CASSAZIONE

Gli atti devono essere comunicati al “domicilio digitale” degli Avvocati

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17048 dell’11 luglio 2017, è tornata sul tema relativo alla validità o meno della notifica degli atti in Cancelleria nel caso che la parte non abbia eletto domicilio nel Comune dove si trova l’ufficio giudiziario davanti al quale è pendente il giudizio, stabilendo il seguente principio di diritto: “Ciascun avvocato è munito di un proprio ‘domicilio digitale’, conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta

elettronica certificata (INI-PEC) e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al Ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici”.

Con l’introduzione del domicilio digitale previsto dall’art. 16-sexies del decreto legge 18 ottobre 2012 n. 170, come modificato dal decreto legge 24 giugno 2014 n. 90, convertito in legge con modificazioni dalla legge 11 agosto 2014 n. 114, non è più possibile procedere alle comunicazioni o alle notificazioni presso la Cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa, anche nell’ipotesi in cui il destinatario non abbia eletto domicilio nel Comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale è pendente il giudizio, salvo che oltre alla suddetta omissione è impossibile accedere all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario per cause imputabili a quest’ultimo.

Ne consegue, secondo i Supremi giudici, che la domiciliazione ex lege presso la Cancelleria è attualmente prevista solo in via residuale e soltanto nel caso in cui le comunicazioni o le notificazioni delle cancellerie e delle parti private non possono eseguirsi presso il domicilio telematico per motivi imputabili al destinatario.

Con l’avvento del processo civile telematico e con il conseguente varo del D.M. 44/2011, è stato previsto che le Cancellerie hanno l’obbligo di effettuare le comunicazioni all’avvocato all’indirizzo di posta elettronica certificata come risultante dal ReGIndE.

L’art. 16, comma 1, del D.M. 44/2011, peraltro così dispone: “La comunicazione per via telematica dall’ufficio giudiziario ad un soggetto abilitato esterno o all’utente privato avviene mediante invio di un messaggio dall’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio giudiziario mittente all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, indicato nel registro generale degli indirizzi elettronici, ovvero per la persona fisica consultabile ai sensi dell’articolo 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009 e per l’impresa indicato nel registro delle imprese, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34”.

La disposizione avverte che, “… salvo quanto previsto dall’articolo 366 del codice di procedura civile, quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui all’articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, nonché dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.

Inoltre, a supportare le decisioni degli Ermellini, ricordiamo che il citato decreto legge 24 giugno 2014, n. 90, ha aggiunto al Dl 18 ottobre 2012, n. 179, l’art. 16-sexies, rubricato ”Domicilio digitale”: l’indirizzo di posta elettronica certificata è pertanto “agganciato” in maniera univoca al codice fiscale del titolare.

Tornando al caso di specie, durante un giudizio di appello una delle parti eleggeva domicilio fuori dalla circoscrizione del suddetto ufficio. All’esito del giudizio l’altra parte provvedeva a notificare la sentenza presso la Cancelleria della Corte di Appello, in applicazione dell’art. 82 del Regio Decreto 22 gennaio 1934 n. 37, secondo il quale “I procuratori, i quali esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge fuori della circoscrizione del Tribunale al quale sono assegnati, devono, all’atto della costituzione nel giudizio stesso, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso. In mancanza della elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria”.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondata l’eccezione di tardività del ricorso per nullità della notifica della sentenza di appello presso la cancelleria della Corte territoriale e, quindi, inidonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, sulla scorta delle seguenti osservazioni: “In conclusione, oggi l’unico indirizzo di posta elettronica certificata rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato, una volta per tutte, al Consiglio dell’ordine di appartenenza. In tal modo, l’art. 125 cod. proc. civ. è stato allineato alla normativa generale in materia di domicilio digitale. Il difensore non ha più l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo di posta elettronica certificata, nè la facoltà di indicare uno diverso da quello comunicato al Consiglio dell’ordine o di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria. Il difensore deve indicare, piuttosto, il proprio codice fiscale; ciò vale come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID e consente, tramite il registro pubblico UNI-PEC, di risalire all’indirizzo di posta elettronica certificata. Resta invece fermo il contenuto dell’art. 366 cod. proc. civ., comma 2, che, limitatamente al giudizio di cassazione, che prevede la domiciliazione ex lege del difensore presso la cancelleria della Corte nel caso in cui non abbia eletto domicilio nel comune di Roma, nè abbia indicato il proprio indirizzo di posta elettronica. In conclusione, oggi ciascun avvocato è munito di un proprio “domicilio digitale”, conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al Ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici. Tale disciplina implica un considerevole ridimensionamento dell’ambito applicativo del R.D. n. 37 del 1934, art. 82. Infatti, come si è visto, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria è oggi prevista solamente nelle ipotesi in cui le comunicazioni o le notificazioni della cancelleria o delle parti private non possano farsi presso il domicilio telematico per causa imputabile al destinatario. Nelle restanti ipotesi, ovverosia quando l’indirizzo PEC è disponibile, è fatto espresso divieto di procedere a notificazioni o comunicazioni presso la cancelleria, a prescindere dall’elezione o meno di un domicilio “fisico” nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa. Residua, tuttavia, un ristretto margine di applicazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 82. Si tratta del caso in cui l’uso della PEC è impossibile per causa non imputabile al destinatario. In tale ipotesi, le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni degli atti vanno effettuate nelle forme ordinarie, ai sensi degli artt. 136 ss. cod. proc. civ.: solamente in tale eventualità assume rilievo – ai fini del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 cit., comma 2, – l’omessa elezione del domicilio “fisico” nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario.In conclusione, a seguito dell’introduzione dell’istituto del “domicilio digitale” previsto dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-sexies (così come modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi a cui pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25476-2015 proposto da:

LARIO IMPIANTI SRL, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore sig.ra F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RUGGERO FAURO 102, presso lo studio dell’avvocato ITALO ROMAGNOLI, rappresentata e difesa dall’avvocato LUCA FRANCESCO PEREGO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.G., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO FACCHINI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 679/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 19/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/12/2016 dal Consigliere Dott. COSIMO D’ARRIGO;

udito l’Avvocato LUCA FRANCESCO PEREGO;

udito l’Avvocato MARCO FRANCOLINI per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Lario Impianti s.r.l. propose opposizione avverso il decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale di Lecco le aveva ingiunto il pagamento, in favore di R.G., della somma di Euro 11.666,69, oltre interessi e spese di procedimento a titolo di canoni insoluti relativi al contratto di locazione intercorso tra le parti, avente ad oggetto un capannone industriale sito in (OMISSIS).

L’opponente dedusse che in base alle pattuizioni contrattuali l’immobile doveva “essere adibito dalla conduttrice ad uso artigianale-commerciale per la produzione, assemblaggio, stoccaggio di impianti per il sollevamento a terra ed in acqua di natanti in genere, nonchè commercializzazione e assistenza tecnica dei prodotti stessi”; che, avendo la necessità di effettuare all’interno dell’immobile alcuni interventi per renderlo confacente alle proprie esigenze commerciali, presentò al Comune di Garlate apposita richiesta; che il Comune non assentì all’intervento, in quanto in contrasto con le previsioni del P.R.G., posto che l’immobile risultava essere inserito all’interno di una zona ad esclusiva destinazione residenziale; che tale circostanza, sconosciuta prima di allora alla società conduttrice, integrava gli estremi dell’errore (o del dolo) idonei ad annullare il contratto di locazione; che, in via subordinata, era ravvisabile l’inadempimento di parte locatrice per l’inidoneità dell’immobile all’uso contrattuale; che aveva subito ingenti danni, riguardanti le spese sostenute per l’impianto dell’attività, rese vane dall’inutilizzabilità dell’immobile.

Nel giudizio si costituì il R., chiedendo la condanna dell’opponente all’adempimento del contratto con il pagamento dei canoni insoluti.

Il Tribunale di Lecco, con sentenza del 6 marzo 2013, revocò il decreto ingiuntivo oggetto di opposizione; condannò la parte opponente al pagamento in favore del R. dei canoni insoluti, da marzo ad agosto 2010, per complessivi 10.000,00, oltre interessi legali dalle singole scadenza al saldo; compensò tra le parti le spese di lite.

La decisione venne appellata dalla Lario Impianti s.r.l. Il R. chiese il rigetto dell’impugnazione e, in via incidentale, la condanna di Lario Impianti S.r.l. all’integrale esecuzione delle opere di manutenzione, miglioria e addizione descritte all’articolo 12 del contratto di locazione, ovvero, nel caso di rifiuto di eseguirle, all’integrale rifusione delle spese da sostenersi per farle realizzare da terzi, nonché al risarcimento dei danni conseguenti al mancato adempimento e al pagamento di tutti i canoni successivamente scaduti.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 19 marzo 2015, ha rigettato l’appello principale e, in parziale accoglimento di quello incidentale, ha condannato la Lario Impianti s.r.l. all’integrale esecuzione delle opere descritte all’art. 12 del contratto di locazione, salva rivalsa del R. per le spese eventualmente affrontate in surroga in caso di inottemperanza.

Contro tale decisione ricorre per la cassazione la Lario Impianti s.r.l., articolando tre motivi di censura. Il R. resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie difensive ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1.1. Occorre anzitutto esaminare l’eccezione di tardività del ricorso formulata dal controricorrente.

L’eventuale fondatezza della stessa, infatti, comporterebbe l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza impugnata e la questione del giudicato va esaminata per prima, in quanto investe l’esistenza stessa del potere decisorio (cfr. Sez. U, Sentenza n. 15612 del 10/07/2006, Rv. 590180; Sez. 2, Ordinanza n. 15362 del 10/06/2008, Rv. 603865).

Il R. deduce che la sentenza d’appello è stata notificata alla Lario Impianti s.r.l. presso la cancelleria della Corte d’appello di Milano in data 11 giugno 2015 e che, pertanto, il termine per proporre ricorso per cassazione sarebbe scaduto il successivo 10 settembre, laddove il ricorso è stato effettivamente notificato in data 22 ottobre 2015. La notificazione presso la cancelleria si giustificherebbe in considerazione dell’omessa elezione, da parte della Lario Impianti s.r.l., di domicilio in (OMISSIS).

La società ricorrente sostiene, invece, che la controparte non avrebbe potuto notificare la sentenza presso la cancelleria della corte d’appello, avendo l’onere di procedere alla notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata risultante in atti.

Il R. replica che, nell’atto di appello della Lario Impianti s.r.l., l’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore era indicato solamente quale recapito per le comunicazioni di cancelleria (“…quali recapiti cui la Cancelleria potrà effettuare tutte le comunicazioni previste dalla Legge”) e che questa espressa puntualizzazione escludeva la possibilità di utilizzare il recapito elettronico anche per le notificazioni a cura di parte.

1.2. L’eccezione è infondata.

Infatti, la notificazione della sentenza impugnata alla Lario Impianti s.r.l. presso la cancelleria della corte d’appello è nulla e, di conseguenza, è inidonea a determinare la decorrenza del termine per l’impugnazione previsto dall’art. 325 cod. proc. civ..

Il ricorso, notificato nei termini di cui all’art. 327 cod. proc. civ., è pertanto tempestivo.

1.3. La Lario Impianti s.r.l. ha eletto domicilio, ai fini del giudizio di appello, in Lecco.

Ricorrerebbero, dunque, le condizioni alle quali – ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82, comma 2, (Ordinamento delle professioni di avvocato e di procuratore) – la Lario Impianti s.r.l. avrebbe dovuto considerarsi domiciliata ex lege presso la cancelleria della Corte d’appello di Milano.

Sennonché la portata di tale disposizione in commento deve essere oggi raccordata con la disciplina del c.d. “domicilio telematico” e delle notificazioni a mezzo di posta elettronica certificata (PEC).

Le Sezioni unite hanno infatti osservato che, a partire dalla data di entrata in vigore delle modifiche degli artt. 125 e 366 cod. proc. civ., apportate dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 25, esigenze di coerenza sistematica e d’interpretazione costituzionalmente orientata inducono a ritenere che, nel mutato contesto normativo, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio, ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, consegue soltanto ove il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 cod. proc. civ. per gli atti di parte e dall’art. 366 cod. proc. civ. specificamente per il giudizio di cassazione, non abbia indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine (Sez. U, Sentenza n. 10143 del 20/06/2012, Rv. 622883).

1.4. Successive pronunce di questa Corte hanno tuttavia ridimensionato il rilievo della “elezione” (in senso improprio) del domicilio telematico. E’ stato affermato, infatti, che, mentre l’indicazione della PEC senza ulteriori specificazioni è idonea a far scattare l’obbligo del notificante di utilizzare la notificazione telematica, non altrettanto può affermarsi nell’ipotesi in cui l’indirizzo di posta elettronica sia stato indicato in ricorso per le sole comunicazioni di cancelleria (Sez. 6 – 3, Sentenza n. 25215 del 27/11/2014, Rv. 633275; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 2133 del 03/02/2016, Rv. 638920, in motivazione).

Alla stregua del citato orientamento, il R. non avrebbe avuto alcun onere di notificare la sentenza a mezzo di PEC, giacché il difensore della Lario Impianti s.r.l. aveva indicato il proprio indirizzo PEC solamente ai fini delle comunicazioni di cancelleria. Conseguentemente, la notificazione della sentenza presso la cancelleria della Corte d’appello di Milano sarebbe stata idonea a determinare il decorso del termine “breve” per l’impugnazione (art. 325 cod. proc. civ.).

Il citato orientamento traeva spunto dal tenore dell’art. 125 cod. proc. civ., comma 1, come modificato dal D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 2, comma 35-ter, convertito con modificazioni dalla L. 14 settembre 2011, n. 148 (c.d. Decreto sviluppo) secondo cui, negli atti di parte, “il difensore deve, altresì, indicare il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il proprio numero di fax”.

In epoca pressoché coeva, la L. 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012), ha modificato anche l’art. 366 cod. proc. civ., in tema di giudizio di cassazione, prevedendo che il ricorrente debba eleggere domicilio in Roma ovvero indicare in ricorso l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio ordine; in mancanza, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.

Questi interventi legislativi, evidentemente volti ad incentivare l’uso degli strumenti informatici nel processo civile, risultavano però scarsamente coordinati fra di loro e con le regole preesistenti in materia di notificazioni telematiche.

E’ in tale quadro normativo che si collocano le vicende processuali costituenti oggetto delle pronunce di questa Corte precedentemente citate.

1.5. Tali conclusioni, però, non sono più attuali.

Dopo tali pronunce, infatti, la disciplina delle notificazioni telematiche è stata ulteriormente modificata.

Anzitutto, l’art. 125 cod. proc. civ. è stato nuovamente rimaneggiato, ad opera del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45-bis, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari). La modifica è consistita, per l’appunto, nella soppressione dell’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo PEC del difensore.

Inoltre, il D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, ha aggiunto al D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221; c.d. Agenda digitale), l’art. 16-sexies, intitolato “Domicilio digitale”. La disposizione prevede che, “salvo quanto previsto dall’art. 366 cod. proc. civ., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”.

Il menzionato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis (Codice dell’amministrazione digitale) prevede l’istituzione, presso il Ministero per lo sviluppo economico, di un pubblico elenco denominato Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti. L’indirizzo di posta elettronica certificata è “agganciato” in maniera univoca al codice fiscale del titolare.

In conclusione, oggi l’unico indirizzo di posta elettronica certificata rilevante ai fini processuali è quello che il difensore ha indicato, una volta per tutte, al Consiglio dell’ordine di appartenenza.

In tal modo, l’art. 125 cod. proc. civ. è stato allineato alla normativa generale in materia di domicilio digitale. Il difensore non ha più l’obbligo di indicare negli atti di parte l’indirizzo di posta elettronica certificata, nè la facoltà di indicare uno diverso da quello comunicato al Consiglio dell’ordine o di restringerne l’operatività alle sole comunicazioni di cancelleria. Il difensore deve indicare, piuttosto, il proprio codice fiscale; ciò vale come criterio di univoca individuazione dell’utente SICID e consente, tramite il registro pubblico UNI-PEC, di risalire all’indirizzo di posta elettronica certificata.

1.6. Resta invece fermo il contenuto dell’art. 366 cod. proc. civ., comma 2, che, limitatamente al giudizio di cassazione, che prevede la domiciliazione ex lege del difensore presso la cancelleria della Corte nel caso in cui non abbia eletto domicilio nel comune di Roma, nè abbia indicato il proprio indirizzo di posta elettronica.

1.7. In conclusione, oggi ciascun avvocato è munito di un proprio “domicilio digitale”, conoscibile da parte dei terzi attraverso la consultazione dell’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC) e corrispondente all’indirizzo PEC che l’avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza e da questi è stato comunicato al Ministero della giustizia per l’inserimento nel registro generale degli indirizzi elettronici.

Tale disciplina implica un considerevole ridimensionamento dell’ambito applicativo del R.D. n. 37 del 1934, art. 82.

Infatti, come si è visto, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria è oggi prevista solamente nelle ipotesi in cui le comunicazioni o le notificazioni della cancelleria o delle parti private non possano farsi presso il domicilio telematico per causa imputabile al destinatario. Nelle restanti ipotesi, ovverosia quando l’indirizzo PEC è disponibile, è fatto espresso divieto di procedere a notificazioni o comunicazioni presso la cancelleria, a prescindere dall’elezione o meno di un domicilio “fisico” nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa.

Residua, tuttavia, un ristretto margine di applicazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 82. Si tratta del caso in cui l’uso della PEC è impossibile per causa non imputabile al destinatario. In tale ipotesi, le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni degli atti vanno effettuate nelle forme ordinarie, ai sensi degli artt. 136 ss. cod. proc. civ.: solamente in tale eventualità assume rilievo – ai fini del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 cit., comma 2, – l’omessa elezione del domicilio “fisico” nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario.

1.8. In conclusione, a seguito dell’introduzione dell’istituto del “domicilio digitale” previsto dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-sexies (così come modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi a cui pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la causa, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario.

1.9. Nel caso di specie, la notificazione della sentenza di appello presso la cancelleria della Corte d’appello di Milano è avvenuta in data 11 giugno 2015 e quindi successivamente all’introduzione nel nostro ordinamento processuale del “domicilio digitale”.

Consegue che la notificazione deve considerarsi nulla (non inesistente; v. Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016, Rv. 640603; conf. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 2174 del 27/01/2017, Rv. 642740), in quanto eseguita presso la cancelleria della corte d’appello nonostante il divieto posto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies cit..

Alla nullità della notificazione consegue l’inidoneità della stessa a far decorrere il termine di impugnazione di cui all’art. 325 cod. proc. civ., con la conseguenza che il ricorso proposto dalla Lario Impianti s.r.l. prima della scadenza del termine “lungo” previsto dall’art. 327 cod. proc. civ. è tempestivo.

  1. Verificata l’ammissibilità e la tempestività del ricorso, deve passarsi all’esame delle censure che esso muove alla sentenza impugnata.

Il ricorso è infondato.

  1. Con il primo motivo si deduce che la destinazione d’uso menzionata nel contratto non poteva non essere intesa come esplicativa di un impegno del locatore a garantire l’idoneità dell’immobile allo svolgimento della programmata attività industriale. L’immobile ricadeva ab origine in zona residenziale, sicchè era ivi vietata ogni attività artigianale o commerciale, per la quale invece l’immobile era stato concesso in locazione. Non si tratterebbe dunque di verificare le caratteristiche del bene e la loro adeguatezza a quanto richiesto per lo svolgimento dell’attività che il conduttore intendeva esercitarvi, bensì una sostanziale impossibilità assoluta di svolgere l’attività espressamente dedotta nel contratto di locazione. Conseguentemente il contratto andrebbe in via principale annullato (per errore o dolo) e subordinatamente risolto.

La censura è inammissibile nella parte in cui deduce un vizio di motivazione, poiché com’è noto l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione non sono più previsti dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), come motivi di ricorso per cassazione, con riferimento alle sentenze pubblicate dall’11 settembre 2012. L’ammissibilità della censura non è recuperata dal riferimento, contenuto nel titolo del motivo in esame, ad un “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto la società ricorrente non si duole del mancato esame dello stesso, bensì – come si è detto – dell’insufficiente e della contraddittorietà della motivazione sul punto.

Il motivo è infondato anche con riferimento alle dedotte violazioni di legge.

Le parti avevano espressamente previsto l’ipotesi dell’inidoneità dell’immobile allo scopo, qualificando come motivo di recesso l’eventuale diniego delle autorizzazioni e concessioni richieste dalla legge ai fini dello svolgimento dell’attività programmata dal conduttore (v. pag. 5 della sentenza impugnata). Deve pertanto escludersi che il contratto sia viziato da errore o dolo consistito nell’omessa rappresentazione dell’inidoneità dell’immobile allo scopo previsto. Peraltro, mentre l’eventualità era stata espressamente considerata dalle parti nel regolamento negoziale, la certezza dell’inidoneità dell’immobile allo scopo è stata acquisita – secondo la valutazione di merito della corte d’appello – nel corso del giudizio.

Per le medesime ragioni non sussiste la violazione dell’art. 1453 cod. civ. per inadempimento.

Infatti, nella locazione di immobili per uso diverso da quello abitativo, convenzionalmente destinati ad una attività il cui esercizio richieda specifici titoli autorizzativi dipendenti anche dalla situazione edilizia del bene (abitabilità dello stesso e sua idoneità all’esercizio di un’attività commerciale), l’inadempimento del locatore può configurarsi quando la mancanza di tali titoli dipenda da carenze intrinseche o da caratteristiche proprie del bene locato, sì da impedire in radice il rilascio degli atti amministrativi necessari e, quindi, l’esercizio lecito dell’attività del conduttore conformemente all’uso pattuito, ovvero quando il locatore abbia assunto l’obbligo specifico di ottenere i necessari titoli abilitativi, restando invece escluso allorché il conduttore abbia conosciuta e consapevolmente accettata l’impossibilità di ottenerli (Sez. 3, Sentenza n. 15377 del 26/07/2016, Rv. 641148; v. pure Sez. 3, Sentenza n. 666 del 18/01/2016, Rv. 638364; Sez. 3, Sentenza n. 13651 del 16/06/2014, Rv. 631823).

  1. Con il secondo motivo si deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in ordine all’omessa rilevazione, anche d’ufficio, della nullità del contratto per il combinato disposto di cui agli artt. 1418, 1343, 1344, 1345 e 1346 cod. civ.. Conseguentemente il locatore non avrebbe alcun diritto né all’adempimento delle attività manutentive previste dall’articolo 12 del contratto di locazione, né alla corresponsione dei canoni.

Anche tale motivo è infondato. Infatti, a prescindere dalla questione della rilevabilità ex officio delle pretese nullità del contratto, queste ultime non emergono ex actis.

Deve infatti escludersi che il contratto di locazione presenti profili di illiceità della causa, invero neppure effettivamente specificati dal ricorrente, e tantomeno che allo stesso le parti si siano determinate in forza di un (non meglio precisato) motivo illecito e comune ad entrambe.

Quanto alla pretesa impossibilità dell’oggetto, è agevole rilevare che non ricorre tale vizio in caso di semplice inidoneità dell’immobile allo scopo pattuito. La pretesa inidoneità dell’immobile, infatti, è concetto che – sul piano logico e giuridico – presuppone che l’oggetto del contratto, ancorchè in ipotesi inadatto all’attività programmata dal conduttore, sia determinato o determinabile, possibile e lecito. Solo il difetto di tali requisiti, nella specie certamente ricorrenti, darebbe luogo alla dedotta nullità, che quindi non sussiste.

Quanto al vizio motivazionale, si rinvia a quanto osservato in ordine al primo motivo.

  1. Con il terzo motivo si censura, ancora una volta, la motivazione insufficiente e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo, nonchè la falsa applicazione della L. n. 72 del 1978, art. 27 e degli artt. 1218 e ss., 1467 e 1468 cod. civ. Il Tribunale di Lecco avrebbe attribuito valore di recesso alla missiva con la quale la società conduttrice comunicava al locatore l’impossibilità di proseguire il contratto stante il diniego del Comune alla concessione delle autorizzazioni necessarie per l’esecuzione degli interventi richiesti per espletare l’attività industriale prevista. Conseguentemente, a tutto voler concedere, la condanna al pagamento del canone avrebbe dovuto essere limitata alle sole mensilità di marzo e aprile e ai primi otto giorni del mese di maggio dell’anno 2013. Dovrebbe essere altresì annullata la condanna all’esecuzione dei lavori, giacchè questi non avevano natura commutativa ma, se mai, venivano considerati, come usualmente accade, nella determinazione del canone, appositamente calmierato stante l’obbligazione assunta da parte conduttrice.

Il motivo è inammissibile per genericità e difetto di autosufficienza.

Sotto quest’ultimo profilo basta osservare che la società ricorrente non ha fornito alcuna indicazione circa il contenuto della missiva del 9 marzo 2010, così impedendo alla Corte di cassazione di delibare la censura.

Quanto al resto, la censura è generica, con particolare riferimento all’inespressa differenza che intercorrerebbe fra “prestazione commutativa” e “prestazione di cui si è tenuto conto nel calmierare il canone”. Si tratta, invero, di una distinzione introdotta dal ricorrente e formulata in termini talmente approssimativi da non potersene comprendere la portata, nè le conseguenze giuridiche.

  1. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 cod. proc. civ., comma 1, nella misura indicata nel dispositivo.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicchè va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione da lui proposta, senza spazio per valutazioni discrezionali (Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014, Rv. 630550).

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2017

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