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Dichiarazione fiscale fraudolenta: i costi non sono deducibili

Reati tributari – IVA – Omessa dichiarazione e sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte – Costi per operazioni inesistenti – Responsabilità – Sequestro preventivo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36207 del 6 ottobre 2021, è tornata a deliberare sul reato di dichiarazione fraudolenta con uso di fatture soggettivamente inesistenti, per confermare il sequestro preventivo disposto dal Gip nell’ambito di un’indagine per il reato di cui all’art. 2 del decreto legislativo n. 74/2000 (Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) a carico del legale rappresentante di una Srl.

Gli Ermellini hanno quindi richiamato il noto orientamento della sezione tributaria (ex multis Cass. n. 29977/2019), che afferma che i costi per operazioni che siano inesistenti anche solo sul piano soggettivo non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura una finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto senza che rilevi in senso contrario la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l’IVA al soggetto che ha realmente fornito la prestazione, quale normale conseguenza di ogni interposizione fittizia.

Poiché l’esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si ha diritto, deve ribadirsi che la detrazione IVA è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua la cessione o la prestazione, senza che possano entrare in gioco quelle emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, indipendentemente dalla circostanza che le medesime fatture costituiscano la “copertura” di prestazioni acquisite da altri soggetti.

Giova delineare, in sintesi, la differenza fra operazioni inesistenti dal punto di vista oggettivo, ossia quando la cessione descritta in fattura non si è verificata, e dal punto di vista soggettivo, ossia quando la cessione è reale ma uno o entrambi i soggetti indicati in fattura non sono quelli effettivi.

La Suprema Corte, in materia, continua a dar corso all’orientamento espresso nella sentenza in commento circa la configurabilità del delitto ex art. 2, D.lgs. 74/2000, tramite operazioni soggettivamente inesistenti (in tal senso vedi Cassazione n. 1998/2020 e Cassazione n. 20901/2020), che possono fondare l’indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione, requisito oggettivo previsto dalla fattispecie sanzionatoria di specie.

Va anche ricordata la pronunzia n. 26431/2016 nella quale i Supremi Giudici, riferendosi in particolare all’IVA, osservano che “…la detrazione è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che ha effettuato la prestazione, giacché tutto il sistema del pagamento e del recupero della imposta … si basa sul presupposto che la stessa sia versata a chi ha effettuato prestazioni imponibili, mentre il versamento dell’imposta ad un soggetto non operativo o diverso da quello effettivo consentirebbe un recupero indebito dell’Iva stessa”.

Del resto, anche più recentemente la Suprema Corte, con la pronunzia n.12680/2020, ha osservato che in tema di reati tributari il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l’evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, da intendere in termini di lucida accettazione, da parte dell’agente, dell’evento lesivo e quindi anche del fine di evasione o di indebito rimborso, come conseguenza della sua condotta.

La prova del dolo va desunta dagli elementi indiziari ricavati dalla fattispecie

Da sottolineare, infine, che il legislatore, intervenendo nuovamente sulla materia con la legge di bilancio 2020 ha modificato il D.lgs. 74/2000 – rubricato“Reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” – agendo sia sull’incremento delle pene previste per i reati di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, sia per l’introduzione di una causa di non punibilità nel caso di ravvedimento spontaneo.

L’art. 2 del D.lgs. 74 del 2000 punisce chi indica in una dichiarazione annuale obbligatoria (dei redditi o dell’IVA), elementi passivi fittizi, con la finalità di evadere l’imposta avvalendosi di fatture o di altri documenti, riferiti a operazioni inesistenti: dunque, la registrazione di una fattura falsa è si una condizione necessaria ma non sufficiente per la configurazione del reato, che si consuma solo al momento della presentazione fiscale. Il reato, che ha una consumazione istantanea e questo comporta che la formazione e la raccolta della documentazione, quanto la registrazione nelle scritture contabili, sono penalmente irrilevanti per la configurazione dell’illecito, richiede il dolo specifico, nel quale la condotta è rivolta a evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Il delitto di emissionedi fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è integrato se le fatture o gli altri documenti sono emessi o rilasciati “al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto” (art. 8, c. 2, D.lgs. 74/2000). Il soggetto attivo, oltre a essere consapevole che si tratta di documenti ideologicamente falsi, deve volere e prevedere l’evasione di terzi. È necessario, dunque, che sussista il dolo specifico. Il fine cui tende l’agente deve essere, pertanto, non la propria evasione ma quella di terzi

Tale lineare prospettiva veniva ribadita nella delega di riforma fiscale di cui alla legge 80/2003, il cui art. 2, alla lett. m), prescriveva il principio che la legge penale tributaria dovesse essere riservata ai soli casi di frode e di effettivo e rilevante danno per l’erario. Fa quindi seguito il D.lgs. 158/2015 che, sia pur in linea con la direttrice del D.lgs. 74/2000, interviene sulla disciplina penale tributaristica in modo più articolato: rafforza la sanzione penale per fattispecie più pregnanti per gli interessi erariali con contestuale attenuazione del rigore sanzionatorio per fattispecie con minore disvalore.

Di rilievo appare poi l’introduzione dello strumento della confisca (art. 10, che ha novellato il D.lgs. 74/2000 inserendo l’art. 12-bis), nel caso di condanna o applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal D.lgs. 74/2000. Si tratta di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o il prezzo di detti reati, salvo che non appartengano a persona diversa dal reo, ed eseguibile anche “per equivalente” in caso di impossibilità, ossia: quando non è possibile rivalersi direttamente sul profitto o prezzo del delitto, saranno confiscabili beni per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto.

L’evoluzione del sistema però non si è fermata, essendo il legislatore intervenuto anche più recentemente con il decreto legge 124/2019, convertito nella legge 157/2019, effettuando, rispetto alle innovazioni del 2015, una notevole deviazione se non una vera e propria inversione di marcia, nel senso di un maggior inasprimento degli aspetti punitivi per la repressione del fenomeno dell’evasione fiscale. Infatti, ha operato potenziando l’intervento sanzionatorio dei reati tributari di cui al D.lgs. 74/2000 e con l’introduzione nel sistema penale tributario dell’istituto della confisca allargata, introduzione da segnalare per quanto qui interessa. Come detto, l’art. 10 comma 1 del D.lgs. 158/2015 aveva già introdotto la cosiddetta “confisca tributaria” con l’art. 12-bis, sia nella forma della “confisca diretta”, quando l’ablazione investe beni che costituiscono il profitto, il prodotto o il prezzo del reato o qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato, anche se consistente in un risparmio di spesa (v. Cass. SS.UU. n. 10561/2013), sia della “confisca per equivalente”, ossia altri beni di valore equivalente al profitto.

Per delineare il quadro evolutivo ricordiamo che con la sentenza n. 13747 del 2018 la Corte di Cassazione ha avuto modo anche di affermare che ”…il reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, punito dall’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, sussiste sia nell’ipotesi di inesistenza oggettiva dell’operazione (ovvero quando la stessa non sia mai stata posta in essere nella realtà), sia in quella di inesistenza relativa (ovvero quando l’operazione vi è stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura) sia, infine, nel caso di sovrafatturazione “qualitativa”, in quanto oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.

Alla luce di questo arresto giurisprudenziale, nonché del successivo avutosi con la Sentenza n. 21996 del 2 marzo 2018, molti commentatori hanno sostenuto che la S.C. abbia voluto affermare il principio secondo cui, in tema di dichiarazione fraudolenta a mezzo fatture per operazione inesistenti, il concetto di “inesistenza” ricomprenda accanto all’ipotesi di inesistenza oggettiva o soggettiva anche l’ipotesi di inesistenza giuridica.

Comunque, viene ribadita la considerazione che l’evasione fiscale è un reato grave che racchiude tutti i comportamenti atti a ridurre o eliminare illegittimamente il prelievo fiscale, in violazione delle norme vigenti. Anche se in caso di importi non pagati minimi e di una condotta non particolarmente grave si applicano soltanto sanzioni di carattere economico, il reato di evasione fiscale è punito con la reclusione da 6 mesi a 8 anni. Questo reato non si riferisce a un comportamento specifico: la legge, infatti, punisce tutti quelli che non pagano le tasse o le pagano in maniera nettamente inferiore al dovuto, violando gli obblighi di natura tributaria nei confronti dell’Erario e arrecando un danno allo Stato. Per questo esistono le soglie di evasione che fanno scattare il reato, con la condanna al carcere, o le sanzioni amministrative.

Tanto premesso e tornando alla vicenda odierna, l’Agenzia contestava a una società contribuente un’evasione dell’IVA realizzata avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse da altra società, con indicazione nella dichiarazione dei redditi di elementi passivi fittizi per i periodi d’imposta in contestazione. Il contribuente, quale legale rappresentante della società, si era rivolto alla Suprema Corte per opporsi alla decisione del Tribunale del riesame che aveva rigettato la sua istanza contro il decreto di sequestro, disposto sui beni della società e, per equivalente, a suo carico. Fra i motivi di reclamo la parte contribuente aveva essenzialmente lamentato una violazione di legge relativamente all’importo oggetto della misura cautelare, considerando che la somma sequestrata era risultata pari all’IVA evasa. Sul punto, la Suprema Corte penale ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale affermato in ambito penale in tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, per confermare il giudizio del tribunale del Riesame, aggiungendo che: “ … Il ricorso in cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. (Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009 – dep. 11/11/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008 – dep. 26/06/2008, Ivanov, Rv. 239692). Tuttavia, nella specie non ricorre una violazione di legge (e nemmeno l’apparenza della motivazione) e, conseguentemente, il ricorso deve ritenersi manifestamente infondato. Infatti, il provvedimento impugnato contiene adeguata motivazione, non contraddittoria e non manifestamente illogica – anche se sintetica -, con corretta applicazione dei principi in materia espressi da questa Corte di Cassazione, e rileva come il fumus dei reati in accertamento risulta da molteplici elementi, il mancato rinvenimento della documentazione del trasporto dei beni di cui alle fatture, le dichiarazioni di S. L. e la mancanza di indicazioni del ricorrente sulle operazioni in oggetto.  Del resto, il ricorrente non contesta il fumus dei reati. Relativamente alla richiesta del P.M., per il sequestro nei confronti della società, l’ordinanza impugnata rileva come l’istanza del P.M. comprendeva espressamente la richiesta di sequestro preventivo diretto sui beni della società (per il profitto del reato); ciò sia nella parte motiva e sia “nel dispositivo” nel quale si richiedeva il sequestro preventivo nei confronti del F. solo laddove quello in forma diretta nei confronti della società risultasse infruttuoso. Il ricorso non si confronta con tale specifica motivazione.Relativamente ai beni sequestrati a terzi estranei al reato (conto corrente cointestato e Rapporto di Fondo con C. e D. F.) correttamente l’ordinanza rileva la mancanza di legittimazione del ricorrente a far valere la questione. Infatti, “ In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per sproporzione, eseguito su conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile -artt. 1289 e 1834-, regolativi dei rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ma è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità di tali somme e la conseguente illegittimità del vincolo” (Sez. 6 -, Sentenza n. 24432 del 18/04/2019 Cc. – dep. 31/05/2019 – Rv. 276278 – 01). Del tutto generici i motivi sull’entità del sequestro in relazione all’importo dell’imposta IVA evasa.  Nel caso in esame in relazione all’art 2, d.lgs. 74 del 2000 non possono essere considerati eventuali costi e il profitto del reato consiste nell’imposta utilizzata per il risparmio di spesa (portata in detrazione senza averla pagata): “In tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, i costi relativi alle stesse non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura una finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto senza che rilevi in senso contrario la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l’Iva al soggetto che ha realmente fornito la prestazione, quale normale conseguenza di ogni interposizione fittizia”. (Sez. 3 -, Sentenza n. 29977 del 12/02/2019 Cc. -dep. 09/07/2019 – Rv. 276289 – 01).

Corte di Cassazione – Sentenza 6 ottobre 2021, n. 36207

sul ricorso proposto da:

F. E. nato a SAN VALENTINO TORIO il 25/05/1961 avverso l’ordinanza del 05/10/2020 del TRIB. LIBERTA’ di SALERNO udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO MATTEO SOCCI;

lette le conclusioni del PG PIETRO MOLINO: “Inammissibilità del ricorso”.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Salerno, in sede di riesame, con ordinanza del 5 ottobre 2020 rigettava l’istanza di riesame proposta da F. E., in proprio e quale legale rappresentante della C.A.S.E. s.r.l., avverso il decreto di sequestro preventivo (in via diretta per le società e per equivalente per l’indagato F. E.) disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nocera Inferiore del 3 giugno 2020, in relazione ai reati in accertamento (art. 2 d.lgs. 74 del 2000 perché C.A.S.E. s.r.l. al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti emesse dalla società G.L.A. Trasporti s.a.s. di S. L. con sede in Noia, indicava nella dichiarazione dei redditi elementi passivi fittizi per i periodi di imposta 2015, 2016, e 2017.

In particolare, per l’anno 2015 indicava costi per complessivi euro 373.050,00 di imponibile ed euro 82.071,00 di iva; per l’anno 2016, indicava costi per complessivi euro 118.620,00 di imponibile ed euro 35.886,40 di iva; per l’anno 2017, indicava costi per complessivi euro 46.110,00 di imponibile ed euro 10.144,20 di iva, tutti rappresentati da fatture emesse dalla società G.L.A. Trasporti s.a.s. di S. L.).

2. Ricorre in cassazione l’indagato F. E., in proprio e quale legale rappresentante della C.A.S.E. s.r.l., deducendo i motivi di seguito enunciati.

2. 1. Violazione di legge in quanto il sequestro preventivo nei confronti della società sarebbe stato emesso senza la relativa richiesta del P.M. L’ordinanza oggi impugnata ha ritenuto che la richiesta del P.M. nella parte motiva, integrata con il dispositivo della richiesta, riguardava anche il sequestro preventivo nei confronti della società. Quello che invece deve rilevare è la sola parte del dispositivo e non la motivazione della richiesta. Manca, quindi, la richiesta del P.M. del sequestro nei confronti della società.

2. 2. Violazione di legge in relazione al sequestro effettuato nei confronti di terzi estranei al reato. Per il Tribunale del riesame il ricorrente non sarebbe legittimato a far valere l’invalidità del sequestro nei confronti di terzi. Invece, manca la richiesta del P.M. nei confronti della società e, quindi, non si tratta di legittimazione ma di nullità assoluta del sequestro. Il sequestro è nullo ab origine e, pertanto, nessuna questione di legittimazione si pone per un atto nullo.

2. 3. Violazione di legge relativamente all’importo del sequestro. La somma sequestrata risulta pari all’IVA evasa. Il profitto del reato non può consistere nell’importo dell’IVA evasa ma solo del guadagno, con la detrazione delle spese e di altri importi. Per l’evasione dell’IVA il reato configurabile sarebbe diverso da quello contestato. Ha chiesto, pertanto, l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è inammissibile.

4. Sia per il sequestro preventivo e sia per il sequestro probatorio è possibile il ricorso per cassazione unicamente per motivi di violazione di legge, e non per vizio di motivazione. Nella specie tutti i motivi di ricorso risultano proposti, sostanzialmente, per il vizio di motivazione del provvedimento impugnato, art. 606, comma 1, lettera E, del cod. proc. pen. (nella valutazione sostanziale del ricorso).

Il ricorso in cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. (Sez. 5, n. 43068 del 13/10/2009 – dep. 11/11/2009, Bosi, Rv. 245093; Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008 – dep. 26/06/2008, Ivanov, Rv. 239692).

Tuttavia, nella specie non ricorre una violazione di legge (e nemmeno l’apparenza della motivazione) e, conseguentemente, il ricorso deve ritenersi manifestamente infondato. Infatti, il provvedimento impugnato contiene adeguata motivazione, non contraddittoria e non manifestamente illogica – anche se sintetica -, con corretta applicazione dei principi in materia espressi da questa Corte di Cassazione, e rileva come il fumus dei reati in accertamento risulta da molteplici elementi, il mancato rinvenimento della documentazione del trasporto dei beni di cui alle fatture, le dichiarazioni di S. L. e la mancanza di indicazioni del ricorrente sulle operazioni in oggetto.

Del resto, il ricorrente non contesta il fumus dei reati.

Relativamente alla richiesta del P.M., per il sequestro nei confronti della società, l’ordinanza impugnata rileva come l’istanza del P.M. comprendeva espressamente la richiesta di sequestro preventivo diretto sui beni della società (per il profitto del reato); ciò sia nella parte motiva e sia “nel dispositivo” nel quale si richiedeva il sequestro preventivo nei confronti del F. solo laddove quello in forma diretta nei confronti della società risultasse infruttuoso. Il ricorso non si confronta con tale specifica motivazione.

5. Relativamente ai beni sequestrati a terzi estranei al reato (conto corrente cointestato e Rapporto di Fondo con C. e D. F.) correttamente l’ordinanza rileva la mancanza di legittimazione del ricorrente a far valere la questione. Infatti, “ In tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca per sproporzione, eseguito su conto corrente cointestato all’indagato e a soggetto estraneo al reato, la misura cautelare si estende all’intero importo in giacenza, senza che a tal fine rilevino presunzioni o vincoli posti dal codice civile -artt. 1289 e 1834-, regolativi dei rapporti interni tra creditori e debitori solidali, ma è fatta salva la facoltà per il terzo di dimostrare l’esclusiva titolarità di tali somme e la conseguente illegittimità del vincolo” (Sez. 6 -, Sentenza n. 24432 del 18/04/2019 Cc. – dep. 31/05/2019 – Rv. 276278 – 01).

6. Del tutto generici i motivi sull’entità del sequestro in relazione all’importo dell’imposta IVA evasa.

Nel caso in esame in relazione all’art 2, d.lgs. 74 del 2000 non possono essere considerati eventuali costi e il profitto del reato consiste nell’imposta utilizzata per il risparmio di spesa (portata in detrazione senza averla pagata): “In tema di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, i costi relativi alle stesse non sono mai deducibili, con la conseguenza che la loro indicazione in dichiarazione configura una finalità di evasione e realizza un corrispondente profitto senza che rilevi in senso contrario la circostanza che, pur avendo sostenuto tali costi nei confronti del soggetto fittiziamente interposto, il destinatario della fattura sia tenuto a corrispondere nuovamente l’Iva al soggetto che ha realmente fornito la prestazione, quale normale conseguenza di ogni interposizione fittizia”. (Sez. 3 -, Sentenza n. 29977 del 12/02/2019 Cc. -dep. 09/07/2019 – Rv. 276289 – 01).

Alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di €3.000,00, e delle spese del procedimento, ex art 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 9/02/2021.

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