CASSAZIONE

Cassazione, chiarimenti sulla trattazione fiscale delle spese di pubblicità e di rappresentanza

Tributi – Redditi di impresa – Spese per organizzazione di sfilate di moda ed altri eventi di richiamo, destinati alla collocazione dei prodotti – Qualificazione come spese di rappresentanza – Art. 13-bis, D.L. 244/2016 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 34166 del 20 dicembre 2019 ha fornito un nuovo spunto chiarificatore all’annosa questione della distinzione tra spese di pubblicità e spese di rappresentanza, per ricordare in particolare che debbano farsi rientrare in quest’ultime quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano considerate spese di pubblicità o propaganda quelle sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi e in certi contesti, anche temporali. A livello normativo non esiste, però, una chiara demarcazione che risulti definitoria ed esauriente per le spese di pubblicità; la qualificazione di spese pubblicitarie può essere tuttavia ricavata in via residuale rispetto alle spese di rappresentanza.

Assume quindi valore sostanziale conoscere le differenze tra le spese di pubblicità e le spese di rappresentanza, in quanto hanno una differente trattazione fiscale.

Le spese di pubblicità e di propaganda sono sostenute con il fine di incrementare direttamente le vendite di beni e servizi di un’azienda: quindi, attraverso la pubblicità si diffonde un messaggio con l’obiettivo di aumentare la conoscenza di un prodotto o di una famiglia di prodotti o, ancora, di un marchio o di un’azienda, con l’obiettivo di invogliare il pubblico ad acquistare quei determinati prodotti o i prodotti dell’azienda pubblicizzata. Rientrano in questa categoria i costi sostenuti per annunci pubblicitari; acquisiti di spazi internet per pubblicizzare la propria azienda; costi connessi all’elaborazione di spot pubblicitari; costi sostenuti per sponsorizzazioni di eventi organizzati da terzi e sono integralmente deducibili, sempre se sia rispettato il requisito di inerenza, ovvero che il costo pubblicitario sostenuto sia inerente l’attività svolta dall’impresa.

Le spese di rappresentanza si distinguono da quelle di pubblicità in quanto hanno come obiettivo il miglioramento dell’immagine dell’azienda o della percezione che il pubblico ha verso un’azienda o un marchio: quindi, sostanzialmente non sono costi sostenuti per aumentare direttamente le vendite di prodotti connessi a un’azienda o ad uno specifico marchio.

Solitamente le spese di rappresentanza, per poter essere definite tali devono inoltre avere tre principali caratteristiche: gratuità, congruità e inerenza. Una spesa di rappresentanza è inerente quando può essere considerata come effettivamente sostenuta e documentata. L’elemento essenziale che potrebbe caratterizzare la spesa di rappresentanza rispetto a una che si qualifica come di pubblicità, è alla fine quello della gratuità, ovvero la mancanza di un corrispettivo in capo alla controparte e di un correlato obbligo di dare o fare. Senza gratuità non può pertanto esserci spesa di rappresentanza.

La gratuità delle distribuzioni o erogazioni di beni e servizi e le finalità promozionali consentono di distinguere le spese di rappresentanza da altre fattispecie di cessioni di beni o di prestazioni di servizi a titolo gratuito normalmente effettuate nello svolgimento di attività commerciali, come ad esempio le erogazioni effettuate nell’ambito di operazioni e concorsi a premi.

Per quanto riguarda, invece, le finalità promozionali e di pubbliche relazioni, la circolare delle Entrate 34/E/2009 ha precisato che: “… le finalità promozionali consistono nella divulgazione sul mercato dell’attività svolta, dei beni e servizi prodotti, a beneficio sia di attuai clienti che di clienti potenziali; tra le finalità di pubbliche relazioni devono invece essere ricomprese tutte le iniziative, senza una diretta correlazione con i ricavi, volte a diffondere e/o consolidare l’immagine dell’impresa e accrescerne l’apprezzamento presso il pubblico”.

Una spesa di rappresentanza deve inoltre risultare ragionevole, cioè idonea a generare ricavi adeguati rispetto all’obiettivo atteso in termini di ritorno economico oppure, in alternativa, deve essere coerente con le pratiche commerciali di settore.

Fiscalmente, l’art. 13-bis, D.L. 244/2016 (Decreto c.d. “Mille proroghe”) ha modificato l’art. 108 del TUIR per recepire le modifiche apportate alla voce delle spese di pubblicità a livello contabile, eliminando, tra l’altro, la previsione contenuta nel primo periodo del comma 2 relativa alla “ripartizione” in 5 quote delle spese di pubblicità/propaganda.

Di conseguenza dette spese sono deducibili con le regole previste dal comma 1 del citato art. 108 relative alle spese riferite a più esercizi, per le quali ora è prevista la deducibilità nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio, in virtù del nuovo principio della “derivazione rafforzata” del reddito imponibile dall’utile di bilancio che riconosce ai fini fiscali i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti dai Principi contabili.

Anche l’attuale linea interpretativa della Suprema Corte, con la pronunzia n. 12676 del 23 maggio 2018, ci ricorda che in tema di redditi d’impresa il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obiettivi, anche strategici, perseguiti mediante le stesse che, nella prima ipotesi, coincidono con la crescita d’immagine e il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società mentre, nell’altra, consistono in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale concernente la produzione realizzata in un determinato contesto.

Tanto premesso, tornando al caso in esame, nell’ambito di una verifica ai fini IRPEF e IRAP per l’anno d’imposta 2006, incentrata sulla deduzione delle spese di pubblicità, l’ufficio riqualificava in spese di rappresentanza, e come tali deducibili al 30%, alcune spese sostenute nel corso dello stesso anno 2006, considerate dalla società contribuente spese di pubblicità e in quanto tali deducibili integralmente nell’esercizio di sostenimento.

Dopo le valutazioni dei giudici tributari e d’appello, il contribuente adiva, con ricorso composto da quattro motivi, al giudizio della Suprema Corte.

In buona sostanza la difesa del ricorrente lamentava, fra l’altro, che la CTR avrebbe in modo sbagliato qualificato come spese di rappresentanza, e non di pubblicità, i costi per pranzi, viaggi, ospitalità e omaggi sostenuti dal contribuente per l’attività di intermediazione commerciale nel campo della moda, ritenendo che ai fini della completa deducibilità di tali costi potevano essere sufficienti l’esistenza di specifici contratti onerosi stipulati con i terzi fornitori dei servizi, che erano stati appositamente ingaggiati e finalizzati alla promozione delle vendite e all’acquisizione dei clienti per il raggiungimento di un accordo negoziale. Le obiezioni riportate, però, non hanno convinto del tutto gli Ermellini, che accennando alla vigente giurisprudenza sull’argomento, hanno sostenuto che …Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di redditi d’impresa, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obbiettivi, anche strategici, perseguiti mediante le stesse, che, nella prima ipotesi, coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società, mentre, nell’altra, consistono in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto” (Sez. 5, Sentenza n. 12676 del 23/05/2018). Nella motivazione della sentenza citata, la Corte ha anche chiarito che “costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta (Cass. n. 10910 del 27/05/2015 e Cass.n.8121 del 22 aprile 2016).  In definitiva, si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Cass. 7803/2000).  Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto (Cass. 3433/2017; conf. da ultimo 21977/2015)”. Alla stregua dei principi richiamati, nel caso di specie, avendo il giudice escluso che il contribuente abbia dimostrato uno stretto collegamento temporale tra le spese e le commissioni o gli eventi documentati, esse vanno ricondotte a finalità di rappresentanza, dovendosi escludere uno scopo diretto di promozione e di incremento commerciale. In tal senso depone anche la natura della spesa (relativa a viaggi, alberghi, ristoranti, acquisti di beni di consumo costosi, trasporti, abbonamenti calcistici), che non tende alla promozione della commercializzazione di un prodotto, alla conquista di un mercato o alla diffusione di una specifica immagine commerciale, ma piuttosto alla crescita d’immagine ed al maggior prestigio dell’impresa, nonché al potenziamento delle sue possibilità di sviluppo. D’altronde tale conclusione trova riscontro, a contrario, nella sentenza n. 24227 del 29/11/16, con cui la Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell’art. 108, co.2, del Tuir, devono qualificarsi come spese di pubblicità (interamente deducibili) quelle sostenute da un’azienda di moda (in quel caso produttrice di capi di abbigliamento) per offrire vitto e alloggio a propri agenti e clienti in occasione di un meeting (nella specie, una sfilata di moda), in quanto diretta a incrementare le vendite. In tale decisione la Corte fa presente che l’obiettivo perseguito con le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente concernente la produzione realizzata in un determinato contesto, laddove, invece, le spese di rappresentanza coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società. In quel caso, è stato ritenuto che la spesa sostenuta per la presentazione dei predetti capi da parte della società produttrice ad una clientela selezionata di soggetti operanti nel settore e probabili acquirenti, costituisca spesa destinata ad incrementare le vendite presso i predetti clienti e, quindi, spesa di natura pubblicitaria. Anche l’acquisto e la cessione di beni (oggetti di notevole valore commerciale, come orologi e foulard di marca pregiata), in alcun modo ricollegabili ai prodotti commercializzati dall’agente, non può ricadere nell’ambito delle spese pubblicitarie, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo”.

Corte di Cassazione – Sentenza 20 dicembre 2019, n. 34166

Sul ricorso iscritto al n.12902/2013 R.G. proposto da M. S., rappresentato e difeso dall’avv.to Claudio Preziosi, elettivamente domiciliato presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione, che dichiara di voler ricevere le comunicazioni e le notificazioni via fax al nr. 082531537 oppure all’indirizzo P.E.C. claudio.preziosi@avvocatiavellinopec.it ;

– ricorrente – controricorrente incidentale –

contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore p. t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso cui è domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;  

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n.587/04/12 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, emessa il 15/10/2012, depositata il 16/11/2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12/6/2019 dal Consigliere Andreina Giudicepietro;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Francesco Salzano, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

udito l’avv. Valerio Freda per il ricorrente principale e l’Avvocato dello Stato Giammario Rocchitta per l’Agenzia delle Entrate.

Fatti di causa

1. M. S. ricorre con quattro motivi avverso l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza n.587/04/12 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, sezione staccata di Salerno (di seguito C.T.R.), emessa il 15/10/2012, depositata il 16/11/2012 e non notificata, che ha parzialmente accolto l’appello dell’Ufficio, rigettando l’appello incidentale del contribuente, in controversia relativa all’impugnativa dell’avviso di accertamento, con cui l’Amministrazione Finanziaria aveva determinato maggiori Irpef ed Irap per l’anno d’imposta 2006.

2. Con la sentenza impugnata, la C. T. R. riteneva che i costi oggetto di recupero a tassazione fossero inerenti all’attività imprenditoriale svolta dal contribuente, ma fossero qualificabili quali spese di rappresentanza, e non di pubblicità, con conseguente deducibilità nella misura del 30% del loro ammontare.

Inoltre, il giudice di appello, quanto all’appello incidentale del contribuente, riteneva che le spese sostenute da un soggetto estraneo (la figlia dell’imprenditore) non potessero considerarsi attinenti all’attività imprenditoriale, rilevando che la carta di credito utilizzata non risultava riferibile all’azienda.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso e spiega ricorso incidentale, affidato a due motivi, cui a sua volta il sig. M. S. resiste con controricorso.

Ragioni della decisione

1.1. Con il primo motivo del ricorso principale, M. S. denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 108 e 109 d.P.R. n.917/86, nonché la violazione degli artt.1321 e 1322 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

Secondo il ricorrente, la C.T.R. avrebbe erroneamente qualificato come spese di rappresentanza, e non di pubblicità, i costi, per pranzi, viaggi, ospitalità, omaggi, sostenuti dal contribuente per l’attività d’intermediazione commerciale nel campo della moda, ritenendo che, ai fini della completa deducibilità di tali costi, fosse necessaria la prova, assente nel caso di specie, dell’esistenza di specifici contratti onerosi stipulati con i terzi fornitori dei servizi contestati.

Deduce, invece, il ricorrente che alle spese suddette doveva riconoscersi carattere pubblicitario perché, indipendentemente dal ricorso ad imprese terze, appositamente ingaggiate, esse erano finalizzate alla promozione delle vendite ed all’acquisizione dei clienti, sia pure al di fuori di una specifica trattativa già avviata, in occasione di sfilate ed eventi, oppure ad avviare una trattativa, “stringere i tempi” o “migliorare il clima” per il raggiungimento di un accordo negoziale.

Inoltre, il ricorrente rileva l’infondatezza dell’argomentazione della C.T.R., che ha rilevato che con tali spese l’agente commerciale M. avrebbe favorito la vendita di prodotti di terzi, poiché, in definitiva, egli avrebbe incrementato il proprio volume d’affari e le provvigioni maturate per l’attività di intermediazione commerciale.

Infine, secondo il ricorrente, il giudice di appello, in violazione delle norme di cui agli artt. 1321 e 1322 c.c., non avrebbe considerato la circostanza che alcuni contratti (come quello concluso con la F. s.r.l.) prevedevano che l’agente dovesse sopportare le spese inerenti alla promozione delle vendite, per cui le prestazioni contestate costituivano un doveroso adempimento negoziale, a fronte del quale percepiva un compenso, quindi un costo interamente deducibile.

1.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

1.3. La fattispecie trae origine dall’avviso di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione costi per un importo di euro 82.576,00, perché non inerenti all’attività d’impresa e riferibili al consumo personale o familiare dell’imprenditore, o, comunque, estranei all’attività esercitata (nel caso di specie di intermediazione commercio di tessile, abbigliamento e calzature).

A seguito di tempestivo ricorso del contribuente, la C.T.P. di Avellino annullava in parte l’accertamento, confermando la non deducibilità dei soli costi indicati nell’allegato al P.V.C. n.23, in quanto il pagamento era avvenuto con carta di credito intestata ad Alessandra M., figlia del contribuente.

L’Ufficio proponeva appello avverso la sentenza di primo grado, contestando, in via principale, l’inerenza dei costi recuperati a tassazione e deducendo, in via subordinata, la loro natura di spese di rappresentanza e non di pubblicità.

Anche il contribuente promuoveva appello incidentale per il riconoscimento della deducibilità dei costi pagati tramite carta di credito intestata alla figlia Alessandra.

La C.T.R. rigettava in toto l’appello incidentale ed accoglieva la domanda subordinata dell’appello principale, qualificando le spese come di rappresentanza e non di pubblicità.

Secondo la ricostruzione in fatto del giudice di appello, il contribuente, per finalità aziendali, era solito organizzare, in appositi spazi espositivi, sfilate di moda ed altri eventi di richiamo, destinati alla collocazione dei prodotti.

Le spese oggetto di contestazione, pur non presentando una stretta correlazione temporale con eventi e commissioni, potevano essere ritenute inerenti all’attività d’impresa, riguardando beni e servizi offerti a terzi (modelle, vip, stilisti e fornitori), e potevano essere considerate quali spese di rappresentanza.

Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di redditi d’impresa, il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obbiettivi, anche strategici, perseguiti mediante le stesse, che, nella prima ipotesi, coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società, mentre, nell’altra, consistono in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto” (Sez. 5, Sentenza n. 12676 del 23/05/2018).

Nella motivazione della sentenza citata, la Corte ha anche chiarito che “costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta (Cass. n. 10910 del 27/05/2015 e Cass.n.8121 del 22 aprile 2016).

In definitiva, si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Cass. 7803/2000).

Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto (Cass. 3433/2017; conf. da ultimo 21977/2015)”.

Alla stregua dei principi richiamati, nel caso di specie, avendo il giudice escluso che il contribuente abbia dimostrato uno stretto collegamento temporale tra le spese e le commissioni o gli eventi documentati, esse vanno ricondotte a finalità di rappresentanza, dovendosi escludere uno scopo diretto di promozione e di incremento commerciale.

In tal senso depone anche la natura della spesa (relativa a viaggi, alberghi, ristoranti, acquisti di beni di consumo costosi, trasporti, abbonamenti calcistici), che non tende alla promozione della commercializzazione di un prodotto, alla conquista di un mercato o alla diffusione di una specifica immagine commerciale, ma piuttosto alla crescita d’immagine ed al maggior prestigio dell’impresa, nonché al potenziamento delle sue possibilità di sviluppo.

D’altronde tale conclusione trova riscontro, a contrario, nella sentenza n. 24227 del 29/11/16, con cui la Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell’art. 108, co.2, del Tuir, devono qualificarsi come spese di pubblicità (interamente deducibili) quelle sostenute da un’azienda di moda (in quel caso produttrice di capi di abbigliamento) per offrire vitto e alloggio a propri agenti e clienti in occasione di un meeting (nella specie, una sfilata di moda), in quanto diretta a incrementare le vendite.

In tale decisione la Corte fa presente che l’obiettivo perseguito con le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente concernente la produzione realizzata in un determinato contesto, laddove, invece, le spese di rappresentanza coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società. In quel caso, è stato ritenuto che la spesa sostenuta per la presentazione dei predetti capi da parte della società produttrice ad una clientela selezionata di soggetti operanti nel settore e probabili acquirenti, costituisca spesa destinata ad incrementare le vendite presso i predetti clienti e, quindi, spesa di natura pubblicitaria.

Anche l’acquisto e la cessione di beni (oggetti di notevole valore commerciale, come orologi e foulard di marca pregiata), in alcun modo ricollegabili ai prodotti commercializzati dall’agente, non può ricadere nell’ambito delle spese pubblicitarie, mancando un collegamento obiettivo ed immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l’aspettativa diretta di un maggior ricavo.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la motivazione omessa o insufficiente su di un punto controverso e decisivo del giudizio.

Il ricorrente, sul presupposto che non sia applicabile al processo tributario la nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., introdotta dall’art. 54 del d.l. 83/ 2012, censura la motivazione omessa, o solo insufficiente, della sentenza impugnata, in relazione alle specifiche ragioni per le quali sono state disattese le giustificazioni in ordine all’esistenza di clausole contrattuali, che ponevano a carico dell’agente le spese di promozione delle vendite delle imprese committenti.

Inoltre il contribuente deduce che, come riferito da numerosi dipendenti e clienti, i costi contestati attenevano all’allestimento di quattro show rooms, dotati di cucina e personale specializzato stabilmente assunto, nonché all’organizzazione di sfilate ed altri eventi, anche all’improvviso per l’arrivo imprevisto di clienti, con la presenza del titolare e l’aiuto della figlia Alessandra.

Con il terzo motivo, il ricorrente denunzia la motivazione omessa o insufficiente su di un punto controverso e decisivo del giudizio.

In particolare, il ricorrente deduce che la C.T.R., nel rilevare che la carta di credito intestata alla figlia del contribuente, Alessandra M., non fosse ricollegabile all’attività di impresa del padre, non ha motivato in ordine alla documentazione bancaria prodotta dal contribuente, dalla quale sarebbe emerso che le spese della carta, formalmente intestate ad Alessandra, ricadevano sul conto corrente acceso come “M. S. rappresentanze”.

Con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione dell’art.36 n.4 d.lgs. n.546/92 in relazione all’art. 111 Cost., poiché la sentenza impugnata sarebbe del tutto priva di motivazione.

2.2. Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili ed il quarto è infondato.

2.3. Nella fattispecie trova applicazione ratione temporis ( ai sensi dell’art. 54 co. 3 d.l. n.83/2012) il nuovo testo dell’art. 360 co.l nr. 5 c.p.c., in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata in data successiva all’11 settembre 2012, sicché il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

“Le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, circa il vizio denunciatale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348-ter cod. proc. civ., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce dell’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non ha connotazioni di specialità. Ne consegue che l’art. 54, comma 3-bis, del d.l. n. 83 del 2012, quando stabilisce che le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al d. Igs. 31 dicembre 1992, n. 546, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del giudizio tributario di merito” (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. 22.9.2014 nr. 19881 ; Cass. S.U. 7.4.2014 nr. 8053 citata) la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d. l. 83/ 2012 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.

E’ pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Inoltre, l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

Nel caso di specie, il ricorrente non individua un fatto decisivo, di cui la C.T.R. avrebbe omesso l’esame, ma, inammissibilmente, deduce la mera insufficienza motivazionale, non più censurabile, sollecitando, in maniera altrettanto inammissibile, una diversa valutazione degli elementi di fatto, già oggetto di esame da parte del giudice appello, che, in base ad essi, ha ritenuto di qualificare le spese come di rappresentanza e di escludere l’inerenza di alcune di esse (quelle effettuate con carta di credito intestata alla figlia del contribuente) all’attività imprenditoriale, perché disposte da un soggetto estraneo all’impresa.

3.1. Passando al ricorso incidentale, con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt.108 e 109 T.u.i.r. e dell’art.2697 c.c., in relazione all’art.360, comma 1, n.3, c.p.c.

Secondo l’Agenzia ricorrente, la C.T.R., nel riconoscere la deducibilità nella misura del 30% delle spese di rappresentanza, ha violato l’art.108 T.u.i.r., che prevede la deducibilità di tali spese nella misura pari al terzo del loro ammontare, per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.

Inoltre, la C.T.R. avrebbe errato nel ritenere che le spese (almeno quelle effettuate con la carta di credito intestata alla figlia del contribuente), tutte riferibili a beni o prestazioni suscettibili di uso privato (quali viaggi, alberghi, ristoranti, acquisti di beni di consumo costosi, trasporti, abbonamenti calcistici), fossero inerenti all’attività di impresa, in assenza di idonea documentazione attestante la loro effettiva destinazione, con ciò violando l’art. 109 T.u.i.r e l’art.2697 c.c. in tema di riparto dell’onere probatorio.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia l’insufficiente motivazione su di un fatto decisivo e controverso, non avendo la C.T.R. esplicitato in base a quali elementi aveva ritenuto che il contribuente avesse assolto all’onere di provare l’inerenza delle singole spese contestate.

3.2. I motivi sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati.

Il comma 2 dell’art.108 T.u.i.r., vigente ratione temporis, recitava: “Le spese di pubblicità e di propaganda sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi. Le spese di rappresentanza sono ammesse in deduzione nella misura di un terzo del loro ammontare e sono deducibili per quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.

Si considerano spese di rappresentanza anche quelle sostenute per i beni distribuiti gratuitamente, nonché se recano emblemi, denominazioni o altri riferimenti atti a distinguerli come prodotti dell’impresa, e i contributi erogati per l’organizzazione di convegni e simili. Le predette limitazioni non si applicano ove le spese di rappresentanza siano riferite a beni di cui al periodo precedente di valore unitario non eccedente euro 25,82”.

La C.T.R., nel riconoscere la deducibilità delle spese di rappresentanza nella misura del 30%, ha fatto comunque riferimento a quanto previsto dall’art. 108 T.u.i.r., che prevede, non solo la entità delle spese deducibili, ma anche le modalità di deduzione, che devono intendersi richiamate con il rinvio alla normativa in materia.

Per quanto riguarda, poi, la violazione dell’art.109 T.u.i.r., che prevede il requisito dell’inerenza ai fini della deducibilità delle spese, e dell’art. 2697 c. c., sul riparto dell’onere probatorio, deve rilevarsi che per le spese di rappresentanza l’inerenza va valutata in base ad un criterio di ragionevolezza, secondo cui la spesa deve essere ragionevole e coerente in funzione dell’obiettivo aziendale e con gli usi e pratiche commerciali del settore in cui l’impresa opera.

Nel caso di specie, la C.T.R. ha ritenuto in fatto che le spese fossero inerenti ed avessero finalità di rappresentanza, pur non presentando una stretta correlazione temporale con eventi e commissioni, in quanto riguardavano beni e servizi offerti a terzi del settore (modelle, vip, stilisti e fornitori) ed erano, quindi, finalizzate alla crescita d’immagine ed al maggior prestigio dell’impresa, nonché al potenziamento delle sue possibilità di sviluppo.

L’accertamento in fatto del giudice di appello (che evidentemente non riguarda le spese della figlia Alessandra, per le quali la C.T.R. ha escluso l’inerenza all’attività d’impresa) non appare adeguatamente impugnato per vizio di motivazione, poiché l’Agenzia delle entrate non indica un fatto decisivo, di cui la C.T.R. avrebbe omesso l’esame, ma inammissibilmente deduce la mera insufficienza motivazionale, non più censurabile, sollecitando genericamente, in maniera altrettanto inammissibile, una diversa valutazione degli elementi di fatto, già oggetto di esame da parte del giudice appello.

Per quanto fin qui detto il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale e quello incidentale, compensando le spese del giudizio di legittimità;

sussistono i requisiti per porre a carico del ricorrente principale il pagamento del doppio contributo, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d. P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012.

Così deciso in Roma, il giorno 12 giugno 2019.

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