CASSAZIONE SENTENZE

E’ frode fiscale riportare falsi dati in bilancio

Tributi – Imposte sui redditi – IVA – False dichiarazioni – Violazioni – Sanzioni penali – Art. 2, D.lgs.74/2000

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40448 del 12/9/2018, ha stabilito il principio secondo il quale si configura il reato di frode fiscale quando nella dichiarazione dei redditi il contribuente indichi elementi passivi fittizi, con fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti, idonei a esporre costi fittizi in bilancio.

In particolare, la Corte ha precisato che ai fini della sussistenza del reato, per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, in base alle norme dell’ordinamento tributario, sia a intendersi qualunque documentazione atta a fornire la prova delle operazioni in esse documentate.

Si tratta, pertanto, di una valutazione di fatto basata sulle caratteristiche estrinseche e sul contenuto del documento che può essere fatta sin dalla fase dell’accertamento fiscale.

Poiché alla dichiarazione non vengono materialmente allegati i documenti, ai fini della consumazione del reato basta che nella parte dedicata alla quantificazione degli elementi passivi siano graficamente espressi in cifra i dati numerici corrispondenti, in tutto o in parte, a quelli che risultano dalle fatture passive o dagli altri documenti emessi per operazioni inesistenti.

Inoltre, è reputato necessario che tali documenti siano registrati nelle scritture contabili o detenuti a fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

In pratica, secondo quanto prevede l’art. 21, DPR 633/1972, per ciascuna operazione imponibile ai fini IVA il soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio emette fattura, anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili: l’art. 21 non prevede requisiti di forma tipici della fattura, tale da poterla individuare in base al suo aspetto esteriore, ma ne disciplina solo il contenuto.

Nel caso in esame i Supremi giudici hanno respinto il ricorso dell’imputato avverso la condanna alla pena di otto mesi di reclusione, oltre alle pene accessorie, inflittagli dalla Corte d’Appello a seguito di giudizio abbreviato, in ordine al reato di cui all’art. 2 del D.lgs. 74/2000, commesso in qualità di legale rappresentante di una società di capitali.

Nel caso di specie l’imputato riportava nel modello di dichiarazione Unico 2011, relativo alla società da lui rappresentata, alcuni elementi passivi fittizi utilizzando una fattura dell’importo di 210.000 euro apparentemente emessa da altra società.

La difesa, intervenendo nello specifico, sottolineava che il documento in oggetto non poteva dimostrare il reato in quanto non in possesso dei requisiti di forma necessari per essere definita “fattura”, trattandosi di un mero foglio di carta, in parte scritto a mano e in parte dattiloscritto.

Di diverso avviso gli Ermellini, che hanno riconosciuto nel documento tutte le caratteristiche della fattura valorizzando, ai fini del giudizio di responsabilità, i seguenti fattori, come l’iscrizione in bilancio e il conseguimento di un credito d’imposta corrispondente all’importo dell’IVA fatturata.

Pertanto gli Ermellini hanno confermato la sentenza impugnata, respingendo il ricorso.

Nel fare questo, hanno avuto modo di fornire chiarimenti circa il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2, D.lgs. n. 74/2000. I Massimi giudici, con articolata sentenza, affermano che: “… Orbene, è sufficiente leggere la descrizione del documento effettuata dal ricorrente per concludere che essa è in tutto e per tutto sovrapponibile a quella che ne fa la Corte territoriale e, prima ancora, il primo Giudice. Il che, da un lato, esclude che la base fattuale del ragionamento della Corte di appello sia viziato da errore percettivo/revocatorio, dall’altro dimostra che l’eccepito travisamento riguarda la valutazione che del documento è stata fatta in sede di merito. Sennonché, è questo il punto, l’interpretazione del contenuto della prova è affare del giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità solo se manifestamente illogica o (il che è lo stesso) irrazionale. Non si può certo sostenere che la valutazione del contenuto e la sua affermata attitudine ad essere interpretato alla stregua di una fattura sia frutto di un ragionamento palesemente eccentrico, avuto riguardo alla sua conformazione esteriore, all’iscrizione in bilancio, alla indicazione del corrispondente elemento passivo nella dichiarazione annuale. La condotta incriminata dall’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000 consiste nell’indicare (nella dichiarazione) gli elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. . Secondo la definizione che ne dà l’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2000, «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». Poiché alla dichiarazione non vengono materialmente allegati i documenti, ai fini della consumazione del reato è necessario e sufficiente che: a) nella parte dedicata alla quantificazione degli elementi passivi vengano graficamente espressi in cifra i dati numerici corrispondenti, in tutto o in parte, a quelli che risultano dalle fatture passive o dagli altri documenti emessi per operazioni inesistenti (ciò che è avvenuto nel caso di specie); b) tali fatture o documenti siano registrati nelle scritture contabili o detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (ciò che è avvenuto nel caso di specie). . L’avvalersi delle fatture (o altri documenti per operazioni inesistenti) costituisce modalità tipica della condotta che ne qualifica la specifica offensività, rendendola più pericolosa rispetto alle altre. Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti condivide con gli altri reati tributari la tutela del medesimo bene giuridico, che consiste nel dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche, ciascuno in ragione della propria capacità contributiva (art. 53, Cost.), dovere che costituisce a sua volta specifica proiezione del più generale dovere di solidarietà economico-sociale il cui adempimento è richiesto a tutti i consociati dall’art. 2, Cost. Il reato è illecito di modo necessariamente lesivo ed il delitto in questione sanziona uno dei possibili modi di aggressione al bene, messo in pericolo dalla infedele rappresentazione della capacità contributiva. Tale modalità di aggressione è comune agli altri reati in materia di dichiarazione di cui agli artt. 3 e 4, che prevedono ipotesi decrescenti di gravità del pericolo, derivanti dalla combinazione di soglie di punibilità con i diversi modi di rappresentazione non veritiera della capacità contributiva, ma l’utilizzo di fatture (o altri documenti di analogo rilievo probatorio) per operazioni inesistenti è, tra tutte, la forma ritenuta più insidiosa e pericolosa, la cui sterilizzazione, mediante la minaccia della sanzione penale, non tollera soglie di punibilità; il delitto di cui all’art. 3, è punito allo stesso modo, ma l’utilizzo di altri artifici (così la rubrica), evidentemente diversi, per forma (fatture o documenti analoghi) e oggetto (le operazioni inesistenti), da quelli tipizzati dall’art. 2, sposta verso l’alto l’asticella della rilevanza penale e della conseguente necessità della sanzione penale, applicabile solo se la rappresentazione della capacità contributiva è alterata oltre una certa percentuale e determina un’evasione di imposta superiore a trentamila euro; tali soglie e tali percentuali aumentano, sensibilmente, se la dichiarazione, pur senza avvalersi degli artifici indicati negli artt. 2 e 3, non rispecchia fedelmente la capacità contributiva. Il pericolo, che il ricorso alla fattura per operazioni inesistenti determina e che la minaccia della sanzione penale intende prevenire, è individuato dallo stesso legislatore ed è costituito dall’ostacolo all’accertamento e dall’induzione in errore dell’amministrazione (così l’art. 3, comma 1, che esprime un concetto trasversale anche al delitto in esame) sulla capacità contributiva dell’obbligato. Se la fattura o il documento analogo non sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o non sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il reato di dichiarazione fraudolenta non sussiste; se ne sussistono i presupposti, potrebbe configurarsi il delitto di dichiarazione infedele di cui all’art. 4. La giurisprudenza di legittimità, in linea con la prevalente dottrina, afferma che il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte dovute, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica (Cass. Sez. U, n. 1235 del 19/01/2011). Già all’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 74 del 2000, la Suprema Corte aveva affermato che il legislatore ha individuato “nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie, e nella lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte dovute, piuttosto che nella generica trasparenza fiscale, l’oggetto giuridico della tutela penale” (Cass. Sez. U, n. 27 del 25/10/2000). Secondo quanto prevede l’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972, per ciascuna operazione imponibile ai fini IVA il soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio emette fattura, anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili. L’art. 21 non prevede requisiti di forma tipici della fattura, tale da poterla individuare in base al suo aspetto esteriore; ne disciplina solo il contenuto. La fattura, anche se emessa in formato elettronico, deve contenere le informazioni necessarie a quantificare la base imponibile dell’imposta dovuta, così come analiticamente indicate dall’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972, che sono finalizzate, in buona sostanza, a individuare senza margini di incertezza il luogo, la data, l’oggetto e il corrispettivo della prestazione o della cessione, i soggetti attivi e passivi dell’operazione. La fattura attiva deve essere contrassegnata da un numero progressivo che la identifichi in modo univoco (art. 21, comma 2, lett. a, d.P.R. n. 633 del 1972) ed entro quindici giorni dalla sua emissione deve essere annotata nel registro delle fatture di cui all’art. 23, d.P.R. n. 633 del 1972. Le fatture e le bollette doganali relative ai beni e ai servizi acquistati o importati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione (cd. fatture passive), devono essere numerate in ordine progressivo e annotate dal contribuente nel registro degli acquisti di cui all’art. 25, d.P.R. n. 633 del 1972 anteriormente alla liquidazione periodica, ovvero alla dichiarazione annuale, nella quale è esercitato il diritto alla detrazione della relativa imposta. Alle fatture l’art. 21, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 equipara, come visto, le note, i conti, le parcelle e documenti “simili”. L’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2002, dal canto suo, individua nominativamente solo le fatture, attribuendo rilevanza penale anche a tutti gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie. Sicché certamente hanno rilievo probatorio analogo alle fatture, come detto, i documenti espressamente indicati dall’art. 21, comma 1, cit. (note, conti e parcelle), la parte figlia del bollettario di cui all’art. 32, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 32, comma 2), ma anche le bollette doganali (art. 25, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972; art. 2, d.P.R. 6 ottobre 1978, n. 627), gli scontrini fiscali e le ricevute fiscali (emessi in sostituzione delle fatture: legge 26 gennaio 1983, n. 18 per gli scontrini fiscali; art. 8, legge 10 maggio 1976, n. 249 per le ricevute fiscali; art. 6, comma 3, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 per entrambi), il documento attestante la vendita dei mezzi tecnici di cui all’art. 74, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 633 del 1972 (cfr., sul punto, l’art. 6, comma 3-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471), i titoli di accesso emessi mediante apparecchi misuratori fiscali ovvero mediante biglietterie automatizzate dalle imprese che forniscono le manifestazioni e gli spettacoli di cui all’allegato C al d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 74-quater, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972), i documenti di trasporto (art. 21, comma 4, lett. a, d.P.R. n. 633 del 1972; art. 1, comma 3, d.P.R. 14 agosto 1996, n. 472; 6, comma 3, d.lgs. n. 471, cit.), le bolle di accompagnamento (per i residui casi in cui ne è ancora previsto l’utilizzo: art. 1, d.P.R. 6 ottobre 1978, n. 627), le schede carburanti (d.P.R. 10 novembre 1997, n. 444). Occorre essere avvertiti del fatto che, in ossequio al principio di tassatività, l’interpretazione della norma in questione non può risentire di procedure analogiche che ne estendano l’ambito applicativo oltre quello fatto palese dal senso delle parole utilizzate. Sicché i documenti rilevanti ai fini dei reati di cui agli artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000 sono solo quelli che:

  1. a) hanno rilievo probatorio analogo a quello delle fatture;
  2. b) hanno tale rilievo in base a norme tributarie.

La giurisprudenza civile di questa Corte insegna, al riguardo, che dal punto di vista processuale, la fattura è un documento che non è assistito da alcuna presunzione di veridicità e la cui corrispondenza a vero può essere contestata dall’amministrazione finanziaria anche mediante presunzioni semplici (Cass. civ., Sez. 5, n. 2935 del 13 febbraio 2015). L’analogia, dunque, deve riguardare la rilevanza probatoria attribuita al documento da una norma tributaria sostanziale e non da una norma processuale. Gli altri documenti, che tale rilevanza probatoria non hanno o che la hanno in base a norme diverse da quelle tributarie, se falsi costituiscono oggetto materiale della diversa condotta tipizzata dall’art. 3, d.lgs. n. 74 del 2000; sicché stabilire se un documento ha o meno rilievo probatorio analogo alle fatture in base alle norme tributarie equivale a tracciare la linea di confine tra le due diverse fattispecie di reato, con conseguenze di non secondario momento (sopratutto se si pensa che ai fini del reato di cui all’art. 3, cit., rileva il congiunto superamento delle soglie di punibilità di cui al primo comma). Si tratta di operazione ermeneutica non semplice se si considera che lo stesso art. 21, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 contiene una definizione aperta di fattura, estesa, come detto, alle note, conti, parcelle, e simili. Si deve perciò ritenere, che i documenti simili siano solo quelli che, condividendo la natura e la finalità della fattura: a) devono essere emessi in concomitanza o a causa di un’operazione imponibile; b) hanno funzione descrittiva dell’operazione stessa e dell’imposta dovuta. Indicazioni in tal senso possono essere tratte dalla possibilità, espressamente prevista dall’art. 6, comma 8, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per il cessionario/committente che abbia acquistato beni e servizi senza che sia stata emessa fattura o con emissione di fattura irregolare, di presentare egli stesso un documento sostitutivo “dal quale risultino le indicazioni prescritte dall’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972”. Ai fini del delitto di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000, le fatture o gli altri documenti aventi analogo rilievo probatorio devono rappresentare “elementi passivi fittizi”, dovendosi intendere per tali “le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta” (art. 1, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158). Il rilievo probatorio analogo a quello delle fatture del documento da queste ultime diverso è dunque quello che, in base alle norme tributarie, concorre alla definizione dell’oggetto dell’obbligazione tributaria e dunque della pretesa erariale, ma tali documenti hanno rilevanza penale solo se la diminuiscono. Il richiamo alle norme tributarie ha perciò lo scopo di restringere l’area della penale rilevanza a quei documenti che, in base a tali norme, sono strutturalmente e funzionalmente assimilabili alle fatture, o forse sarebbe meglio dire, sostitutivi, o equipollenti o alternativi ad esse. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella nozione di “altri documenti” rientrano tutti quelli aventi, a fini fiscali, valore probatorio analogo alle fatture, quali, a titolo esemplificativo, le ricevute fiscali ed i documenti da cui risultino spese deducibili dall’imposta, come le ricevute per spese mediche e per interessi sui mutui o le schede carburanti (Cass. Sez. III, n. 5642 del 01/12/2011, dep. il 14/02/2012; Cass. Sez. III, n. 2156 del 18/10/2011, dep. Il 19/01/2012, ha spiegato come rispetto all’altra ipotesi criminosa della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici prevista dall’art. 3, l’elemento che qualifica la fattispecie prevista dall’art. 2 è proprio l’efficacia probatoria del documento utilizzato. Secondo Cass. Sez. III, n. 48486 del 24/11/2011, integra il delitto di dichiarazione fraudolenta la predisposizione di documentazione sanitaria, materialmente falsa, apparentemente emessa da cliniche private, utilizzata da numerosi contribuenti per esporre nelle dichiarazioni IRPEF spese sanitarie mai sostenute, così ottenendo, attesa la loro deducibilità nella misura del 19%, un rimborso non dovuto). In conclusione, è evidente, conformemente alla “ratio” dell’incriminazione della condotta in esame, che, ai fini della sussistenza del reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000, per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti devono intendersi quelli che, a prescindere dal “nomen”, hanno l’attitudine, in base alle norme dell’ordinamento tributario, a fornire la prova delle operazioni in essi documentati. A tal fine non è necessario stabilire “ex post” se il documento possa avere tale attitudine, ma è sufficiente che, per le sue caratteristiche estrinseche e per il suo contenuto, tale natura non possa essere esclusa “ictu oculi” in base alle norme dell’ordinamento tributario sin dalla fase dell’accertamento fiscale. Si tratta, come detto, di una valutazione di fatto che, per sua natura, pertiene al giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità negli angusti limiti sopra indicati. Nel caso di specie i Giudici di merito hanno insindacabilmente interpretato l’atto in base al suo contenuto, alla indicazione dell’imposta dovuta, alla sua iscrizione in contabilità, alla indicazione del corrispondente elemento passivo nella dichiarazione annuale, alla sua attitudine ingannatoria non esclusa con palmare immediatezza”.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 12 settembre 2018, n. 40448

 

Sul ricorso proposto da:

S.M. nato a FERRERA ERBOGNONE il 31/07/1936 avverso la sentenza del 16/06/2017 della CORTE APPELLO di MILANO

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIULIO ROMANO che ha concluso

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto

udito il difensore Avv. Roberto IANNACCONE

si riporta ai motivi 44093/2017

Ritenuto in fatto

  1. Il sig. M.S. ricorre per l’annullamento della sentenza del 16/06/2017 della Corte di appello di Milano che, rigettando la sua impugnazione, ha confermato la condanna alla pena (principale) di otto mesi di reclusione (oltre pene accessorie) inflitta, con sentenza del 18/02/2016 pronunciata a seguito di giudizio abbreviato dal Tribunale di Pavia, per il reato di cui all’art. 2, commi 1 e 2, d.lgs. n. 74 del 2000, perché, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva indicato nella dichiarazione Mod. Unico 2011 della società <<S. S.r.I.>>, della quale era amministratore unico, elementi passivi fittizi avvalendosi della fattura n. 3 del 25/03/2010 dell’importo di €. 210.000,00 (oltre IVA) apparentemente emessa dalla società <<C. S.r.l. in liquidazione».

1.1. Con il primo motivo, deducendo la mancanza dell’elemento oggettivo del reato, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., il travisamento della prova e la conseguente erronea applicazione della legge.

Precisa che il documento di cui si è avvalso non ha i requisiti di forma della “fattura”, trattandosi di un mero foglio di carta intestata sul quale la ragione sociale della società emittente è stato parzialmente scritto a mani, al pari dell’indirizzo e del numero della fattura. Invece, l’indirizzo della società destinataria, la data, la laconica descrizione della prestazione (“prestazioni di servizi svolti nell’anno 2009”), la colonna che indica l’imponibile, l’IVA e il totale sono scritti con caratteri dattiloscritti. In un foglio di tal fatta si fa fatica – afferma – a scorgere una fattura emessa nei rapporti tra società commerciali. Non si può condividere l’opposta conclusione dei Giudici di merito che nel disattendere la tesi difensiva hanno valorizzato i seguenti fattori:

  1. a) l’iscrizione in bilancio del documento, che secondo la Corte di appello riveste tutte le caratteristiche formali della fattura;
  2. b) il conseguimento di un credito di imposta corrispondente all’importo dell’IVA fatturata.

Sennonché, deduce, da un lato non si può condividere il giudizio di non totale inidoneità ingannatrice del documento, formulato sin dal primo grado nonostante le modalità della sua confezione insinuino il ragionevole dubbio su tale idoneità tale da escludere quanto meno la certezza della sussistenza materiale del reato; dall’altro il credito di imposta è stato ottenuto mediante l’apposizione del corrispondente importo sulla apposita casella della dichiarazione annuale.

Il fatto, dunque, integra il diverso reato di cui all’art. 3, d.lgs. n. 74 del 2000, che, in virtù della clausola di salvezza formulata in apertura, funge da residuo contenitore dei casi non riconducibili alla fattispecie di reato di cui all’art. 2 che lo precede. Ne consegue che il fatto, così come accertato, avrebbe dovuto essere ricondotto nell’alveo della fattispecie di cui all’art. 3, cit., che nella sua versione vigente all’epoca del fatto (21/09/2011) ne escludeva la punibilità per il mancato superamento delle soglie di punibilità.

1.2.Con il secondo motivo, deducendo la falsità materiale del documento, eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., il travisamento della relativa prova e, comunque, la contraddittorietà con atti del processo specificamente individuati, l’omessa considerazione di tale prova decisiva e la conseguente erronea applicazione della legge penale.

Considerato in diritto

  1. Il ricorso è inammissibile perché proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità e manifestamente infondato.
  2. Deve in primo luogo essere stigmatizzato il fatto che le dedotte violazioni di legge si avvalgono di argomenti che, attraverso l’eccepito travisamento della prova (tipico vizio di motivazione), sollecitano una sostanziale rivisitazione del fatto proponendone uno diverso da quello che risulta dal testo del provvedimento impugnato.

L’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., presuppone che il fatto sia esclusivamente quello ricavabile dal testo della motivazione; quando, come nel caso di specie, il fatto posto a base dell’eccezione è diverso, anche se “recuperato” mediante l’eccepito travisamento della prova, ne risente la tenuta stessa degli argomenti difensivi che, “inquinati” da inammissibili deduzioni fattuali, mostrano tutta la loro debolezza.

4.1. Occorre poi intendersi sul senso da attribuire al travisamento della prova che vizia la motivazione sotto il profilo della sua contraddittorietà con atti del processo specificamente indicati.

4.2. Il travisamento della prova è configurabile solo quando si introduce nella motivazione una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia; il relativo vizio ha natura decisiva solo se l’errore accertato sia idoneo a disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774; Sez. 2, n. 47035 del 03/10/2013, Giugliano, Rv. 257499).

4.3. Il travisamento della prova, dunque, consiste in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice ed il sillogismo che ad esso presiede. In particolare, consiste nell’affermare come esistenti fatti certamente non esistenti ovvero come inesistenti fatti certamente esistenti. Il travisamento della prova rende la motivazione insanabilmente contraddittoria con le premesse fattuali del ragionamento così come illustrate nel provvedimento impugnato, una diversità tale da non reggere all’urto del contro-giudizio logico sulla tenuta del sillogismo. Il travisamento è perciò decisivo quando la frattura logica tra la premessa fattuale del ragionamento e la conclusione che ne viene tratta è irreparabile.

Come recentemente ribadito da Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, n.m. sul punto, il travisamento della prova sussiste quando emerge che la sua lettura sia affetta da errore “revocatorio”, per omissione, invenzione o falsificazione. In questo caso, difatti, la difformità cade sul significante (sul documento) e non sul significato (sul documentato).

4.4. Sul punto si rendono necessarie le seguenti ulteriori precisazioni.

4.5. Il “travisamento del fatto” (e non della prova) era tradizionalmente inteso quale vizio logico che aveva ad oggetto la ricostruzione dei fatti insanabilmente in contrasto con la realtà indiscussa od almeno manifesta nel processo (Sez. 2, n. 1195 del 01/07/1965, dep. 1967, Wobbe), quando cioè la pronuncia fosse emanata sul presupposto dell’esistenza o inesistenza di fatti, che invece dagli atti risultino, di certo, inesistenti o esistenti, con esclusione del momento valutativo della prova (Sez. 1, n. 86 del 25/01/1966, Spucches).

Il nuovo codice di rito ha voluto mantenere «il sindacato sul piano della legittimità, evitando gli eccessi (…) che hanno talvolta dato luogo a invasioni da parte del giudice di legittimità dell’area in giudizio riservata al giudice di merito» (Relazione al progetto del codice di procedura penale). L’iniziale formulazione dell’art. 606, lett. e), era perciò chiaramente finalizzata a evitare che il giudizio di legittimità si trasformasse, di fatto, in un’ulteriore grado di giudizio di merito, vietando qualsiasi incursione nel materiale raccolto nelle precedenti fasi di merito ed imponendo come oggetto di valutazione della logicità, congruità e coerenza della sentenza esclusivamente il testo della motivazione.

Coerentemente, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato il principio per il quale il travisamento del fatto intanto poteva essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto risultasse inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall’art. 606, lett. e), cod. proc. pen.; l’accertamento di esso richiedeva, pertanto, la dimostrazione, da parte del ricorrente, dell’avvenuta rappresentazione, al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicché la Corte di cassazione potesse, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi fossero stati valutati (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimo; nello stesso senso, Sez. 4, n. 31064 del 02/07/2002).

L’art. 8, comma 1, legge n. 46 del 2006, ha esteso l’ambito della deducibilità del vizio di motivazione anche ad “altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.

Il legislatore ha così introdotto il “travisamento della prova” (e non del fatto) quale ulteriore criterio di giudizio della contraddittorietà estrinseca della motivazione ma ciò non muta, alla luce delle considerazioni che precedono, la natura dell’indagine di legittimità il cui oggetto resta la motivazione del provvedimento impugnato, l’esame della cui illogicità non può mai trasmodare in un inammissibile e rinnovato esame dell’intero compendio probatorio già utilizzato dal giudice di merito per giungere alle sue conclusioni. Il travisamento, insomma, deve riguardare uno o più specifici atti del processo, non il fatto nella sua interezza.

4.6. Ne consegue che:

  1. a) il vizio di motivazione non può essere utilizzato per spingere l’indagine di legittimità oltre il testo del provvedimento . impugnato, nemmeno quando ciò sia strumentale a una diversa ricomposizione del quadro probatorio che, secondo gli auspici del ricorrente, possa condurre il fatto fuori dalla fattispecie incriminatrice applicata;
  2. b) l’esame può avere ad oggetto direttamente la prova solo quando se ne denunci il travisamento, purché l’atto processuale che la incorpora sia allegato al ricorso (o ne sia integralmente trascritto il contenuto) e possa scardinare la logica del provvedimento creando una insanabile frattura tra il giudizio e le sue basi fattuali;
  3. c) la natura manifesta della illogicità della motivazione del provvedimento impugnato costituisce un limite al sindacato di legittimità che impedisce alla Corte di cassazione di sostituire la propria logica a quella del giudice di merito e di avallare, dunque, ricostruzioni alternative del medesimo fatto, ancorché altrettanto ragionevoli.

4.7. Non è dunque consentito, in sede di legittimità, proporre un’interlocuzione diretta con la Suprema Corte in ordine al contenuto delle prove già ampiamente scrutinate in sede di merito sollecitandone l’esame e proponendole quale criterio di valutazione della illogicità manifesta della motivazione; in questo modo si sollecita la Corte di cassazione a sovrapporre la propria valutazione a quella dei Giudici di merito laddove, come detto, ciò non è consentito, nemmeno quando venga eccepito il travisamento della prova.

Il travisamento non costituisce il mezzo per valutare nel merito la prova, bensì lo strumento – come detto – per saggiare la tenuta della motivazione alla luce della sua coerenza logica con i fatti sulla base dei quali si fonda il ragionamento.

4.8. Orbene, è sufficiente leggere la descrizione del documento effettuata dal ricorrente per concludere che essa è in tutto e per tutto sovrapponibile a quella che ne fa la Corte territoriale e, prima ancora, il primo Giudice.

Il che, da un lato, esclude che la base fattuale del ragionamento della Corte di appello sia viziato da errore percettivo/revocatorio, dall’altro dimostra che l’eccepito travisamento riguarda la valutazione che del documento è stata fatta in sede di merito. Sennonché, è questo il punto, l’interpretazione del contenuto della prova è affare del giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità solo se manifestamente illogica o (il che è lo stesso) irrazionale. Non si può certo sostenere che la valutazione del contenuto e la sua affermata attitudine ad essere interpretato alla stregua di una fattura sia frutto di un ragionamento palesemente eccentrico, avuto riguardo alla sua conformazione esteriore, all’iscrizione in bilancio, alla indicazione del corrispondente elemento passivo nella dichiarazione annuale.

  1. La condotta incriminata dall’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000 consiste nell’indicare (nella dichiarazione) gli elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

5.1. Secondo la definizione che ne dà l’art. 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2000, «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi».

5.2. Poiché alla dichiarazione non vengono materialmente allegati i documenti, ai fini della consumazione del reato è necessario e sufficiente che: a) nella parte dedicata alla quantificazione degli elementi passivi vengano graficamente espressi in cifra i dati numerici corrispondenti, in tutto o in parte, a quelli che risultano dalle fatture passive o dagli altri documenti emessi per operazioni inesistenti (ciò che è avvenuto nel caso di specie); b) tali fatture o documenti siano registrati nelle scritture contabili o detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria (ciò che è avvenuto nel caso di specie).

5.3. L’avvalersi delle fatture (o altri documenti per operazioni inesistenti) costituisce modalità tipica della condotta che ne qualifica la specifica offensività, rendendola più pericolosa rispetto alle altre.

5.4. Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti condivide con gli altri reati tributari la tutela del medesimo bene giuridico, che consiste nel dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche, ciascuno in ragione della propria capacità contributiva (art. 53, Cost.), dovere che costituisce a sua volta specifica proiezione del più generale dovere di solidarietà economico-sociale il cui adempimento è richiesto a tutti i consociati dall’art. 2, Cost.

5.5. Il reato è illecito di modo necessariamente lesivo ed il delitto in questione sanziona uno dei possibili modi di aggressione al bene, messo in pericolo dalla infedele rappresentazione della capacità contributiva. Tale modalità di aggressione è comune agli altri reati in materia di dichiarazione di cui agli artt. 3 e 4, che prevedono ipotesi decrescenti di gravità del pericolo, derivanti dalla combinazione di soglie di punibilità con i diversi modi di rappresentazione non veritiera della capacità contributiva, ma l’utilizzo di fatture (o altri documenti di analogo rilievo probatorio) per operazioni inesistenti è, tra tutte, la forma ritenuta più insidiosa e pericolosa, la cui sterilizzazione, mediante la minaccia della sanzione penale, non tollera soglie di punibilità; il delitto di cui all’art. 3, è punito allo stesso modo, ma l’utilizzo di altri artifici (così la rubrica), evidentemente diversi, per forma (fatture o documenti analoghi) e oggetto (le operazioni inesistenti), da quelli tipizzati dall’art. 2, sposta verso l’alto l’asticella della rilevanza penale e della conseguente necessità della sanzione penale, applicabile solo se la rappresentazione della capacità contributiva è alterata oltre una certa percentuale e determina un’evasione di imposta superiore a trentamila euro; tali soglie e tali percentuali aumentano, sensibilmente, se la dichiarazione, pur senza avvalersi degli artifici indicati negli artt. 2 e 3, non rispecchia fedelmente la capacità contributiva. Il pericolo, che il ricorso alla fattura per operazioni inesistenti determina e che la minaccia della sanzione penale intende prevenire, è individuato dallo stesso legislatore ed è costituito dall’ostacolo all’accertamento e dall’induzione in errore dell’amministrazione (così l’art. 3, comma 1, che esprime un concetto trasversale anche al delitto in esame) sulla capacità contributiva dell’obbligato. Se la fattura o il documento analogo non sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o non sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria, il reato di dichiarazione fraudolenta non sussiste; se ne sussistono i presupposti, potrebbe configurarsi il delitto di dichiarazione infedele di cui all’art. 4.

5.6. La giurisprudenza di legittimità, in linea con la prevalente dottrina, afferma che il delitto di frode fiscale si connota come reato di pericolo o di mera condotta, perché il legislatore ha inteso rafforzare in tal modo la tutela dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte dovute, anticipandola al momento della commissione della condotta tipica (Cass. Sez. U, n. 1235 del 19/01/2011). Già all’indomani dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 74 del 2000, la Suprema Corte aveva affermato che il legislatore ha individuato “nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica e il momento di rilevanza penale della fattispecie, e nella lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposte dovute, piuttosto che nella generica trasparenza fiscale, l’oggetto giuridico della tutela penale” (Cass. Sez. U, n. 27 del 25/10/2000).

5.7. Secondo quanto prevede l’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972, per ciascuna operazione imponibile ai fini IVA il soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio emette fattura, anche sotto forma di nota, conto, parcella e simili. L’art. 21 non prevede requisiti di forma tipici della fattura, tale da poterla individuare in base al suo aspetto esteriore; ne disciplina solo il contenuto.

5.8. La fattura, anche se emessa in formato elettronico, deve contenere le informazioni necessarie a quantificare la base imponibile dell’imposta dovuta, così come analiticamente indicate dall’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972, che sono finalizzate, in buona sostanza, a individuare senza margini di incertezza il luogo, la data, l’oggetto e il corrispettivo della prestazione o della cessione, i soggetti attivi e passivi dell’operazione. La fattura attiva deve essere contrassegnata da un numero progressivo che la identifichi in modo univoco (art. 21, comma 2, lett. a, d.P.R. n. 633 del 1972) ed entro quindici giorni dalla sua emissione deve essere annotata nel registro delle fatture di cui all’art. 23, d.P.R. n. 633 del 1972. Le fatture e le bollette doganali relative ai beni e ai servizi acquistati o importati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione (cd. fatture passive), devono essere numerate in ordine progressivo e annotate dal contribuente nel registro degli acquisti di cui all’art. 25, d.P.R. n. 633 del 1972 anteriormente alla liquidazione periodica, ovvero alla dichiarazione annuale, nella quale è esercitato il diritto alla detrazione della relativa imposta.

5.9. Alle fatture l’art. 21, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 equipara, come visto, le note, i conti, le parcelle e documenti “simili”. L’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2002, dal canto suo, individua nominativamente solo le fatture, attribuendo rilevanza penale anche a tutti gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie.

5.10. Sicché certamente hanno rilievo probatorio analogo alle fatture, come detto, i documenti espressamente indicati dall’art. 21, comma 1, cit. (note, conti e parcelle), la parte figlia del bollettario di cui all’art. 32, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 32, comma 2), ma anche le bollette doganali (art. 25, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972; art. 2, d.P.R. 6 ottobre 1978, n. 627), gli scontrini fiscali e le ricevute fiscali (emessi in sostituzione delle fatture: legge 26 gennaio 1983, n. 18 per gli scontrini fiscali; art. 8, legge 10 maggio 1976, n. 249 per le ricevute fiscali; art. 6, comma 3, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 per entrambi), il documento attestante la vendita dei mezzi tecnici di cui all’art. 74, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 633 del 1972 (cfr., sul punto, l’art. 6, comma 3-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471), i titoli di accesso emessi mediante apparecchi misuratori fiscali ovvero mediante biglietterie automatizzate dalle imprese che forniscono le manifestazioni e gli spettacoli di cui all’allegato C al d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 74-quater, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972), i documenti di trasporto (art. 21, comma 4, lett. a, d.P.R. n. 633 del 1972; art. 1, comma 3, d.P.R. 14 agosto 1996, n. 472; 6, comma 3, d.lgs. n. 471, cit.), le bolle di accompagnamento (per i residui casi in cui ne è ancora previsto l’utilizzo: art. 1, d.P.R. 6 ottobre 1978, n. 627), le schede carburanti (d.P.R. 10 novembre 1997, n. 444).

5.11. Occorre essere avvertiti del fatto che, in ossequio al principio di tassatività, l’interpretazione della norma in questione non può risentire di procedure analogiche che ne estendano l’ambito applicativo oltre quello fatto palese dal senso delle parole utilizzate.

5.12. Sicché i documenti rilevanti ai fini dei reati di cui agli artt. 2 e 8 d.lgs. n. 74 del 2000 sono solo quelli che:

  1. a) hanno rilievo probatorio analogo a quello delle fatture;
  2. b) hanno tale rilievo in base a norme tributarie.

La giurisprudenza civile di questa Corte insegna, al riguardo, che dal punto di vista processuale, la fattura è un documento che non è assistito da alcuna presunzione di veridicità e la cui corrispondenza a vero può essere contestata dall’amministrazione finanziaria anche mediante presunzioni semplici (Cass. civ., Sez. 5, n. 2935 del 13 febbraio 2015).

5.13. L’analogia, dunque, deve riguardare la rilevanza probatoria attribuita al documento da una norma tributaria sostanziale e non da una norma processuale.

5.14. Gli altri documenti, che tale rilevanza probatoria non hanno o che la hanno in base a norme diverse da quelle tributarie, se falsi costituiscono oggetto materiale della diversa condotta tipizzata dall’art. 3, d.lgs. n. 74 del 2000; sicché stabilire se un documento ha o meno rilievo probatorio analogo alle fatture in base alle norme tributarie equivale a tracciare la linea di confine tra le due diverse fattispecie di reato, con conseguenze di non secondario momento (sopratutto se si pensa che ai fini del reato di cui all’art. 3, cit., rileva il congiunto superamento delle soglie di punibilità di cui al primo comma).

5.15. Si tratta di operazione ermeneutica non semplice se si considera che lo stesso art. 21, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972 contiene una definizione aperta di fattura, estesa, come detto, alle note, conti, parcelle, e simili.

5.16. Si deve perciò ritenere, che i documenti simili siano solo quelli che, condividendo la natura e la finalità della fattura: a) devono essere emessi in concomitanza o a causa di un’operazione imponibile; b) hanno funzione descrittiva dell’operazione stessa e dell’imposta dovuta. Indicazioni in tal senso possono essere tratte dalla possibilità, espressamente prevista dall’art. 6, comma 8, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per il cessionario/committente che abbia acquistato beni e servizi senza che sia stata emessa fattura o con emissione di fattura irregolare, di presentare egli stesso un documento sostitutivo “dal quale risultino le indicazioni prescritte dall’art. 21, d.P.R. n. 633 del 1972”.

5.17. Ai fini del delitto di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000, le fatture o gli altri documenti aventi analogo rilievo probatorio devono rappresentare “elementi passivi fittizi”, dovendosi intendere per tali “le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta” (art. 1, comma 1, lett. b, d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato dall’art. 1, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158).

5.18. Il rilievo probatorio analogo a quello delle fatture del documento da queste ultime diverso è dunque quello che, in base alle norme tributarie, concorre alla definizione dell’oggetto dell’obbligazione tributaria e dunque della pretesa erariale, ma tali documenti hanno rilevanza penale solo se la diminuiscono. Il richiamo alle norme tributarie ha perciò lo scopo di restringere l’area della penale rilevanza a quei documenti che, in base a tali norme, sono strutturalmente e funzionalmente assimilabili alle fatture, o forse sarebbe meglio dire, sostitutivi, o equipollenti o alternativi ad esse.

5.19. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella nozione di “altri documenti” rientrano tutti quelli aventi, a fini fiscali, valore probatorio analogo alle fatture, quali, a titolo esemplificativo, le ricevute fiscali ed i documenti da cui risultino spese deducibili dall’imposta, come le ricevute per spese mediche e per interessi sui mutui o le schede carburanti (Cass. Sez. III, n. 5642 del 01/12/2011, dep. il 14/02/2012; Cass. Sez. III, n. 2156 del 18/10/2011, dep. Il 19/01/2012, ha spiegato come rispetto all’altra ipotesi criminosa della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici prevista dall’art. 3, l’elemento che qualifica la fattispecie prevista dall’art. 2 è proprio l’efficacia probatoria del documento utilizzato. Secondo Cass. Sez. III, n. 48486 del 24/11/2011, integra il delitto di dichiarazione fraudolenta la predisposizione di documentazione sanitaria, materialmente falsa, apparentemente emessa da cliniche private, utilizzata da numerosi contribuenti per esporre nelle dichiarazioni IRPEF spese sanitarie mai sostenute, così ottenendo, attesa la loro deducibilità nella misura del 19%, un rimborso non dovuto).

5.20. In conclusione, è evidente, conformemente alla “ratio” dell’incriminazione della condotta in esame, che, ai fini della sussistenza del reato di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000, per fatture o altri documenti per operazioni inesistenti devono intendersi quelli che, a prescindere dal “nomen”, hanno l’attitudine, in base alle norme dell’ordinamento tributario, a fornire la prova delle operazioni in essi documentati. A tal fine non è necessario stabilire “ex post” se il documento possa avere tale attitudine, ma è sufficiente che, per le sue caratteristiche estrinseche e per il suo contenuto, tale natura non possa essere esclusa “ictu oculi” in base alle norme dell’ordinamento tributario sin dalla fase dell’accertamento fiscale.

5.21. Si tratta, come detto, di una valutazione di fatto che, per sua natura, pertiene al giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità negli angusti limiti sopra indicati.

5.22. Nel caso di specie i Giudici di merito hanno insindacabilmente interpretato l’atto in base al suo contenuto, alla indicazione dell’imposta dovuta, alla sua iscrizione in contabilità, alla indicazione del corrispondente elemento passivo nella dichiarazione annuale, alla sua attitudine ingannatoria non esclusa con palmare immediatezza.

  1. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

6.1. La condotta dell’avvalersi non richiede, né presuppone che la fattura sia stata emessa da persona diversa dall’autore del reato. Il delitto, infatti, è configurabile anche nel caso in cui la falsa documentazione venga creata dal medesimo utilizzatore che la faccia apparire come proveniente da terzi (in questo senso, Cass. Sez. III, n. 48498 del 24/11/2011, Iossa, Rv. 251626. In motivazione la Corte ha precisato che la “ratio” del reato di frode fiscale risiede nel fatto di punire colui che artificiosamente si precostituisce dei costi sostenuti al fine di abbattere l’imponibile, non presupponendo il concorso del terzo; nello stesso senso, Sez. F, n. 47603 del 31/08/2017, Morini, Rv. 271033).

6.2. Ne consegue che il documento può anche essere contraffatto, anche se dallo stesso soggetto che se ne avvale, non essendoci motivo alcuno per ritenere che il reato di dichiarazione fraudolenta possa essere consumato solo utilizzando fatture ideologicamente false ed emesse da un terzo.

  1. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, che si fissa equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di € 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 27/02/2018.

 

 

 

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