazione che si riferisce al bilancio dell’anno successivo, non ricompreso nella disposizione agevolativa atteso che quest’ultima, proprio per la sua natura, è insuscettibile di interpretazione estensiva. La “fictio” scaturente dal condono, non tocca la necessaria veridicità sostanziale (e non formale) dei bilanci successivi e quindi la necessità che le rimanenze iniziali siano comunque rettificate e riportate “a vero” nell’esercizio 2003, mediante l’apposito prospetto ex art. 14 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che, redatto in forma libera, deve essere conservato, ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fino al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello durante il quale è stata presentata la dichiarazione integrativa. Nel caso di specie, quindi, esso andava conservato fino al 31 dicembre 2007 ed esibito o trasmesso all’amministrazione finanziaria su richiesta dell’ufficio competente che ha la possibilità di procedere all’accertamento sino a tale data”.

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 20 dicembre 2018, n. 32958

 

Sul ricorso iscritto al n. 24513/2011 R.G. proposto da

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12

– ricorrente –

Contro T.B. S.pA., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Castro Pretorio 122, presso lo studio dell’avv. Andrea Russo, che la rappresenta e difende giusta procura speciale notaio Armando Santus

-controricorrente-

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 125/64/11, depositata il 14 giugno 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16 novembre 2018 dal Consigliere Valeria Piccone;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Stanislao De Matteis che ha concluso chiedendo accogliersi il ricorso;

udito l’avv. Roberta Guizzi per la parte ricorrente;

udito l’avv. Tonio di Iacovo, per delega dell’avv. Russo, per la parte controricorrente

Ritenuto in fatto

  1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 14 giugno 2011, che, confermando la decisione di primo grado, aveva respinto l’appello avverso la decisione di accoglimento del ricorso della T. S.p.A., con cui erano state impugnate le rettifiche relative alle rimanenze iniziali del 2003, i costi non di competenza del medesimo anno e i ricavi non contabilizzati per il 2002, alla luce del condono cui la contribuente aveva aderito, ai sensi della legge n. 289 del 2002.

Il ricorso è affidato a tre motivi.

  1. Resiste con controricorso la T. S.p.A.

Considerato in diritto

  1. Con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione degli artt. 9 L. n. 289 del 2002 e 93 TUIR.

Deduce l’Ente impositore, a sostegno della domanda, che l’adesione al condono c.d. “tombale” ex art. 9 L. n. 289/2002 non implica l’impossibilità per l’Ufficio di disconoscere dati non veri e riportati, ex art. 93 TUIR da un anno all’altro (nelle specie, dal 2002 al 2003) senza che ciò abbia effetto per il 2002 (definito per il condono) ma solo per il 2003, e ciò in virtù del carattere di norma “eccezionale” dell’art. 9, non estensibile ad anni non compresi dalla definizione agevolata; conseguentemente, la CTR avrebbe dovuto esaminare il PVC e decidere se il ricalcolo delle rimanenze iniziali e finali del 2003 fosse “accettabile”.

1.1. Il motivo è fondato.

Come chiarito da questa Corte già a partire dal condono degli anni ‘90 (sul punto, Cass. n. 25621 del 17/12/2010), non possono essere eliminate le rimanenze risultanti al 31 dicembre dell’anno oggetto di condono, in quanto si tratta di un’operazione che si riferisce al bilancio dell’anno successivo, non ricompreso nella disposizione agevolativa atteso che quest’ultima, proprio per la sua natura, è insuscettibile di interpretazione estensiva.

La “fictio” scaturente dal condono, non tocca la necessaria veridicità sostanziale (e non formale) dei bilanci successivi e quindi la necessità che le rimanenze iniziali siano comunque rettificate e riportate “a vero” nell’esercizio 2003, mediante l’apposito prospetto ex art. 14 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, che, redatto in forma libera, deve essere conservato, ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fino al 31 dicembre del quarto anno successivo a quello durante il quale è stata presentata la dichiarazione integrativa. Nel caso di specie, quindi, esso andava conservato fino al 31 dicembre 2007 ed esibito o trasmesso all’amministrazione finanziaria su richiesta dell’ufficio competente che ha la possibilità di procedere all’accertamento sino a tale data.

  1. Con il secondo motivo parte ricorrente deduce insufficiente motivazione in ordine alla censura relativa ai costi.

Osserva l’Agenzia, nel passaggio dedicato a tale motivo, che non è sufficiente la “precisazione” della parte che le prestazioni fatturate come acconti erano state già eseguite e di competenza del 2003, occorrendo la prova e non una semplice affermazione su punto.

Con il terzo motivo si deducono la violazione dell’art. 88 TUIR e dell’art. 9 L. n. 289 del 2002 asserendo che l’introito da transazione per lavori eseguiti e non pagati è una tipica sopravvenienza attiva che va tassata per cassa e, quindi, nel momento in cui si realizza che è un esercizio successivo a quello in cui sono stati sostenuti i costi, talché non può essere ritenuto un ricavo relativo all’anno 2002 e, perciò, non tassabile.

Entrambi i motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per l’intima connessione, sono fondati.

2.2. La CTR trascura, infatti, di coordinare il criterio di imputazione per competenza (Su cui, cfr. Cass. n. 23725 del 21/10/2013 con l’art. 1665 e con l’art. 1666 cod. civ., che rendono il corrispettivo esigibile solo con l’accettazione di opere ultimate o di singole partite – senza che rilevi il pagamento di acconti.

Osserva questa Corte al riguardo (sul punto, Cass. n. 26665 del 18/12/2009) che in tema di determinazione del reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come “esercizio di competenza”. Pertanto, con riferimento ai contratti di appalto, concorrono alla formazione del reddito d’impresa, in un periodo determinato, esclusivamente i ricavi per i corrispettivi dei lavori ultimati, ovverosia di quelli in ordine ai quali sia intervenuta l’accettazione del committente, derivante dalla positiva esecuzione del collaudo o conseguente all’espressione, per “facta concludentia”, di una volontà incompatibile con la mancata accettazione (accettazione tacita), secondo quanto stabilito nell’art. 1665, secondo e terzo comma cod. civ.

  1. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere accolto e la causa rinviata alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2018.

 

 

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