CASSAZIONE

Estesa la prescrizione breve per cartelle di pagamento impugnate in ritardo

Cartelle esattoriali per contributi previdenziali – Prescrizione quinquennale – Non sussiste

La Corte di Cassazione con un intervento a Sezioni Unite, con la sentenza n. 23397 del 17 novembre 2016, ha stabilito che sulle cartelle di pagamento la prescrizione resta, sempre e comunque, breve. Non è possibile applicare i termini di prescrizione ordinaria, neanche quando la cartella di pagamento è stata impugnata oltre il termine perentorio dei quaranta giorni: si tratta di un principio importante che si estende a tributi e contributi di ogni genere ed include anche le sanzioni amministrative. La Suprema Corte è intervenuta a stabilire se la decorrenza del termine di 40 giorni per opporsi alla cartella di pagamento determina, come unico effetto, l’irretrattabilità del credito ma non anche la conversione del termine da prescrizione breve quinquennale a prescrizione lunga decennale. I dubbi ruotano intorno al fatto se tale omessa impugnazione sia idonea a trasformare il termine da breve a decennale. In effetti, il nodo giurisprudenziale interessava proprio l’operatività o meno della “conversione” del termine di prescrizione breve in ordinario decennale dopo la mancata impugnazione di atti di riscossione riferiti alle sanzioni amministrative, ai contributi previdenziali o altra entrata tributaria.

Le S.U. della Cassazione intervenute hanno fugato ogni incertezza in relazione all’individuazione del termine di prescrizione applicabile dopo la notifica della cartella esattoriale, affermando innanzitutto, e risolvendo alcune difformità d’interpretazione presenti nell’attuale giurisprudenza, che la prescrizione di dieci anni prevista dall’articolo 2953 c.c. decorre dal passaggio in giudicato della sentenza e che l’eventuale conversione della prescrizione breve in quella decennale trova il proprio fondamento proprio nella sentenza stessa. In particolare la Cassazione, accogliendo l’interpretazione più favorevole al contribuente, ha definitivamente chiarito che il termine di prescrizione resta quello originariamente previsto per il credito sotteso alla cartella, senza che questa possa in alcun modo determinare l’applicazione del termine ordinario decennale. Ne consegue che tutti gli altri titoli che legittimano la riscossione coattiva mediante ruolo, compresa la cartella di pagamento e l’accertamento esecutivo, non sono da ritenersi idonei ad acquistare efficacia di giudicato. Pertanto, in materia di contributi previdenziali, ad esempio, il termine di prescrizione resta quello quinquennale, come anche in materia di sanzioni amministrative o sanzioni tributarie; in materia di tassa automobilistica (bollo auto), il termine di prescrizione resta quello triennale.

La Cassazione a S.U., nell’evidenziare preliminarmente che le divergenti pronunce dei giudici di merito che ultimamente si sono andate diffondendo sono in realtà frutto di una errata interpretazione della sentenza della Cassazione n. 17051/2004, trascinatasi per inerzia nel tempo, senza alcun peculiare approfondimento afferma che “Tutto questo porta a concludere che la ‘disarmonia’ che si è creata nell’ambito della giurisprudenza poggia su un equivoco derivante dalla erronea determinazione del contenuto della sentenza n. 17051 del 2004 cit., trascinatasi per inerzia nel tempo, senza alcun particolare approfondimento e che ha prodotto effetti giuridici validi in un solo caso (sentenza n. 5060 del 2016 cit.). Ne deriva che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte, tale disarmonia non ha avuto grandi conseguenze, ma ne ha sicuramente prodotte – di molto incisive – nella giurisprudenza del merito e, in genere, nella interpretazione e nell’applicazione delle norme di riferimento, in un settore di grande “impatto” come quello della riscossione mediante ruolo dei crediti previdenziali, tributari e così via. Pertanto, appare opportuno precisare che la correttezza dell’orientamento tradizionale è confermata, oltre che dalla precedente sentenza di queste Sezioni Unite 10 dicembre 2009, n. 25790 (già richiamata), da molteplici ulteriori elementi.. In primo luogo, va ricordato che, nell’ambito della giurisprudenza di questa Corte nella quale viene da sempre sottolineato che la disciplina della prescrizione è “di stretta osservanza ed è insuscettibile d’interpretazione analogica” (vedi, per tutte: Cass. 15 luglio 1966, n. 1917 e Cass. 18 maggio 1971, n. 1482) è pacifico che:

  1. a) se in base all’art. 2946 cod. civ. la prescrizione ordinaria dei diritti è decennale a meno che la legge disponga diversamente, nel caso dei contributi previdenziali è appunto la legge che dispone diversamente (art. 3, comma 9, legge 335 del 1995 cit.);
  2. b) la norma dell’art. 2953 cod. civ. non può essere applicata per analogia oltre i casi in essa stabiliti (ex multis: Cass. 29 gennaio 1968, n. 285; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710);
  3. c) la prescrizione decennale da “actio judicati”, prevista dall’art. 2953 cod. civ., decorre non dal giorno in cui sia possibile l’esecuzione della sentenza né da quello della sua pubblicazione, ma dal momento del suo passaggio in giudicato (tra le tante: Cass. 10 luglio 2014, n. 15765; Cass. 14 luglio 2004, n 13081);
  4. d) la conversione della prescrizione breve in quella decennale per effetto della formazione del titolo giudiziale ex art. 2953 cod. civ. ha il proprio fondamento esclusivo nel titolo medesimo, sicché non incide sui diritti non riconducibili a questo e, dunque, non opera per i diritti maturati in periodi successivi a quelli oggetto del giudicato di condanna (Cass. 20 marzo 2013, n. 6967; Cass. 10 giugno 1999, n. 5710 cit.);
  5. e) il generico riferimento al “diritto” per il quale sia stabilita un termine di prescrizione breve contenuto nell’art. 2953 cod. civ., consente di ritenere che laddove intervenga un giudicato di condanna (anche generica), la conversione del termine di prescrizione breve del diritto in quello decennale si estende pure ai coobbligati solidali anche se rimasti estranei al relativo giudizio (vedi, per tutte: Cass. 13 gennaio 2015, n. 286; Cass. 11 giugno 1999, n. 5762; Cass. 10 marzo 1976, n. 839; Cass. 14 aprile 1972, n. 1173; Cass. 17 giugno 1965, n. 1961; Cass. 17 agosto 1965, n. 1961; Cass. 20 ottobre 1964, n. 2633).

18.2. Quest’ultimo effetto, all’evidenza, si attaglia solo ad un titolo esecutivo giudiziale.

È notorio che soltanto un atto giurisdizionale può acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata e, che il giudicato, dal punto di vista processuale, spiega effetto in ogni altro giudizio tra le stesse parti per lo stesso rapporto e dal punto di vista sostanziale rende inoppugnabile il diritto in esso consacrato tanto in ordine ai soggetti ed alla prestazione dovuta quanto all’inesistenza di fatti estintivi, impeditivi o modificativi del rapporto e del credito mentre non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” ovvero della “causa petendi” della originaria domanda (vedi, per tutte: Cass. 12 maggio 2003, n. 7272; Cass. 24 marzo 2006, n. 6628). Della necessità che vi sia un atto giurisdizionale divenuto cosa giudicata, ai fini dell’applicabilità della conversione del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 2953 cod. civ. si ha conferma anche nella consolidata giurisprudenza secondo cui, in tema di riscossione delle imposte e delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie, tale conversione non opera se la definitività dell’accertamento deriva non da una sentenza passata in giudicato, ma dalla dichiarazione di estinzione del processo tributario per inattività delle parti (tra le tante, di recente: Cass. 6 marzo 2015, n. 4574)”.

Nella sentenza in argomento sono presenti nuove indicazioni che valgono non soltanto per i contributi INPS, come si evince chiaramente, ai quali è riferito il procedimento in esame, ma si estendono a tutte le entrate dello Stato, tributarie e non, e degli enti locali, incluse le sanzioni amministrative. Pertanto, l’interpretazione data è anche funzionale all’oggi, e offre elementi di valutazione per aderire o meno alla rottamazione dei ruoli delle cartelle di Equitalia. Le cartelle notificate oltre i termini “brevi”, non precedute da sentenze o da atto interruttivo (per es. sollecito o intimazione), ovvero 5 anni in assenza di specifica previsione, potrebbero essere già prescritte e quindi il contribuente non avrebbe alcun interesse alla definizione agevolata come previsto dal decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio 2017. Qualora l’Agenzia delle Entrate in futuro avanzerà delle pretese, occorrerà però impugnare il provvedimento dinanzi al giudice, chiedendo l’applicazione dei principi così affermati dalle Sezioni Unite.

Tornando ancora al caso di specie, esso infatti interessa un commerciante che aveva ricevuto una cartella di pagamento per alcune annualità di contributi previdenziali personali dovuti all’INPS: la cartella viene notificata con un ritardo di oltre 5 anni, ovvero oltre il termine prescrizionale breve.

Il contribuente si è opposto alla cartella ma oltre il termine perentorio di 40 giorni previsto per l’impugnazione. Il Tribunale di Catania adito dichiara l’opposizione non ammissibile, richiamando l’applicazione della prescrizione ordinaria decennale per via del ritardo nell’impugnazione. Di diverso avviso la Corte d’Appello, che afferma prescritto il credito vantato dall’INPS con quella cartella di pagamento e la non applicabilità del termine di prescrizione ordinario.

A questo punto è l’INPS a ricorrere in Cassazione e la questione viene affidata alle Sezioni Unite.

La Suprema Corte stabilisce che la conversione della prescrizione da breve a ordinaria è legittima soltanto per effetto di una sentenza passata in giudicato, di un decreto ingiuntivo che abbia acquisito efficacia di giudicato formale e sostanziale, oppure di un decreto o sentenza penale di condanna divenuti definitivi. Non bisogna infatti omettere che la cartella di pagamento, pur avendo le caratteristiche di un atto esecutivo, è e rimane un atto amministrativo, espressione del potere di autotutela e autoaccertamento della Pubblica Amministrazione, e come tale inidonea ad acquisire efficacia di giudicato.

La Cassazione ha allora statuito allora quell’importante principio di diritto a cui si era fatto riferimento: “… la mancata impugnazione di un qualunque atto impositivo non comporta l’allungamento del termine prescrizionale, al contrario del diritto di credito contenuto in una sentenza passata in giudicato, che invece si prescrive in dieci anni (…). La decorrenza del termine per opporsi alla cartella di pagamento, dunque – osserva la Cassazione – produce solo l’effetto dell’irretrattabilità del credito, ma non anche l’allungamento dei termini prescrizionali”.

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