CASSAZIONE

Cartella annullata e concessionario condannato a pagare le spese processuali

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 7 febbraio 2018 n. 2993, confermando quanto già deciso, nel caso de quo, dal Tribunale di Roma, ha rigettato il ricorso di Equitalia, stabilendo che la condanna del concessionario alle spese processuali si fonda sul principio della causalità e non su quello della soccombenza. La condanna alle spese non ha certamente una natura sanzionatoria, né costituisce un risarcimento del danno, ma è un’applicazione del principio di causalità: in altre parole, l’onere delle spese grava su chi ha provocato la necessità del processo.

Il principio che regola la materia è il criterio della soccombenza, sancito dall’art. 91 c.p.c., dove si prevede che il giudice, con la sentenza che chiude il processo dinanzi a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa. Al criterio della soccombenza può derogarsi, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., quando la parte vincitrice sia venuta meno ai doveri di lealtà e probità imposti dall’art. 88 c.p.c., oppure per reciproca soccombenza, oppure ancora per gravi ed eccezionali ragioni.

In questi casi il Giudice può disporre la irripetibilità delle spese sostenute e/o la compensazione.

Tanto ciò premesso, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso in un giudizio di opposizione all’esecuzione concluso con l’accoglimento della stessa, la condanna del concessionario (Equitalia) al pagamento delle spese processuali in applicazione del principio di causalità (chi ha minacciato l’esecuzione ne sopporta le conseguenze), non di quello di soccombenza, a nulla rilevando la circostanza che l’illegittimità dell’azione esecutiva sia da ascrivere all’ente creditore interessato.

Quindi, la condanna del concessionario alle spese processuali si fonda sul principio della causalità e non su quello della soccombenza.

La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che il Tribunale di Roma aveva accolto nel 2015 l’opposizione proposta da M. all’esecuzione iniziata da Equitalia Sud per la riscossione di una cartella esattoriale, emessa per il pagamento di una sanzione amministrativa (irrogata per violazione delle norme del codice della strada), condannando in solido sia il Comune (ovvero l’ente che irrogò la sanzione amministrativa), sia la Equitalia Sud S.p.a. (ovvero l’egente della riscossione), alla rifusione in favore dell’opponente delle spese di lite.

Avverso tale decisione Equitalia ha proposto ricorso per la cassazione con unico motivo.

Peraltro, bisogna ricordare alcuni precedenti sulla materia oggi discussa (ex multis Cass. Sezione VI civile, ordinanza 6 febbraio 2017, n. 3105), nella quale veniva ricordato che l’agente di riscossione è tenuto a pagare le spese del procedimento giudiziale anche se l’illegittimità dell’azione esecutiva intrapresa è da ascrivere all’ente creditore interessato, e non all’agente della riscossione, ma anche l’ordinanza n. 3101/17 pubblicata in pari data, con la quale gli Ermellini hanno precisato che in punto di legittimazione in proprio alla condanna alle spese nelle opposizioni alle cartelle esattoriali, anche se fondate su motivi non inerenti a condotte dell’agente di riscossione, è intervenuta la presa di posizione della Corte di Cassazione, con sentenza 11 luglio 2016, n. 14125 nel senso di ritenere legittima la condanna alle spese in proprio in applicazione del principio non della soccombenza, ma della causalità.

Nel caso in questione i giudici del Palazzaccio precisano che l’opposizione alla cartella di pagamento, con la quale peraltro l’opponente si duole di non avere mai ricevuto la notifica del verbale di contestazione dell’infrazione, in virtù della scissione che il nostro ordinamento prevede fra la titolarità del credito e la titolarità del potere di azione esecutiva, va proposta nei confronti dell’agente della riscossione, che è il solo soggetto che fa sorgere l’onere di contestazione in capo al debitore ed è quindi giocoforza che sia esso a sopportarne le conseguenze in dipendenza della sua veste, per il caso di fondatezza delle contestazioni all’azione esecutiva da esso.

Poiché, poi, l’agente di riscossione ha un vero e proprio onere di chiamare in causa l’ente “creditore interessato” (art. 39, D.lgs. 13 aprile 1999, n. 112), onde evitare di subire le conseguenze negative della lite, egli ha sì la facoltà di chiedere di essere manlevato dal chiamato, quando evidentemente la contestazione ritenuta fondata non riguardi atti commessi dal medesimo agente, ma appunto vizi di procedimento o di merito ascrivibili esclusivamente all’altro, ma bene risponde delle spese di lite imposte dalla sua — benché doverosa, in ragione della condotta dell’ente creditore — stessa condotta, in forza non già o non solo (come avverrebbe se la contestazione ritenuta fondata riguardasse fatti o atti ad esso ascrivibili) del principio di soccombenza, ma allora e quanto meno del principio di causalità.

La Suprema Corte, pertanto, decide che “…il presente giudizio ha preso le mosse da una opposizione a cartella di pagamento, con la quale l’opponente si dolse di non avere mai ricevuto la notifica del verbale di contestazione dell’infrazione; tale opposizione, in virtù della scissione che il nostro ordinamento prevede tra la titolarità del credito e la titolarità del potere di azione esecutiva, va proposta nei confronti dell’agente della riscossione; questi, pertanto, è il solo soggetto che, iniziando l’esecuzione, fa sorgere l’onere di contestazione in capo al debitore ed è quindi giocoforza che sia esso a sopportarne le conseguenze in dipendenza della sua veste, per il caso di fondatezza delle contestazioni all’azione esecutiva da esso, come già ritenuto da questa Corte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3101 del 6.2.2017, alla cui ampia motivazione può in questa sede farsi rinvio);

la sopportazione di tali conseguenze, da parte dell’agente della riscossione, costituisce dunque applicazione del principio di causalità, non di quello di soccombenza, e trova il giusto contrappeso nella facoltà dell’agente della riscossione di chiamare in causa l’ente creditore (ai sensi dell’art. 39 d. lgs. 13 aprile 1999, n. 112), quando l’opposizione si fondi su vizi di procedimento o di merito ascrivibili esclusivamente all’ente impositore o creditore;

aggiungasi che al fine di non aggravare ulteriormente la posizione del debitore d’una pretesa esattoriale, il quale è già assoggettato ad un regime di particolare sfavore — rispetto all’esecuzione ordinaria — in nome delle esigenze di maggiore effettività del recupero connesse alle qualità oggettive o funzionali del credito, non può farglisi carico della ripartizione, tutta interna al rapporto tra ente creditore interessato ed agente della riscossione, dell’imputabilità dell’ingiustizia od iniquità dell’azione esecutiva al primo o al secondo, nemmeno ai fini del riparto delle spese della lite che egli è stato costretto a promuovere per fare valere l’illegittimità dell’azione esecutiva stessa; le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza nei rapporti tra la ricorrente e C. M.”.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 7 febbraio 2018, n. 2993

 

sul ricorso 6019-2016 proposto da:

vt/ EQUITALIA SUD SPA 11210661002, in persona del Responsabile del Contenzioso Esattoriale pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PIEMONTE 39, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE VARI’, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro M. C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato SIMONA PAIANO, che la rappresenta e difende;

ROMA CAPITALE 02438750586, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE, rappresentato e difeso dall’avvocato DOMENICO ROSSI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 19462/2015 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 30/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/12/2017 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI.

Rilevato che:

la società Equitalia Sud spa ha impugnato per cassazione la sentenza del Tribunale di Roma 30.9.2015 n. 19462;

tale sentenza, accogliendo l’opposizione proposta da C. M. all’esecuzione iniziata da Equitalia Sud per la riscossione d’una cartella esattoriale, a sua volta emessa per il pagamento d’una sanzione amministrativa (irrogata per violazione delle norme del codice della strada), ha condannato in solido sia il Comune di Roma (ovvero l’ente che irrogò la sanzione amministrativa), sia la Equitalia Sud s.p.a. (ovvero l’egente della riscossione), alla rifusione in favore dell’opponente delle spese di lite, liquidate in euro 265;

con l’unico motivo del proprio ricorso, la Equitalia lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c.;

è denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 91 e 97 c.p.c., nonché degli artt. 12, 24, 25, 59 d.P.R. 29.9.1973 n. 602; il motivo, pur formalmente unitario, contiene in realtà due censure:

(a) con una prima censura, la ricorrente sostiene che nel giudizio di opposizione all’esecuzione proposto da C. M. essa non si sarebbe potuta ritenere “soccombente” ai sensi dell’art. 91 c.p.c., e di conseguenza non poteva essere condannata alle spese;

(b) con una seconda censura sostiene che, in virtù delle norme che disciplinano la riscossione coattiva a mezzo ruolo esattoriale (d.p.r. 29.9.1973 n. 602), l’agente della riscossione non ha né l’obbligo, né il potere, di verificare la legittimità del titolo esecutivo in base al quale è iniziata l’esecuzione, e di conseguenza non può essere condannata alla rifusione delle spese processuali, nel caso in cui l’opposizione venga accolta per fatti imputabili all’ente impositore (come appunto nel caso di specie, nel quale l’opposizione venne accolta a causa d’un difetto della notifica del verbale di contestazione dell’infrazione al codice della strada commessa dall’opponente, attività? di esclusiva competenza del Comune di Roma);

Considerato che:

il ricorso è infondato;

il presente giudizio ha preso le mosse da una opposizione a cartella di pagamento, con la quale l’opponente si dolse di non avere mai ricevuto la notifica del verbale di contestazione dell’infrazione; tale opposizione, in virtù della scissione che il nostro ordinamento prevede tra la titolarità del credito e la titolarità del potere di azione esecutiva, va proposta nei confronti dell’agente della riscossione; questi, pertanto, è il solo soggetto che, iniziando l’esecuzione, fa sorgere l’onere di contestazione in capo al debitore ed è quindi giocoforza che sia esso a sopportarne le conseguenze in dipendenza della sua veste, per il caso di fondatezza delle contestazioni all’azione esecutiva da esso, come già ritenuto da questa Corte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3101 del 6.2.2017, alla cui ampia motivazione può in questa sede farsi rinvio);

la sopportazione di tali conseguenze, da parte dell’agente della riscossione, costituisce dunque applicazione del principio di causalità, non di quello di soccombenza, e trova il giusto contrappeso nella facoltà dell’agente della riscossione di chiamare in causa l’ente creditore (ai sensi dell’art. 39 d. lgs. 13 aprile 1999, n. 112), quando l’opposizione si fondi su vizi di procedimento o di merito ascrivibili esclusivamente all’ente impositore o creditore;

aggiungasi che al fine di non aggravare ulteriormente la posizione del debitore d’una pretesa esattoriale, il quale è già assoggettato ad un regime di particolare sfavore — rispetto all’esecuzione ordinaria — in nome delle esigenze di maggiore effettività del recupero connesse alle qualità oggettive o funzionali del credito, non può farglisi carico della ripartizione, tutta interna al rapporto tra ente creditore interessato ed agente della riscossione, dell’imputabilità dell’ingiustizia od iniquità dell’azione esecutiva al primo o al secondo, nemmeno ai fini del riparto delle spese della lite che egli è stato costretto a promuovere per fare valere l’illegittimità dell’azione esecutiva stessa; le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza nei rapporti tra la ricorrente e C. M.;

nei rapporti tra la ricorrente e Roma Capitale possono essere compensate, in considerazione del fatto che l’amministrazione comunale, non essendo destinataria delle doglianze formulate col ricorso, non aveva interesse a contraddire;

il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228).

P.Q.M.

rigetta il ricorso;

condanna Equitalia Sud s.p.a. alla rifusione in favore di C.M. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di curo 710, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie ex art. 2, comma 2, d.m. 10.3.2014 n. 55;

compensa integralmente le spese del presente giudizio di legittimità tra Equitalia Sud s.p.a. e Roma Capitale;

dà atto che sussistono i presupposti previsti dall’art. 13, comma 1 quater, d.p.r. 30.5.2002 n. 115, per il versamento da parte di Equitalia Sud s.p.a. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, addì 14 dicembre 2017.

 

 

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