CASSAZIONE

Definizione agevolata: non è possibile chiedere il rimborso delle somme già pagate

Tributi – IRPEG – Avviso di accertamento – Contenzioso – Rimborso – Agevolazioni fiscali- Definizione agevolata – l.147/2013 – Revoca – Violazione dell’art. 70, c.7, del d.lgs. n. 546/1992 – Inammissibilità

Con l’ordinanza n. 25945 del 5 settembre 2023 la Corte di Cassazione, intervenendo in tema di agevolazioni fiscali ha statuito che per la definizione agevolata delle controversie tributarie vige il principio in base al quale il contribuente non può chiedere il rimborso delle somme pagate in virtù dell’agevolazione fruita, in ragione del fatto che la definizione agevolata anticipa la possibilità di estinguere i debiti iscritti a ruolo contenuti nelle cartelle di pagamento, versando le somme dovute senza corrispondere le sanzioni e gli interessi di mora.

In buona sostanza, l’accertamento con adesione è stato concepito come un istituto deflattivo del contenzioso che consente di rideterminare la pretesa tributaria in contraddittorio con l’Amministrazione finanziaria, beneficiando di sanzioni ridotte a 1/3 del minimo, prima dell’instaurazione del contenzioso tributario; l’istituto permette al contribuente di giungere alla definizione della controversia nella fase pre-contenziosa in contraddittorio con l’ufficio accertatore.

Di fatto, dopo la notifica dell’avviso di accertamento il contribuente e l’Agenzia delle entrate possono definire la vertenza con l’adesione.

Del resto, anche recentemente la legge di bilancio 2023 ha introdotto diverse misure di pace fiscale, tra le quali la possibilità di rottamare le cartelle esattoriali recanti multe e tasse non pagate con una procedura che permette di pagare a rate, e in modo agevolato, i debiti che affidati all’Agenzia delle entrate-Riscossioni da gennaio 2000 al 30 giugno 2022.

Tale disposizione prevede la facoltà, per il contribuente, di estinguere i debiti iscritti a ruolo senza corrispondere le somme affidate all’Agente della riscossione a titolo di interessi e sanzioni, interessi di mora nonché il cosiddetto aggio: sono da considerare nell’importo dovuto le somme a titolo di capitale e le spese per le procedure esecutive e i diritti di notifica.

Gli Ermellini hanno oggi voluto ricordare la sentenza n. 27067/2017, alla quale hanno voluto dare continuità, secondo cui “… il contribuente che abbia chiesto la definizione agevolata di una sanzione, non può richiedere il rimborso delle sanzioni pagate in virtù della definizione agevolata, perché in tal modo si verificherebbe una inammissibile revoca della richiesta di definizione agevolata, per una causa sopravvenuta non espressamente prevista dalla legge (Cass. n. 21413 del 2012; Cass. n. 11735 del 2011)”.

La definizione agevolata preclude al contribuente la possibilità di avanzare pretese di rimborso, dal momento che estingue irrevocabilmente l’obbligazione tributaria riferita alle sanzioni, altrimenti verrebbe svilita la stessa ratio dell’istituto, rendendo peraltro privo di una reale giustificazione il vantaggio che il legislatore tributario ha scelto di assicurare al contribuente che decide di aderire.

La stessa Corte, con l’ordinanza n. 13478/2020 aveva già riaffermato che, sempre in materia di contenzioso tributario, la definizione in adesione di un provvedimento preclude ogni forma di impugnazione successiva dello stesso e, quindi, anche del rimborso.

La definizione agevolata, infatti, è considerata una forma surrettizia di impugnazione.

La vigente interpretazione giurisprudenziale è stata riproposta anche recentemente dalla Suprema Corte in un caso di giudicato formatosi in ordine all’accertamento in sede giudiziale dell’adesione sul valore accertato da parte dei coeredi ex articolo 11, legge 880/1986, escludendo il riesame dei medesimi elementi di fatto nei confronti dei coeredi concordatari.

Nello specifico la dichiarazione di questi ultimi di volersi avvalere di una determinata definizione agevolata completa un atto volontario, frutto di una scelta del contribuente, i cui effetti sono previsti dalla legge, sicché una volta presentata è irrevocabile e non può essere modificata dall’ufficio, né contestata dal contribuente per un ripensamento successivo, ma solo per errore materiale manifesto e riconoscibile.

Si tratta dei principi statuiti dall’ordinanza della Cassazione n. 21459/2023, in accoglimento del ricorso dell’Amministrazione finanziaria avverso una decisione di una Commissione tributaria centrale.

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, una società contribuente riceveva dal locale ufficio

tributario un avviso di accertamento nel quale veniva rettificato il reddito d’impresa. In pendenza del giudizio l’ufficio iscriveva a ruolo, a titolo provvisorio, imposte e sanzioni emettendo due cartelle di pagamento. Rivolgendosi alla giustizia tributaria la parte contribuente vedeva l’accoglimento del ricorso in entrambi i giudizi, con una sentenza però riformata dalla CTR.

La Suprema Corte, con sentenza n. 11720/2016, cassando la decisione di appello e decidendo nel merito, accoglieva l’originario ricorso della contribuente e la società notificava quindi all’Agenzia delle entrate istanza di sgravio e di rimborso con contestuale atto di messa in mora, intimandole, stante la sentenza definitiva degli Ermellini, di rimborsare tutte le somme versate in pendenza del giudizio.

Non avendo l’ufficio ottemperato integralmente al giudicato, la contribuente proponeva ricorso per ottemperanza chiedendo il rimborso delle somme versate in relazione alla cartella emessa.

Con la sentenza in epigrafe indicata, la CTR della Lombardia, con riguardo alla suddetta cartella, respingeva il ricorso.

Avverso a quest’ultima sentenza la parte contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi nei quali essenzialmente lamentava, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 70, comma 7, del D.lgs. 546/1992.

Tale interpretazione è stata però respinta dalla Suprema Corte, che ha invece deliberato che: “… Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 70, comma 7, del d.lgs. n. 546/1992. Deduce che nel giudizio di ottemperanza l’Ufficio aveva sostenuto che, nonostante l’integrale annullamento dell’avviso di accertamento, il rimborso era precluso dalla “rottamazione” della cartella, proponendo così in sostanza un’eccezione che doveva essere invece formulata nel giudizio di legittimità e che, ove accolta, avrebbe comportato l’estinzione parziale del giudizio per cessazione della materia del contendere. La CTR, pertanto, accogliendo tale inammissibile eccezione, non aveva osservato il disposto dell’art. 70, comma 7, del d.lgs. n. 546/1992, il quale impone al giudice dell’ottemperanza di attenersi agli obblighi derivanti dalla sentenza. Il motivo è infondato.

Viene al riguardo in rilievo la peculiare natura “attuativa” del giudizio di ottemperanza, ed in particolare di quello tributario, posto che il giudizio di ottemperanza presenta connotati diversi dall’esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile, perché il suo scopo non è quello di ottenere l’esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione, bensì quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti gli accertamenti indispensabili a “rottamazione” era intervenuta in pendenza del giudizio in cassazione e pertanto l’Ufficio avrebbe dovuto far valere, con specifica eccezione, l’asserita definitività e irripetibilità del pagamento nel giudizio di legittimità, il quale si sarebbe in parte estinto nei limiti della cartella “rottamata”.

Essendosi formato il giudicato sulla nullità dell’avviso di accertamento, il quale copre il dedotto e il deducibile, con conseguente obbligo di restituzione di tutto quanto riscosso dall’Amministrazione finanziaria sulla base del titolo invalido, si palesava illegittima la sentenza impugnata che aveva accolta l’eccezione proposta solo nel giudizio di ottemperanza.

Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 1, commi da 618 a 624, della l. n. 147 del 2013, con riferimento all’art. 111, comma 7, Cost.

Sostiene la ricorrente che le norme sulla definizione agevolata non prevedono che il debito, per effetto dell’adesione, cambi natura, essendo esso derivante da iscrizione a ruolo a titolo provvisorio in pendenza del giudizio, sicché la definitività dei pagamenti rimaneva subordinata all’esito del giudizio sui provvedimenti che li avevano originati.

Rileva, inoltre, che nessuna delle norme che disciplinano la “rottamazione” prevede effetti sul giudizio di merito, come l’estinzione del processo o l’obbligo di rinunzia. I due motivi, esaminabili congiuntamente, sono infondati.

Va, anzitutto, osservato che alcun onere incombeva all’Ufficio di prospettare, nel corso del giudizio di legittimità, l’intervenuto pagamento effettuato a seguito della “rottamazione” della cartella, trattandosi di circostanza che comportava la riduzione della pretesa tributaria oggetto dell’avviso di accertamento.

Il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile non può pertanto essere invocato dalla contribuente per prospettare in pregiudizio dell’Amministrazione finanziaria preclusioni che non sono correlate a questioni che la stessa aveva interesse a far valere nel giudizio di legittimità. Si osserva, inoltre, che, in tema di definizione agevolata delle controversie tributarie, vige il principio in base al quale il contribuente non può chiedere il rimborso delle somme pagate in virtù della definizione agevolata, perché in tal modo si verificherebbe un’inammissibile revoca della richiesta di definizione agevolata per una causa sopravvenuta non espressamente prevista dalla legge (Cass. n. 27067 del 2017, Cass. n. 11735 del 2011)”.

 Corte di Cassazione – Ordinanza 5 settembre 2023, n. 25945

sul ricorso proposto da:

(omissis) S.P.A., in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in (omissis), rappresentata e difesa dall’Avv. (omissis);

– ricorrente –  

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 3826/5/2017 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 27 settembre 2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 giugno 2023 dal Consigliere Antonio Francesco Esposito.

Rilevato che

L’Ufficio emise nei confronti della(omissis)e(omissis) s.r.l. (ora (omissis) (omissis) S.p.A.) avviso di accertamento con il quale veniva rettificato il reddito d’impresa per il periodo d’imposta 1/7/1999 – 30/6/2000.

Il ricorso proposto contro l’atto impositivo venne accolto dalla CTP di Milano con sentenza riformata dalla CTR della Lombardia. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 11720 del 2016, cassando la decisione di appello e decidendo nel merito, accolse l’originario ricorso della contribuente. In pendenza del giudizio, l’Ufficio iscrisse a ruolo, a titolo provvisorio, imposte e sanzioni emettendo due cartelle di pagamento.

In relazione alla cartella n. (omissis), la società chiese ed ottenne la rateazione;

provvide poi al pagamento dell’importo dovuto, in parte ottemperando ai pagamenti alle scadenze previste e per il residuo con il versamento in unica soluzione con i benefici della c.d. “rottamazione”, previsti dall’art. 1, commi da 618 a 624, della l. n. 147 del 2013.

La società notificò quindi all’Agenzia delle entrate istanza di sgravio e di rimborso con contestuale atto di messa in mora, intimandole, stante la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, di rimborsare tutte le somme versate in pendenza del giudizio. Non avendo l’Ufficio ottemperato integralmente al giudicato, la contribuente propose ricorso per ottemperanza chiedendo – per quanto in questa sede rileva – il rimborso delle somme versate in relazione alla cartella n.(omissis). Con la sentenza in epigrafe indicata, la CTR della Lombardia, con riguardo alla suddetta cartella, respinse il ricorso. Osservò il giudice dell’ottemperanza che la contribuente aveva aderito alla definizione agevolata di cui alla l. n. 147 del 2013 che prevede per il debitore la possibilità di estinguere il debito con il pagamento secondo le modalità indicate. La scelta irrevocabile operata dalla contribuente e la conseguente estinzione del debito comportava l’impossibilità di richiedere successivamente la restituzione di quanto versato.

Avverso la sentenza della CTR la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Considerato che

Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 70, comma 7, del d.lgs. n. 546/1992.

Deduce che nel giudizio di ottemperanza l’Ufficio aveva sostenuto che, nonostante l’integrale annullamento dell’avviso di accertamento, il rimborso era precluso dalla “rottamazione” della cartella, proponendo così in sostanza un’eccezione che doveva essere invece formulata nel giudizio di legittimità e che, ove accolta, avrebbe comportato l’estinzione parziale del giudizio per cessazione della materia del contendere.

La CTR, pertanto, accogliendo tale inammissibile eccezione, non aveva osservato il disposto dell’art. 70, comma 7, del d.lgs. n. 546/1992, il quale impone al giudice dell’ottemperanza di attenersi agli obblighi derivanti dalla sentenza.

Il motivo è infondato.

Viene al riguardo in rilievo la peculiare natura “attuativa” del giudizio di ottemperanza, ed in particolare di quello tributario, posto che il giudizio di ottemperanza presenta connotati diversi dall’esecuzione forzata disciplinata dal codice di procedura civile, perché il suo scopo non è quello di ottenere l’esecuzione coattiva del comando contenuto nella decisione, bensì quello di rendere effettivo quel comando, compiendo tutti gli accertamenti indispensabili a

“rottamazione” era intervenuta in pendenza del giudizio in cassazione e pertanto l’Ufficio avrebbe dovuto far valere, con specifica eccezione, l’asserita definitività e irripetibilità del pagamento nel giudizio di legittimità, il quale si sarebbe in parte estinto nei limiti della cartella “rottamata”. Essendosi formato il giudicato sulla nullità dell’avviso di accertamento, il quale copre il dedotto e il deducibile, con conseguente obbligo di restituzione di tutto quanto riscosso dall’Amministrazione finanziaria sulla base del titolo invalido, si palesava illegittima la sentenza impugnata che aveva accolta l’eccezione proposta solo nel giudizio di ottemperanza.

Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 1, commi da 618 a 624, della l. n. 147 del 2013, con riferimento all’art. 111, comma 7, Cost.

Sostiene la ricorrente che le norme sulla definizione agevolata non prevedono che il debito, per effetto dell’adesione, cambi natura, essendo esso derivante da iscrizione a ruolo a titolo provvisorio in pendenza del giudizio, sicché la definitività dei pagamenti rimaneva subordinata all’esito del giudizio sui provvedimenti che li avevano originati.

Rileva, inoltre, che nessuna delle norme che disciplinano la “rottamazione” prevede effetti sul giudizio di merito, come l’estinzione del processo o l’obbligo di rinunzia.

I due motivi, esaminabili congiuntamente, sono infondati.

Va, anzitutto, osservato che alcun onere incombeva all’Ufficio di prospettare, nel corso del giudizio di legittimità, l’intervenuto pagamento effettuato a seguito della “rottamazione” della cartella, trattandosi di circostanza che comportava la riduzione della pretesa tributaria oggetto dell’avviso di accertamento.

Il principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile non può pertanto essere invocato dalla contribuente per prospettare in pregiudizio dell’Amministrazione finanziaria preclusioni che non sono correlate a questioni che la stessa aveva interesse a far valere nel giudizio di legittimità.

Si osserva, inoltre, che, in tema di definizione agevolata delle controversie tributarie, vige il principio in base al quale il contribuente non può chiedere il rimborso delle somme pagate in virtù della definizione agevolata, perché in tal modo si verificherebbe un’inammissibile revoca della richiesta di definizione agevolata per una causa sopravvenuta non espressamente prevista dalla legge (Cass. n. 27067 del 2017, Cass. n. 11735 del 2011).

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 10.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 giugno 2023

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