SENTENZE

Giurisprudenze a confronto sulla presunzione di onerosità dei prestiti

Una sentenza della CTP di Bergamo, la n. 456 dell’11/5/2015 e quelle meno recenti della Corte di Cassazione, la n.2735 del 4/2/2011, consigliano anche oggi una riflessione più approfondita su di un tema che trova ampia e consolidata diffusione nelle piccole e medie imprese. Parliamo infatti della presunzione di onerosità dei prestiti, i c.d. finanziamenti infruttiferi dei soci.

Nella prassi societaria è frequente che i soci effettuino, in aggiunta ai conferimenti iniziali, ulteriori apporti finanziari, allo scopo di dotare la società di nuovi mezzi di finanziamento. Il finanziamento soci può essere utilizzato, infatti, per coprire una momentanea carenza di liquidità oppure per sopperire ad un sistematico squilibrio tra fonti e impieghi di medio-lungo termine. Inoltre il punto delicato riguarda proprio la disciplina fiscale della materia, con particolare riferimento alla applicazione della c.d. “ presunzione legale di fruttuosità ” disposta dall’art.45, co.2, del Tuir, ed alle forme con cui ne è ammesso il superamento. Tale presunzione altro non è che la trasposizione in ambito fiscale di quanto disposto dall’art.1815 c.c., il quale prevede l’onerosità come regola generale del contratto di mutuo, salvo che non sia prodotta la prova contraria. L’assetto fiscale dell’operazione di finanziamento soci è quindi soggetto, a specifiche presunzioni che devono essere scrupolosamente valutate al fine di scongiurare possibili contestazioni dell’Amministrazione finanziaria. Su questo punto l’articolo 46 del Tuir stabilisce che le somme erogate dal socio alla società si considerano date a mutuo se dal bilancio o rendiconto della stessa non risulti che il versamento è stato fatto ad altro titolo (presunzione di dazione a mutuo). Inoltre, l’articolo 45, comma 2 dello stesso Testo unico prevede alcune presunzioni legali che riguardano la misura degli interessi, la loro percezione e il periodo di competenza ponendo una serie di presunzioni, ossia che gli interessi:

1) si presumano percepiti alle scadenze e nella misura pattuita per iscritto;

2) si presumano percepiti nell’ammontare maturato nel periodo d’imposta se non è stabilita una diversa scadenza in modo scritto;

3) si computino al saggio legale se una diversa misura non è determinata per iscritto

La prova contraria per superare la presunzione legale di onerosità dei finanziamenti dei soci può essere fornita mediante qualsiasi mezzo che conferisca comunque data certa alla documentazione che dimostra la non fruttuosità del mutuo. Ma qual è la prova contraria con cui è consentito superare tale presunzione? Ed in particolare, quali procedure sono consigliabili e quali attenzioni è opportuno riservare al compimento dell’operazione in oggetto, al fine di poter ragionevolmente disporre degli elementi probatori sufficienti al superamento della presunzione di legge?

Prima di prendere in esame l’argomento, si ritiene opportuno fornire un inquadramento complessivo del tema ed una sua adeguata collocazione rispetto alla realtà imprenditoriale. È opinione, condivisibile, della dottrina che allo stato attuale la presunzione (fiscale) di onerosità dei mutui finisca, di fatto, per rappresentare una norma anacronistica che trova un concreto spazio di applicazione solo nei rapporti fra soci e società, e pressoché esclusivamente nelle piccole e medie imprese; più di rado, essa potrebbe avere riguardo anche ai rapporti nell’ambito dei più complessi gruppi societari multinazionali dove, tuttavia, l’ampia disciplina internazionale del “ transfer pricing ” obbliga già le parti – a prescindere dalla presunzione in oggetto – ad informarsi necessariamente a principi di mercato nel regolare i rapporti finanziari infragruppo, relegando così ad ipotesi solo marginali l’eventuale infruttuosità dei prestiti erogati dalle holding alle società operative. Quindi, è per lo più nelle piccole realtà che questa norma trova oggi la sua concreta applicazione, poiché si tratta delle fattispecie in cui è ancora assai diffusa la prassi di erogare i finanziamenti senza prevedere la maturazione di interessi. È, inoltre, cosa indubbia che l’infruttuosità del prestito sia una pratica civilisticamente legittima, stante il chiaro disposto dell’art.1815 c.c., il quale consente alle parti di derogare alla presunzione di onerosità del contratto di mutuo. In questo contesto di rapporto socio-società la gratuità del mutuo, allora, assume una dimensione molto chiara, ben lungi dal poter nei fatti celare un intento elusivo: giustamente, si osserva come sarebbe piuttosto bizzarro pensare che esistano pagamenti occultati di interessi eseguiti dalla società al socio, a fronte di somme che invece sono state palesemente erogate dal socio alla società a titolo di prestito. Viceversa, la non fruttuosità rientra nella logica economica del rapporto sociale, ogniqualvolta il socio intenda sostenere finanziariamente l’impresa senza farla gravare dell’onere degli interessi, attendendosi il ritorno sotto forma dei profitti dell’impresa, essendogli infine sufficiente il mero rimborso del capitale quando la società ne avrà le possibilità. Tutto questo, ancor più in periodi caratterizzati da difficoltà di accesso al credito bancario da parte delle piccole e medie imprese. Queste considerazioni ci aiutano quindi a calare l’operazione, e la sua regolamentazione fiscale, nel contesto economico-aziendale ed a trovare anche le valide ragioni economiche della sua esecuzione.

Sulla tematica dei finanziamenti da parte dei soci vi è da sempre un acceso dibattito riguardante il tema della loro presunta onerosità: qualora infatti sia previsto un obbligo di restituzione da parte della società, la disciplina è chiara nel ritenere che tali somme siano da identificare come somme date a mutuo ed, in quanto tali, è prevista la presunzione legale di onerosità delle somme e la conseguente percezione degli interessi da parte del mutuante. Tuttavia, su posizioni divergenti risulta una parte della giurisprudenza di legittimità., ritenendo che la presunzione di onerosità del finanziamento può essere superata per il tramite della prova espressamente prevista dall’art. 46 del TUIR, ovvero l’indicazione esplicita della loro infruttuosità nei bilanci societari.

 

Su tale linea si è mossa la  Cassazione, prima con la Sentenza n.12251 del 2010, in cui si legge che “… atteso che la prova contraria alla fruttuosità del finanziamento non è libera, ossia non può essere data con ogni mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme stabiliti tassativamente dalla legge, la quale rinunzia alla suddetta presunzione sol quando risulti dai bilanci […] che il versamento fu fatto a titolo diverso dal mutuo”, poi con la Sentenza n.2735 del 2011,  in cui si precisa che la presunzione di onerosità può essere superata solamente attraverso l’indicazione di infruttuosità del versamento nei libri sociali senza che possono essere utilizzati altri mezzi di prova, confermando che il prestito del socio erogato alla società in cui egli è partecipante si presume  legalmente a titolo oneroso.

In particolare la Corte di Cassazione con la successiva sentenza n.2735/2011 ha stabilito che il finanziamento erogato dell’impresa in qualità di socio di un’altra azienda si presume conferito a titolo di mutuo, in assenza di prova contraria. Pertanto, gli interessi sugli importi corrisposti dovranno essere sottoposti a tassazione stabilendo che il finanziamento erogato da un’impresa in qualità di socio di un’altra azienda, si presume conferito a titolo di mutuo in assenza di prova contraria, risultante dal diverso titolo indicato dai bilanci allegati alla dichiarazione dei redditi. Gli interessi su quanto corrisposto, di conseguenza, sono sottoposti a tassazione. La Corte, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha affermato, infatti, che, in base all’allora vigente art. 43 (ora art. 46), comma 1,TUIR, le somme versate alle Snc e Sas dai loro soci: “…Va, quindi, ribadito che (Cass., trib., 15 luglio 2009 n. 16445) “la presunzione legale di onerosità del prestito concesso dal socio alla società da lui partecipata”, prevista dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 43 TUIR, “può essere “vinta da prova contraria” (”a carico del contribuente”), ma che siffatta prova “non è libera, ossia non può essere data con qualsiasi mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme stabiliti tassativamente dalla legge, la quale rinunzia alla suddetta presunzione sol quando risulti, dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società, che il versamento fu fatto a titolo diverso dal mutuo” “trattasi”, si aggiunge, “di presunzione relativa mista, di cui si trovano altri, esempi in materia fiscale (cfr. Cass. nn. 16483/2006, 1134/2001, 7657/1995), suggeriti da evidenti finalità antielusive”, tenuto conto che “secondo la giurisprudenza di questa Corte” (Cass., trib., 13 marzo 2009 n. 6093; peraltro già con la sentenza 4 novembre 1998 n. 11042, della prima sezione, si era statuito che “del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 43 detto affinché si possa escludere che la somma erogata dal socio alla società sia ricollegabile ad un rapporto di mutuo produttivo di interessi esige che il diverso titolo risulti dai bilanci allegati alla dichiarazione dei redditi dalla società medesima, e, quindi, non è sufficiente, “la mera enunciazione da parte del socio della destinazione del versamento ad incremento del capitale e l’assenza di dimostrazione contraria”. Tale presunzione pone a carico del contribuente l’onere della prova contraria.  In particolare tale supposto può essere controvertito solo dimostrando l’infruttuosità del finanziamento stesso. La prova da fornire, oltretutto, dice la sentenza, per essere valida deve essere opposta nei modi previsti dalla legge. Un caso in cui essa si considera validamente costituita si ha quando venga dimostrato che il prestito infruttifero  risulti dal bilancio allegato alla dichiarazione dei redditi. Ed ancora, a nulla serve, in sede dibattimentale, che il socio dichiari che le somme erogate costituiscano versamenti in conto capitale quando non vengano eseguiti secondo le procedure previste per apporti patrimoniali, in quanto sussiste una chiara distinzione tra i versamenti dei soci (ad esempio) in conto capitale (od a fondo perduto) e le somme erogate dai soci a titolo di mutuo (i.e. finanziamento) posto che queste ultime sono caratterizzate dal relativo obbligo di restituzione

Con parere diverso si espresse la  CTR di Milano nella nota sentenza n. 55/18/2012,  che diede evidenza alla gratuità del mutuo, che deve risultare dall’accordo delle parti ma non deve essere necessariamente provata mediante specifici mezzi di prova, né tantomeno attraverso una pattuizione scritta. Essa al contrario potrà essere addirittura ritenuta tacita quando per le circostanze del caso e per la qualità dei contraenti si può desumere la volontà di escludere il corrispettivo. Nella sentenza si legge che: “… il rilievo relativo alla mancata contabilizzazione di interessi attivi per il finanziamento della partecipata appare infondato, atteso che tale supposta omissione era stata oggetto di accordo tra le due Società, come provato, indirettamente, dalla circostanza che la beneficiata non ha contabilizzato nelle detrazioni gli interessi passivi, così come da parte della ricorrente non sono stati imputati ricavi. In realtà l’Ufficio fonda il rilievo sulla circostanza che per tale operazione non vi fosse alcun accordo o contratto scritto tra le due Società, omettendo di considerare che, a mente dell’art. 1350 del c.c., fatta eccezione per alcuni contratti tipizzati e indicati nella norma stessa, tutti gli altri, purché non siano contrari a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 1343 c.c.), possono assumere la forma che le parti dovessero ritenere più opportuna, nel libero esercizio dell’attività d’impresa, costituzionalmente protetto, anche semplicemente in forma solo verbale”.

Altra e più recente sentenza della giurisprudenza di merito, l’indicata pronunzia della CTP di Bergamo, la n. 456 del 11.05.2015, ha viepiù affermato anche che il finanziamento erogato da un socio alla società può essere infruttifero anche in assenza di un atto scritto, poiché l’art. 1350 c.c. non prevede la forma scritta per tale contratto, il quale può quindi assumere anche la forma verbale.

Riportano così i Giudici tributari : “… La Commissione osserva, in primo luogo, che la disposizione contenuta nell’art. 89, 5° comma, TUIR non istituisce una presunzione di redditività, ma si limita a prescrivere che, nel caso in cui gli interessi non siano determinati, si computano al saggio legale. Osserva inoltre che l’eventuale presunzione potrebbe essere comunque superata con ogni idoneo mezzo di prova e che l’assenza di un contratto scritto di finanziamento infragruppo non esclude la possibilità di dimostrare, con altri mezzi, l’infruttuosità dello stesso, vigendo il principio di libertà di forma ex art. 1350 cod.civ.”.

Pertanto, sulla base di quanto fin qui esposto, si può concludere come segue:

  • non vi sono dubbi circa l’infruttuosità dei finanziamenti erogati quando tale condizione è riscontrabile, in maniera esplicita, all’interno dei bilanci societari e dei libri sociali;
  • la presunzione di fruttuosità può essere vinta quando risulta in maniera chiara da contratti scritti e/o corrispondenza nella quale sia ben individuato lo specifico finanziamento infruttifero e venga conferita data certa ai documenti (apposizione di data certa, sottoscrizione autentica del Notaio o, molto più semplicemente, scambio di PEC tra socio e società);
  • qualora mancassero le suddette condizioni, si può basare in sede contenziosa la propria difesa fondandola su qualsiasi altro mezzo di prova, laddove le circostanze depongano comunque in tal senso.

 

Uno sguardo alla giurisprudenza europea

A questo riguardo, può essere utile rammentare anche le conclusioni dell’Avvocato Generale, specialmente nei punti 68 – 69 – 70, relative alla sentenza della Corte di Giustizia Europea,  Causa C‑311/08 – Société de Gestion Industrielle (SGI) contro l’État Belge, del 2009 e riguardante un presupposto contrasto della disciplina fiscale belga rispetto al Trattato Cee sul principio di libertà di stabilimento e di circolazione dei capitali. In particolare, nel caso di specie una società belga aveva concesso un finanziamento ad una sua società controllata residente in Francia senza applicare alcun interesse. L’Amministrazione tributaria belga aveva quindi provveduto a riprendere a tassazione in capo alla società belga un importo corrispondente, di fatto, agli interessi presunti. La sentenza, nel riconoscere la non conflittualità della norma belga con il Trattato Cee, ha però specificato quali criteri devono essere rispettati perché norme simili a questa – come può essere considerata anche quella italiana di cui qui si tratta – non siano considerate eccedenti rispetto a quanto è necessario per la tutela delle ragioni erariali. In particolare, nella sentenza citata la Corte di Giustizia ha ricordato che:”… Si deve rilevare che una normativa nazionale che si fondi su un esame di elementi oggettivi e verificabili per stabilire se una transazione consista in una costruzione di puro artificio a soli fini fiscali va considerata come non eccedente quanto necessario per raggiungere gli obiettivi relativi alla necessità di salvaguardare la ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri e a quella di prevenire l’elusione fiscale quando, in primo luogo, in tutti i casi in cui esiste il sospetto che una transazione ecceda ciò che le società interessate avrebbero convenuto in un regime di piena concorrenza, il contribuente sia messo in grado, senza eccessivi oneri amministrativi, di produrre elementi relativi alle eventuali ragioni commerciali per le quali tale transazione sia stata conclusa (v., in tal senso, citata sentenza Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation, punto 82, e ordinanza 23 aprile 2008, causa C-201/05, Test Claimants in the CFC and Dividend Group Litigation, Racc. pag. I-2875, punto 84)”.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Sentenza 4/2/2011, n. 2735

Fatto

L’Agenzia delle Entrate in persona del Direttore pro tempore ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Regionale della Lazio dep. Il 28/06/2005 che aveva, accogliendo parzialmente l’appello della xxxx s.r.l. E rigettando l’appello incidentale dell’Ufficio, in ordine al punto relativo al finanziamento concesso in favore della società xxxxx Costruzioni, riformato la sentenza della CTP di Roma che aveva rigettato sul punto il ricorso (e che aveva invece parzialmente accolto il ricorso su analoga questione relativa ad altro finanziamento in favore del Consorzio Legno Calabria s. c. a r.l.) della società avverso l’avviso di accertamento per IRPEG e ILOR per l’anno 1994.

La CTR (per quanto oggetto d’impugnazione) aveva giudicato illegittimo anche il recupero a tassazione degli interessi che sarebbero stati erogati dal Consorzio Legno Calabria s.c.r.l.

Ritenendo provato, con la produzione in appello del verbale del consiglio di amministrazione, che il mutuo era infruttifero.

La ricorrente pone a fondamento del ricorso due motivi fondati sulla violazione di legge e il vizio motivazionale. La società contribuente non ha resistito.

La causa è stata rimessa alla decisione in pubblica udienza.

Diritto

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso, l’Agenzia deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 43 e 95 TUIR e dell’art. 2697 c.c.; deduce, in particolare, che la prova che le somme versate dai soci in favore di società in nome collettivo o in accomandita semplice (o anche in favore di società di capitali in virtù del rinvio di cui all’art. 95, comma 2) si presumevano date a mutuo oneroso salvo che non risultasse il contrario dai bilanci allegati alla dichiarazione; di conseguenza, la CTR, ritenendo valida la superiore documentazione, avrebbe violato il superiore norma. Questa Corte (Cass. n. 12251/2010, n. 6093/2009, n. 7602/2006, n. 7980/2007 e n. 16393/2007) ha distinto tra i versamenti che comportano un credito di restituzione quale sono quelli in esame e i versamenti c.d. in conto capitale, per i quali non vi è obbligo di restituzione a carico della società e pertanto sono appostatati in una riserva del patrimonio netto, nella misura in cui non sono impiegati per ripianare perdite.

In particolare ha osservato che i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno tuttavia, una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio. Analogo discorso va fatto in ordine ai “versamenti c.d. In conto futuro aumento di capitale, che sono anticipi versati dai soci per la sottoscrizione di azioni o quote di futura emissione e per tale ragione sono destinati (almeno di regola) non al rimborso ma al l’imputazione al capitale, una volta perfezionata la procedura di aumento dello stesso”. La Corte, richiamando dottrina, inoltre, ha anche ricordato essere “irrilevante per la qualificazione della fattispecie la pattuizione di interessi, ben potendo il mutuo essere gratuito”. Il riferimento agli “apporti di danaro dei soci” (finanziamento diretto), peraltro, non esaurisce i possibili modi attraverso i quali un socio (come un terzo) può finanziare la società potendosi raggiungere lo stesso scopo, o scopo analogo, anche attraverso altri comportamenti (art. 2467 c.c., comma 2 cit., infatti, parla di “finanziamenti di soci a favore della società …, in qualsiasi forma effettuati”), quali (excerpta dalla stessa dottrina) l’accordare “dilazioni”, il non esercitare “un credito pecuniario libero ed esigibile nei confronti della società”, il non riscuotere “dividendi già deliberati, … canoni di locazione scaduti, compensi per prestazioni erogate alla società” (finanziamento indiretto).

In ordine alla normativa fiscale, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 42, comma 2 (TUIR), per quanto interessa, dispone che “per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto” e che “se la misura non è determinata per iscritto gli interessi si computano al saggio legale”.

Per il successivo art. 43, comma 1 (ora art. 4b; testo in vigore dal primo gennaio 1988 al 31 dicembre 2003), poi, “le somme versate alle società in nome collettivo e in accomandita semplice dai loro soci si considerano date a mutuo se dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo”. Quest’ultima norma, come emerge univocamente dal suo tenore letterale, pone una evidente presunzione (sia pure, come naturale, iuris tantum), ex art. 2727 c.c. – da qualificare legale perché è lo stesso legislatore che impone di trarre quella specifica conseguenza “da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato” – in ordine al “titolo” giuridico di qualsivoglia versamento di somme da parte dei “soci” in favore di una delle due società di persone previste nella stessa atteso che la legge impone di considerare “date a mutuo” le somme in questione tutte le volte che “dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società non risulta che il versamento è stato fatto ad altro titolo”, ovvero sia a “titolo” diverso dal “mutuo”.

La stessa norma, inoltre, prevede che detta presunzione possa essere superata unicamente dal fatto che l’”altro titolo” giuridico (differente dal “mutuo”), costituente la fonte del versamento del socio, risulti “dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società”: l’indicazione nel bilancio detto di quell’”altro titolo” quindi, costituisce indefettibile condicio iuris per il (favorevole) superamento della presunzione legale detta (ferma, come ovvio, la necessità che, in ipotesi di contestazione, la società dia prova dell’esistenza di tale “altro titolo”).

Nel suo inciso finale, poi, il legislatore completa la previsione imponendo di computare gli interessi al “saggio legale” se la “misura” degli stessi “non è determinata per iscritto.

Va, quindi, ribadito che (Cass., trib., 15 luglio 2009 n. 16445) “la presunzione legale di onerosità del prestito concesso dal socio alla società da lui partecipata”, prevista dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 43 TUIR, “può essere “vinta da prova contraria” (”a carico del contribuente”), ma che siffatta prova “non è libera, ossia non può essere data con qualsiasi mezzo, ma soltanto nei modi e nelle forme stabiliti tassativamente dalla legge, la quale rinunzia alla suddetta presunzione sol quando risulti, dai bilanci allegati alle dichiarazioni dei redditi della società, che il versamento fu fatto a titolo diverso dal mutuo” “trattasi”, si aggiunge, “di presunzione relativa mista, di cui si trovano altri, esempi in materia fiscale (cfr. Cass. nn. 16483/2006, 1134/2001, 7657/1995), suggeriti da evidenti finalità antielusive”, tenuto conto che “secondo la giurisprudenza di questa Corte” (Cass., trib., 13 marzo 2009 n. 6093; peraltro già con la sentenza 4 novembre 1998 n. 11042, della prima sezione, si era statuito che “del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 43 detto affinché si possa escludere che la somma erogata dal socio alla società sia ricollegabile ad un rapporto di mutuo produttivo di interessi esige che il diverso titolo risulti dai bilanci allegati alla dichiarazione dei redditi dalla società medesima, e, quindi, non è sufficiente, “la mera enunciazione da parte del socio della destinazione del versamento ad incremento del capitale e l’assenza di dimostrazione contraria”.

Dalla esegesi che precede discende, quindi, evidente il errore della sentenza impugnata avendo il giudice di appello ritenuto sufficiente la produzione del verbale del consiglio di amministrazione.

Dall’evidenziata erroneità giuridica della sentenza impugnata discende la necessità della cassazione delle stessa per loro contrasto con l’esposta interpretazione delle conferenti norme fiscali regolanti, nel complesso, la presunzione di percezione di interessi sulle somme date a mutuo da un socio alla società; la pacifica mancata osservanza di dette norma per omessa allegazione dell’unica prova contraria alla presunzione ammessa dalle norme, individuata come sopra, di poi, esclude la necessità di qualsiasi ulteriore, diverso accertamento di fatto per cui la causa, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., deve essere decisa nel merito da questa Corte con il rigetto del ricorso della contribuente in relazione ai motivi qui accolti. Le condanna alle spese segue alla soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo in relazione ai motivi qui accolti. Condanna la contribuente alle spese di tutti i gradi del giudizio che liquida, quanto al presente grado, in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per spese vive, ed Euro 1800,00 per ciascuno dei gradi di merito, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Tributaria, il 21 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2011

 

 

Commissione Tributaria di Bergamo – Sentenza n. 456 dell’11 maggio 2015

 

COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE BERGAMO

Sentenza 11 maggio 2015, n. 456

 

IRES – Finanziamenti infra-gruppo – Presunzione legale di onerosità – Insussistenza – Prova della infruttuosità del finanziamento – Ammissibilità di mezzi diversi dal contratto scritto – Acquisizione e fusione per incorporazione per indebitamento – Sussistenza

Svolgimento del processo

Con il ricorso introduttivo (n. 1250/14 RG) la società “S.E. srl” ha impugnato l’avviso di accertamento notificato il 20-5-14, con cui l’Agenzia delle Entrate, relativamente all’anno di imposta 2009, ha addebitato € 28.449,00 a titolo di maggiore IRES, oltre pari importo per sanzioni.

L’Ufficio convenuto si è costituito in giudizio con memoria difensiva.

All’udienza del 23-2-2015 è stata trattata l’istanza di sospensione All’udienza in data 11 maggio 2015 la controversia era trattata e successivamente decisa.

Motivi della decisione

La maggiore imposta addebitata con l’avviso di accertamento è data dalla mancata imputazione in bilancio di interessi attivi per € 103.452,44 riferibili ad un finanziamento erogato dalla società partecipata “S. SpA” (ora estinta per fusione con l’odierna ricorrente) in favore della sua controllante “S.E. srl” (odierna ricorrente) per complessivi € 3.448.414,54.

Nella specie, la predetta “S.E. srl” aveva acquistato la totalità delle azioni della partecipata “S. SpA” dopo aver acquisito liquidità per aver venduto un complesso immobiliare ad un istituto di credito e successivamente si è indebitata per 4.500.000,00 euro con il Credito Valtellinese, a cui aveva dato in pegno le stesse azioni, a garanzia del buon esito dell’operazione.

Muovendo dalla presunzione della redditività dei finanziamenti, l’atto impositivo suppone l’esistenza degli interessi attivi e contesta la loro mancata imputazione in bilancio, calcolandoli in via presuntiva al tasso legale (art.89, comma 5, TUIR).

L’accertamento dell’Ufficio è motivato da tre argomenti. In primo luogo l’Ufficio rileva l’assenza di un atto deliberativo e di un contratto tra le società che provino l’infruttuosità del finanziamento, a fronte di una ravvisata presunzione legale di redditività dei finanziamenti. Il secondo luogo l’Ufficio adduce una ravvisata antieconomicità della operazione di finanziamento. In terzo luogo l’Ufficio adduce l’intervenuta regolarizzazione dell’analogo addebito per l’anno di imposta 2008 (precedente a quello in esame).

La ricorrente replica a ciascuna delle esposte proposizioni, sostenendo che nessuna norma stabilisce una presunzione di redditività dei finanziamenti e che, anche in assenza di redditività, sussiste comunque un interesse qualificato al finanziamento, coincidente con la causa tipica dell’operazione di cui all’art. 2501 bis Cod. Civ. (acquisizione e successiva fusione per incorporazione a seguito di indebitamento, o “leverage buy out”), restando ferma l’irrilevanza della definizione intervenuta in relazione al precedente anno di imposta.

La Commissione osserva, in primo luogo, che la disposizione contenuta nell’art. 89, 5° comma, TUIR non istituisce una presunzione di redditività, ma si limita a prescrivere che, nel caso in cui gli interessi non siano determinati, si computano al saggio legale.

Osserva inoltre che l’eventuale presunzione potrebbe essere comunque superata con ogni idoneo mezzo di prova e che l’assenza di un contratto scritto di finanziamento infragruppo non esclude la possibilità di dimostrare, con altri mezzi, l’infruttuosità dello stesso, vigendo il principio di libertà di forma ex art. 1350 cod.civ.

In tal senso si è pronunciata la Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia nella sentenza n. 55/18/2012 in data 21 maggio 2012, che, in relazione ad una analoga vicenda, ha rilevato che l’accordo tra le due società è “provato indirettamente dalla circostanza che la beneficiata non ha contabilizzato nelle detrazioni gli interessi passivi, così come da parte della ricorrente non sono stati imputati ricavi”.

Nella fattispecie gli interessi non sono stati registrati né dalla controllante né dalla controllata e l’operazione, conclusa con la fusione delle due società e l’azzeramento di qualsiasi partita a reciproco debito o credito, è stata caratterizzata da un trasferimento di liquidità che ha finanziato la controllante in modo che essa potesse saldare i debiti contratti.

Da un punto di vista formale, va considerato che una delibera, seppur di ratifica della infruttuosità del finanziamento, è stata adottata il 28 ottobre 2011 (pag. 98-2007 verbali assemblea S.E. srl), subito dopo aver conosciuto i rilievi per l’anno di imposta 2008 (precedente quello in contestazione) ma prima che fossero formulati rilievi per il 2009.

In ogni caso non può negarsi che il finanziamento è avvenuto nell’ambito di una operazione riferibile alla fattispecie normativa di cui all’art. 2501 bis cod.civ.: acquisizione e successiva fusione per incorporazione a seguito di indebitamento (“leverage buy ouf). Si tratta di una pianificata operazione di fusione, con conseguente compensazione dei rapporti di debito e credito esistenti tra le società.

Tali considerazioni evidenziano la sussistenza di un interesse qualificato del “gruppo” ed escludono che l’operazione fosse antieconomica.

La Commissione rileva, infine, che la condotta conciliativa adottata dalla stessa società in relazione all’accertamento per il 2008 non può assumere rilevanza di giudicato – stante l’assenza di una pronuncia – né di acquiescenza, stante la diversità dell’anno di imposta, elemento di riferimento per IRES ed IRPEF nell’ordinamento tributario. Deve poi valutarsi il fatto che per il 2008 la società aveva un interesse particolare alla definizione degli addebiti, a causa della coesistenza di ulteriori e più onerosi rilievi.

Per tutte le suesposte considerazioni, il ricorso deve essere accolto.

In considerazione della particolarità della vicenda societaria nonché della circostanza che ha mosso l’attività di accertamento dell’Ufficio (riscontrata assenza di una deliberazione di finanziamento risalente al 2009), si dispone l’integrale compensazione delle spese tra le parti.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Spese compensate.

Conclusioni dell’Avv. Generale Corte UE del 10 settembre 2009 nella Causa C 311/08

 

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