CASSAZIONE

Compensi troppo elevati degli amministratori? Accertamento per contabilità inattendibile

Tributi – Accertamento analitico-induttivo – Applicazione medie di settore – Indice di redditività estremamente inferiore a quello del settore di appartenenza – Livelli di abnormità ed irragionevolezza – Applicazione presunzione, grave e precisa – Accertamento

Accertamento dei redditi di impresa – Determinazione maggiori ricavi – Prova nel processo tributario – Art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 23427 del 26 ottobre 2020, intervenendo sulla correttezza delle procedure di accertamento delle imposte dirette, ha stabilito che l’ufficio erariale non solo ha correttamente tenuto conto della percentuale di redditività, ma anche dei risultati di non coerenza e non congruità degli studi di settore, precisando anche, con specifico riferimento ai compensi attribuiti agli amministratori, come gli stessi fossero stati quantificati in 69.100 euro, pur a fronte di un reddito della società pari a 63.317 euro, e che “… pertanto i compensi agli amministratori sarebbero persino superiori ai redditi d’impresa. Né è stata in alcun modo allegata la ragione di tale importo dei compensi agli amministratori di una società di persone, che non può certo sostituire l’imputazione per trasparenza degli utili ai sensi dell’articolo 5 del d.p.r. 917/1986”.

I Supremi Giudici hanno anche precisato, confortati da una nutrita giurisprudenza di settore, che “… l’Agenzia delle entrate può procedere ad accertare maggiori ricavi […] anche con l’utilizzo delle medie di settore, pure in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, se la difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, raggiunge livelli di abnormità e irragionevolezza”.

Nei casi in cui la contabilità risulti inattendibile il Fisco può quindi, anche in via induttiva, ricostruire l’effettiva realtà aziendale, applicando una percentuale dei ricavi che è frutto della media delle percentuali degli anni precedenti e nel caso specifico, come sopra riportato, è proprio l’irragionevole abnormità del compenso concesso ai soci-amministratori che porterebbe da solo alla legittimità dell’accertamento condotto con metodo analitico-induttivo.

Ricordiamo che il ricorso all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa è consentito quando, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, la contabilità dell’impresa possa considerarsi complessivamente inattendibile perché confliggente con i criteri di ragionevolezza, sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente, come peraltro statuito più volte anche dalla S.C. (v.Cass. 8923 2018).Gli elevati compensi riconosciuti ai soci-amministratori non sono affatto idonei a giustificare la redditività della società, particolarmente bassa rispetto a quella delle altre imprese presenti nel territorio. Non è quindi possibile assimilare gli importi in questione agli utili attribuiti per trasparenza, soprattutto quando la società non è in grado di dimostrare efficacemente il motivo per il quale i suddetti compensi sono superiori agli utili maturati dalla società.

Del resto la disciplina fiscale del compenso all’amministratore di società di capitali è uno dei temi che più caratterizza la gestione di ogni tipo di ente societario. In linea generale il compenso per l’amministratore è deducibile fiscalmente, ai sensi dell’articolo 95, comma 5, DPR n. 917/86, nell’anno di pagamento.

Il principio di cassa si applica sia per le società di persone che per le società di capitali.

Con la sentenza n. 24957/2010, la Corte di Cassazione ha messo un punto fisso sulla questione delle deducibilità dei compensi agli amministratori; ribaltando la precedente conclusione a cui erano giunti i giudici di legittimità con la sentenza 18702/10, che affermava l’indeducibilità dei compensi agli amministratori delle società di capitali, ha stabilito la deducibilità dei compensi erogati agli amministratori sia di società di capitali che di persone in sede di determinazione del reddito d’impresa, evidenziando inoltre che è insindacabile da parte dell’Amministrazione finanziaria il compenso erogato a detti amministratori, sia nel caso in cui i medesimi siano soci, ovvero non soci (manager) delle predette società. Ha inoltre chiarito che una volta accettata la qualità di costo inerente del compenso erogato, in questo caso specifico all’amministratore, l’attuale norma (art. 95 c. 5) non indica limiti di deducibilità (a differenza della previgente di cui all’art. 59 del DPR 597/73) e pertanto, chiarita l’inerenza di tale costo, la deducibilità non ammette sindacato in assenza di una norma specifica.

Altri motivi di attenzione che determinano l’interesse verso questa pronunzia si ottengono dalla interpretazione offerta sull’operato dei giudici tributari (che, nel caso di specie, avrebbe considerato come dimostrati fatti semplicemente allegati dal contribuente), prospettando l’errore del giudice nella sussunzione dei fatti all’interno dei paradigmi normativi indicati o nella falsa applicazione delle disposizioni evocate.

Al riguardo la stessa Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 12928/2014, aveva chiarito che la modifica all’art. 360, comma 1, n. 5) Cod. Proc. Civ. apportata dall’art. 54, comma 1, lett. b) del D.L. 83/2012, comportava un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, della motivazione di fatto della sentenza di appello.

Infatti, come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza n. 8053/2014, con la riforma del 2012, l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico.  

Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è oramai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia viziata da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni o argomenti tra loro manifestamente e immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili.

Tanto premesso e tornando al caso oggi dibattuto, una società riceveva degli avvisi di accertamento emessi con il metodo analitico-induttivo in considerazione dell’indice di redditività dichiarato dalla stessa (pari al 5,5%), particolarmente basso in confronto a quello degli altri soggetti che operavano nello stesso settore, pari al 27,10%. L’Agenzia delle entrate, quindi, rideterminava il reddito, applicando una percentuale di redditività pari alla metà di quella delle altre società del territorio (13,55%).

Si opponevano i soci e la società rilevando non solo che l’accertamento era fondato esclusivamente su questo scostamento, ma, soprattutto, evidenziando che era stata deliberata l’attribuzione di un compenso particolarmente alto ai soci-amministratori della società (pari a 69.100 euro), che, quindi, nel conto economico della società, figurava come un costo, abbattendo la redditività. Gli stessi importi, quindi, potevano essere assimilati ai redditi attribuiti ai soci per trasparenza.

Le doglianze venivano accolte in secondo grado, ma di diverso avviso si mostrava la Corte di Cassazione.

Al riguardo la Suprema Corte ha evidenziato la corretta procedura eseguita dall’ufficio fiscale sottolineando che “… Anzitutto, si rileva che il ricorso è ammissibile, in quanto la motivazione della sentenza della Commissione regionale non è fondata su due autonome rationes decidendi, sicché, avendo l’Agenzia delle Entrate incentrato il proprio motivo di impugnazione solo su una di esse, si sarebbe formato il giudicato sulla autonoma e diversa ratio decidendi. Invero, la motivazione del giudice di appello è unitaria e, nell’accoglimento dei due motivi di impugnazione proposti dai ricorrenti, ha indicato che l’utilizzo dei valori percentuali medi di settore, non costituisce il fatto noto da cui poter dedurre la sussistenza di maggiori ricavi ai sensi dell’art. 2727 c.c. Trattasi, quindi, di una mera estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa solo una regola di esperienza, sicché tali valori da soli non integrano presunzioni gravi e precise. In motivazione, poi, è evidenziato un’ulteriore argomentazione giuridica, che però non costituisce una autonoma ratio decidendi, in grado da sola di sorreggere la decisione, ma si limita a rafforzare la base argomentativa della “unitaria” motivazione, fondata sulla considerazione che il reddito della società era inferiore a quello risultante dalla media di esercizi che svolgevano la stessa attività, solo perché agli amministratori (soci illimitatamente responsabili) erano stati versati corrispettivi per circa € 69.100,00. Tali compensi erano stati indicati nel conto economico tra i costi sostenuti dall’impresa nell’anno 2005, sicché avevano inciso sul reddito, riducendone l’importo. Tali compensi ai soci amministratori dovevano essere considerati come “reddito ai soci” attribuito in forma alternativa alla imputazione per “trasparenza” di cui all’art. 5 d.p.r. 917/1976.  Questa argomentazione, da sola, non è idonea a sorreggere la motivazione della sentenza della Commissione regionale, in quanto, pure a seguito di tale considerazione (reddito ai soci in forma diversa dalla “trasparenza”), l’utile resta sempre nella misura del 5,50 %.  La stessa Commissione regionale, del resto, nel suo incipit in ordine a tale porzione della motivazione afferma che “Inoltre, l’operato dell’ufficio risulta ulteriormente minato dalla circostanza … dedotta dall’appellante, che nel conto economico della società risultano come costi e quindi abbattono la redditività aziendale”. Pure tenendo conto di tali costi, si ribadisce che la redditività, indice spia dei maggiori redditi accertati, resta sempre del 5,50%. Peraltro, la volontà impugnatoria della Agenzia delle Entrate ha colto entrambe le argomentazioni del giudice di appello, in quanto si è incentrata sulla irragionevolezza e sulla abnormità della scarsa percentuale di redditività della società, in tal modo impattando contro entrambe le porzioni dell’unitaria motivazione. È indubbio, infatti, che sia irragionevole ed abnorme anche il compenso attribuito ai soci-amministratori, persino di importo superiore al reddito dichiarato dalla società.  Inoltre, si rileva che per questa Corte, in tema di accertamento delle imposte dirette, ed in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidata alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, solo quando raggiunga livelli di “abnormità” ed “irragionevolezza” tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità, concretando diversamente tale difformità un mero indizio (Cass., sez. 5, 13 settembre 2018, n. 22347; Cass., sez. 5, 7 luglio 2017, n. 16773; cass., sez. 5, 11 aprile 2018, n. 8923; Cass. Sez. 5, 24 settembre 2010, n. 20201). Si è anche evidenziato che l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest’ultima sia intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un “unico elemento presuntivo”, purché preciso e grave, quale l’abnormità della percentuale di ricarico (Cass. sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27552). . Nella specie, quindi, nel ricorso per cassazione è stata sottolineata proprio l’irragionevolezza della redditività dichiarata dalla società, pari al 5,50%, posta a confronto con la redditività media di azienda che svolgevano la loro attività (“attività economica cod. 45330: install. imp. idraulico-sanitari”), nell’ambito del territorio di competenza dell’ufficio accertatore, pari al 27,10% e nella provincia di appartenenza, pari al 29,42%. E’ evidente, quindi, che il giudice di appello non ha tenuto conto che tale circostanza è grave e precisa, in quanto la redditività dichiarata dalla società è al di sotto di quella media di oltre il 20%, pure se l’Agenzia ha poi prudenzialmente applicato la ridotta percentuale del 13,55%, pari alla metà del 27,10%, con redditi portati da € 63.317,00 ad € 170.450,00.

1.6. Né il ricorso per cassazione impinge nel merito, in quanto la censura non ha messo in discussione il ragionamento inferenziale del giudice di appello, ma si è incentrato unicamente sulla sussistenza della gravità e della precisione dell’indizio costituito dall’irragionevole ed abnorme scostamento della redditività della società rispetto alla media di società appartenenti al medesimo settore.

1.7. La denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art 2729 c.c. può essere, poi, prospettata sotto più profili (Cass.Civ. sez. un. 24 gennaio 2018, n. 1785).

Il giudice di merito può affermare che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precisi e concordanti, incorrendo in un errore di diretta violazione della norma.

Il Giudice di merito può, poi, fondare la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto alla conseguenza ignota, sì che la censura ricade ancora nell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. Il terzo caso è quello in cui la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si concreta in una attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo, allegando una inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice, ma in tal caso la censura impinge in un apprezzamento di merito, che riguarda la quaestio facti e si pone nel solco del vizio della motivazione ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. (Cass.Civ. sez. un., 8053 e 8054 del 2014).Nella fattispecie in esame, la censura delle ricorrenti resta nell’ambito dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., in quanto la Commissione regionale ha ritenuto erroneamente non grave e preciso l’elemento presuntivo, costituito dall’irragionevole ed abnorme scostamento dalla media di settore della redditività dell’impresa, quindi, non investendo la quaestio facti in alcun modo.Inoltre, si rileva che proprio l’articolazione del ricorso per cassazione, con la deduzione della irragionevolezza della redditività, e quindi anche della antieconomicità della stessa, va a confutare anche l’ulteriore affermazione del giudice di appello, che ha ritenuto giustificata tale bassa redditività, solo perché erano stati erogati ai soci amministratori dei compensi per € 69.100,00 nel 2005, indicati tra i costi del conto economico, con conseguente riduzione dei redditi per tale anno. La censura della Agenzia delle entrate, proprio perché elaborata in relazione alla abnormità di tale ridotta percentuale di redditività va necessariamente anche ad impingere sull’ammontare dei compensi spettanti agli amministratori per una somma (€ 69.100,00), superiore ai redditi dichiarati dell’impresa per 63.317,00. Pertanto, i compensi degli amministratori sarebbero persino superiori ai redditi dell’impresa. Né è stata in alcun modo allegata la ragione di tale importo dei compensi agli amministratori in una società di persone, che non può certo sostituire l’imputazione per trasparenza degli utili ai sensi dell’art. 5 del d.p.r. 917/1986.Senza contare che l’avviso di accertamento era fondato anche sulle risultanze degli studi di settore. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 26 ottobre 2020, n. 23427

sul ricorso iscritto al n. 12157/2013 R.G. proposto da

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato e presso i cui uffici domicilia in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12

– ricorrente –

contro T. V. s.n.c. di O. A., O. A., O. M. e O. F., rappresentati e difesi, giusta procura a margine del controricorso, dall’Avv. Danilo Conti e dall’Avv. Sebastiano Ribaudo, elettivamente domiciliati presso lo studio del secondo Avvocato, in Roma, Piazzale Clodio, n. 1

-controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia. n. 96/65/2012, depositata il 20 settembre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’Il marzo 2020 dal Consigliere Luigi D’Orazio. 

Rilevato che

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dalla T.V. s.n.c. di O.A. & F., nonché dai soci O.A., O.M. ed O.F., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Bergamo che aveva respinto i ricorsi riuniti presentati dalla società e dai soci avverso gli avvisi di accertamento emessi, con il metodo analitico-induttivo, anche con l’utilizzo degli studi di settore, nei loro confronti dalla Agenzia delle entrate, per l’anno 2005, con determinazione di un maggior reddito da € 63.317,00 ad € 170.450,00, in quanto il reddito dichiarato era inferiore alla media dei soggetti che operavano nello stesso settore economico e nel medesimo territorio;

con applicazione di un indice di redditività da parte della società, appunto, pari a 5,50%, a fronte di quello medio del 27,10% nell’ambito del territorio di competenza e del 29,42 % a livello provinciale, pur avendo l’Ufficio applicato per precauzione l’indice del 13,55 %, pari alla metà di 27,10 %.

Il giudice di appello rilevava che gli appellanti avevano censurato la sentenza di prime cure per due ordini di motivi: in primo luogo perché lo scostamento applicato in modo automatico era l’unico elemento su cui si basava la motivazione degli avvisi di accertamento;

in secondo luogo perché non si era tenuto conto che i soci ed amministratori della società avevano deliberato l’attribuzione di compenso agli amministratori, che nel conto economico della società risultavano come costi, abbattendo, quindi, la redditività aziendale; tali compensi dovevano, in realtà, essere computati quale redditi ai soci, attribuiti in altra forma diversa dal regime di trasparenza fiscale di cui all’art. 5 d.p.r. 917/1986.

Per il giudice di appello, però, i valori percentuali medi del settore non rappresentavano un “fatto noto” sul quale basare una presunzione di reddito ex art. 2727 c.c., ma solo il risultato di una estrapolazione statistica, non potendo giustificare presunzioni gravi e precise, ove non confortati da altre circostanze. Inoltre, nel conto economico della società risultavano come costi, con abbattimento della redditività aziendale, i compensi ai soci amministratori, che dovevano essere computati come redditi ai soci, attribuiti in altra forma dal regime di “trasparenza” di cui all’art. 5 del d.p.r. 917/1986; erano, dunque, fondati entrambi i motivi di appello.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. Resistono con controricorso la società ed i soci, che depositano anche memoria scritta.

Considerato che

1. Con l’unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lettera d) d.p.r. 600/1973, anche in combinato disposto con l’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.” in quanto secondo il giudice di appello i valori medi di redditività del settore non sarebbero stati tali da giustificare presunzioni qualificabili come gravi e precise, e non sarebbero stati supportati da alcuna altra risultanza.

In realtà, però, l’Ufficio ha tenuto conto anche dei risultati di non coerenza e non congruità degli studi di settore e non solo, quindi, dei valori medi di settore.

Inoltre, è sufficiente per fornire la prova di maggiori ricavi o redditi anche una presunzione, ove grave e precisa.

Peraltro, l’Agenzia delle Entrate può procedere ad accertare maggiori ricavi ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), d.p.r. 600/1973, anche con l’utilizzo delle medie di settore, pure in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, se la difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, raggiunge livelli di abnormità ed irragionevolezza.

Nella specie, è stato rilevato un elevato scostamento tra l’indice di redditività della società pari al 5,50% e l’indice medio risultante dalla “attività economica cod. 45330: install. imp. idraulico- sanitari” del 27,10 % nel territorio di competenza dell’ufficio accertatore, e del 29,42 % a livello provinciale”.

1.1. Tale motivo è fondato.

1.2. Anzitutto, si rileva che il ricorso è ammissibile, in quanto la motivazione della sentenza della Commissione regionale non è fondata su due autonome rationes decidendi, sicché, avendo l’Agenzia delle Entrate incentrato il proprio motivo di impugnazione solo su una di esse, si sarebbe formato il giudicato sulla autonoma e diversa ratio decidendi.

Invero, la motivazione del giudice di appello è unitaria e, nell’accoglimento dei due motivi di impugnazione proposti dai ricorrenti, ha indicato che l’utilizzo dei valori percentuali medi di settore, non costituisce il fatto noto da cui poter dedurre la sussistenza di maggiori ricavi ai sensi dell’art. 2727 c.c.

Trattasi, quindi, di una mera estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa solo una regola di esperienza, sicché tali valori da soli non integrano presunzioni gravi e precise.

In motivazione, poi, è evidenziato un’ulteriore argomentazione giuridica, che però non costituisce una autonoma ratio decidendi, in grado da sola di sorreggere la decisione, ma si limita a rafforzare la base argomentativa della “unitaria” motivazione, fondata sulla considerazione che il reddito della società era inferiore a quello risultante dalla media di esercizi che svolgevano la stessa attività, solo perché agli amministratori (soci illimitatamente responsabili) erano stati versati corrispettivi per circa € 69.100,00.

Tali compensi erano stati indicati nel conto economico tra i costi sostenuti dall’impresa nell’anno 2005, sicché avevano inciso sul reddito, riducendone l’importo.

Tali compensi ai soci amministratori dovevano essere considerati come “reddito ai soci” attribuito in forma alternativa alla imputazione per “trasparenza” di cui all’art. 5 d.p.r. 917/1976.

Questa argomentazione, da sola, non è idonea a sorreggere la motivazione della sentenza della Commissione regionale, in quanto, pure a seguito di tale considerazione (reddito ai soci in forma diversa dalla “trasparenza”), l’utile resta sempre nella misura del 5,50 %.

La stessa Commissione regionale, del resto, nel suo incipit in ordine a tale porzione della motivazione afferma che “Inoltre, l’operato dell’ufficio risulta ulteriormente minato dalla circostanza … dedotta dall’appellante, che nel conto economico della società risultano come costi e quindi abbattono la redditività aziendale”.

Pure tenendo conto di tali costi, si ribadisce che la redditività, indice spia dei maggiori redditi accertati, resta sempre del 5,50%.

Peraltro, la volontà impugnatoria della Agenzia delle Entrate ha colto entrambe le argomentazioni del giudice di appello, in quanto si è incentrata sulla irragionevolezza e sulla abnormità della scarsa percentuale di redditività della società, in tal modo impattando contro entrambe le porzioni dell’unitaria motivazione. È indubbio, infatti, che sia irragionevole ed abnorme anche il compenso attribuito ai soci-amministratori, persino di importo superiore al reddito dichiarato dalla società.

1.3. Inoltre, si rileva che per questa Corte, in tema di accertamento delle imposte dirette, ed in presenza di una contabilità regolarmente tenuta, l’accertamento dei maggiori ricavi d’impresa può essere affidata alla considerazione della difformità della percentuale di ricarico applicata dal contribuente, rispetto a quella mediamente riscontrata nel settore di appartenenza, solo quando raggiunga livelli di “abnormità” ed “irragionevolezza” tali da privare la documentazione contabile di ogni attendibilità, concretando diversamente tale difformità un mero indizio (Cass., sez. 5, 13 settembre 2018, n. 22347; Cass., sez. 5, 7 luglio 2017, n. 16773; cass., sez. 5, 11 aprile 2018, n. 8923; Cass. Sez. 5, 24 settembre 2010, n. 20201).

1.4.Si è anche evidenziato che l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest’ultima sia intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un “unico elemento presuntivo”, purché preciso e grave, quale l’abnormità della percentuale di ricarico (Cass. sez. 5, 30 ottobre 2018, n. 27552).

1.5. Nella specie, quindi, nel ricorso per cassazione è stata sottolineata proprio l’irragionevolezza della redditività dichiarata dalla società, pari al 5,50%, posta a confronto con la redditività media di azienda che svolgevano la loro attività (“attività economica cod. 45330: install. imp. idraulico-sanitari”), nell’ambito del territorio di competenza dell’ufficio accertatore, pari al 27,10% e nella provincia di appartenenza, pari al 29,42%.

E’ evidente, quindi, che il giudice di appello non ha tenuto conto che tale circostanza è grave e precisa, in quanto la redditività dichiarata dalla società è al di sotto di quella media di oltre il 20%, pure se l’Agenzia ha poi prudenzialmente applicato la ridotta percentuale del 13,55%, pari alla metà del 27,10%, con redditi portati da € 63.317,00 ad € 170.450,00.

1.6. Né il ricorso per cassazione impinge nel merito, in quanto la censura non ha messo in discussione il ragionamento inferenziale del giudice di appello, ma si è incentrato unicamente sulla sussistenza della gravità e della precisione dell’indizio costituito dall’irragionevole ed abnorme scostamento della redditività della società rispetto alla media di società appartenenti al medesimo settore.

1.7. La denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art 2729 c.c. può essere, poi, prospettata sotto più profili (Cass.Civ. sez. un. 24 gennaio 2018, n. 1785).

Il giudice di merito può affermare che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precisi e concordanti, incorrendo in un errore di diretta violazione della norma.

Il Giudice di merito può, poi, fondare la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto alla conseguenza ignota, sì che la censura ricade ancora nell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.

Il terzo caso è quello in cui la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si concreta in una attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo, allegando una inferenza probabilistica diversa da quella applicata dal giudice, ma in tal caso la censura impinge in un apprezzamento di merito, che riguarda la quaestio facti e si pone nel solco del vizio della motivazione ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. (Cass. Civ. sez. un., 8053 e 8054 del 2014).

Nella fattispecie in esame, la censura delle ricorrenti resta nell’ambito dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., in quanto la Commissione regionale ha ritenuto erroneamente non grave e preciso l’elemento presuntivo, costituito dall’irragionevole ed abnorme scostamento dalla media di settore della redditività dell’impresa, quindi, non investendo la quaestio facti in alcun modo.

1.8. Inoltre, si rileva che proprio l’articolazione del ricorso per cassazione, con la deduzione della irragionevolezza della redditività, e quindi anche della antieconomicità della stessa, va a confutare anche l’ulteriore affermazione del giudice di appello, che ha ritenuto giustificata tale bassa redditività, solo perché erano stati erogati ai soci amministratori dei compensi per € 69.100,00 nel 2005, indicati tra i costi del conto economico, con conseguente riduzione dei redditi per tale anno.

La censura della Agenzia delle entrate, proprio perché elaborata in relazione alla abnormità di tale ridotta percentuale di redditività va necessariamente anche ad impingere sull’ammontare dei compensi spettanti agli amministratori per una somma (€ 69.100,00), superiore ai redditi dichiarati dell’impresa per 63.317,00. Pertanto, i compensi degli amministratori sarebbero persino superiori ai redditi dell’impresa. Nè è stata in alcun modo allegata la ragione di tale importo dei compensi agli amministratori in una società di persone, che non può certo sostituire l’imputazione per trasparenza degli utili ai sensi dell’art. 5 del d.p.r. 917/1986.

1.9.Senza contare che l’avviso di accertamento era fondato anche sulle risultanze degli studi di settore.

8. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 16 luglio 2020.

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