CASSAZIONE SENTENZE

Avviso di accertamento sospeso? Illegittima l’iscrizione a ruolo

Tributi – Contenzioso – Avviso di accertamentoIscrizione a ruolo – Sospensionegiudiziale dell’esecuzione dell’atto impositivo – Notifica cartella di pagamentoLegittimità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 40047 del 14 dicembre 2021, intervenendo in tema di sospensione dell’avviso di accertamento ha statuito che lAmministrazione finanziaria non dispone della facoltà di iscrivere a ruolo la pretesa e notificare la conseguente cartella di pagamento quando il contribuente ha già ottenuto la sospensione giudiziale dell’esecuzione dell’avviso di accertamento. Ricordiamo che per sospensione giudiziale, ex art. 47 del D.Lgs. 546/1992, s’intende quella facoltà concessa al contribuente di chiedere alla Commissione tributaria competente la sospensione dell’atto impugnato come l’avviso di accertamento o la cartella di pagamento, mediante la proposizione di una opportuna istanza, qualora ritenga che dall’atto gli possa derivare un danno grave e irreparabile.

Nello specifico gli Ermellini hanno illustrato, superando la precedente giurisprudenza che laddove l’avviso di accertamento venga giudizialmente sospeso ai sensi dell’art. 47, D.Lgs. 546/1992, è impedita l’iscrizione a ruolo delle somme in esso contenute. Ne deriva che il contribuente può ricorrere avverso la relativa cartella di pagamento – la quale deve, in ogni caso, ritenersi priva di esecutività – eccependo che stante l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo per avvenuta sospensione dell’avviso di accertamento, la stessa non poteva essere emessa. I giudici hanno dunque ritenuto superato il diverso orientamento, espresso ad esempio, da Cass. n. 20361/2020, che testualmente recitava: “… la sospensione dell’atto impositivo, concernendo l’esecuzione, non spiega diretti effetti sulla cartella, che è atto prodromico dell’esecuzione, di guisa che la cartella, ove impugnata, avrebbe dovuto essere a sua volta oggetto di richiesta di sospensione qualora la parte avesse ritenuto che potesse derivarle un danno grave ed irreparabile richiesta che nel caso di specie non sembra essere stata avanzata (Cass. n. 30584/2017). Inoltre, si affermava che “… A norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 47, comma 7, gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”. In tema ricordiamo anche il contributo offerto dalla Suprema Corte con l’ordinanza n. 20362/2020, nella quale ebbe ad affermare che la sospensione dell’esecutività dell’avviso di accertamento non opera nei confronti della cartella di pagamento in quanto è atto prodromico rispetto all’esecuzione forzata ed è completamente indipendente rispetto all’avviso di accertamento, inteso quest’ultimo come atto impositivo in senso stretto o atto presupposto.

Nonostante i molti interventi giurisprudenziali sul tema, restava comunque aperto il problema dell’individuazione del giudice davanti al quale proporre l’opposizione agli atti esecutivi quando questa riguarda la regolarità formale o la notificazione del titolo esecutivo e, soprattutto quando il contribuente, di fronte al primo atto dell’esecuzione forzata tributaria, deduce di non avere mai ricevuto in precedenza la notificazione del titolo esecutivo. In ogni modo abbiamo ben presente che al tempo sussistevano, per le modalità di sospensione dell’avviso di accertamento, due opposti orientamenti della Suprema Corte, che pure si muovevano dal medesimo presupposto interpretativo: l’inammissibilità delle opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi, stabilita dal DPR n. 602/1973, art. 57, non andava intesa (pena la violazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost.) come assoluta esclusione della tutela giudiziale delle situazioni soggettive prese in considerazione da dette opposizioni.

Gli orientamenti divergevano, però, sull’individuazione del giudice al quale si debba rivolgersi. In base al primo di essi, l’opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che il contribuente ritiene essere viziato da nullità derivata dall’omessa notificazione degli atti presupposti, si risolve nell’impugnazione del primo atto in cui viene manifestato al contribuente stesso l’intento di procedere alla riscossione di una ben individuata pretesa tributaria. L’opposizione, pertanto, è ammissibile e va proposta davanti al giudice tributario (ai sensi del D.Lgs. n. 546/1992, art. 2, comma 1, secondo periodo, e art. 19 (espresso, tra le altre da Cass., Sezioni Unite, n. 14667 del 2011; Cass., Sezione quinta, n. 24915 del 2016; spunti nello stesso senso in Cass., Sezioni Unite, n. 15994 e n. 5993 del 2012, anche se in relazione alla diversa fattispecie di una “opposizione ex art. 617 c.p.c., diretta a far valere vizi della cartella di pagamento” emessa per un credito tributario).

.contribuente vuole far valere la nullità del pignoramento derivante da un’invalida notifica del titolo esecutivo, sia esso cartella di pagamento o avviso “impo-esattivo”, deve rivolgersi al giudice tributario proponendo una opposizione agli atti esecutivi. Questo, in sintesi, è stato l’approdo delle Sezioni Unite per risolvere il contrasto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione tributaria a favore di quest’ultima, che in buona sostanza era formato da due aspetti da avvalorare per determinarne la giurisdizione. Il primo era la materia, visto che l’art. 2, primo comma, del D.Lgs. 546/1992 prevede espressamente che se la controversia ha ad oggetto tributi, la giurisdizione spetta agli organi tributari. La valorizzazione di questi aspetti era condizione determinante per una parte della Suprema Corte al fine di adire alla giurisdizione tributaria, impugnando direttamente atti dell’esecuzione dinnanzi alla Commissione tributaria competente, quando si provvedesse a contestare la notifica della cartella di pagamento.

Il secondo orientamento giurisprudenziale, invece, così prevedeva: “l’opposizione agli  atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento, che si assume viziato,  è ammissibile dinanzi al giudice ordinario, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57 e dell’art. 617 c.p.c., anche quando ne venga fatta valere la nullità  per omessa notificazione della cartella di pagamento o dell’intimazione  ad adempiere, con la conseguenza che, in tale caso, il giudice dovrà verificare  solo  la sussistenza o meno del difetto di notifica all’esclusivo fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale” (espresso, tra le altre pronunce, da Cass., Sezioni Unite, n. 21690/2016 e n. 8618/2015; vedi inoltre Cass. n. 24235 e n. 9246, entrambe del 2015).

I Giudici di piazza Cavour, quindi, miravano a superare la linea di confine tracciata dal legislatore stesso riferendosi proprio all’art 2, primo comma, secondo capoverso, che esclude l’impugnabilità degli atti esecutivi (compreso il pignoramento) dinanzi al Giudice tributario. Diveniva dunque indispensabile stabilire quale fosse il reale oggetto della controversia e se la contestazione riguardava non l’atto dell’esecuzione ma il titolo esecutivo ad esso sotteso e allora innegabile era la giurisdizione tributaria, posto che il titolo esecutivo è atto impugnabile ai sensi dell’art. 19, D.Lgs. 546/1992. Difatti l’opposizione agli atti esecutivi riguardante un atto di pignoramento, che il contribuente assume essere viziato per nullità derivata dall’omessa notificazione degli atti presupposti, è ammissibile e va proposta dinanzi al giudice ordinario, ai sensi del DPR 602/1973, art. 57, e degli artt. 617 e 9 cod. proc. civ. , perché la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria sussiste quando sia impugnato un atto dell’esecuzione forzata tributaria successivo alla notificazione della cartella di pagamento (come, appunto, un atto di pignoramento), restando irrilevante il vizio dedotto e, quindi, anche quando detto vizio venga indicato nella mancata notificazione della cartella di pagamento: in tale ipotesi, il giudice ordinario dovrà verificare solo se ricorra il denunciato difetto di notifica all’esclusivo fine di pronunciarsi sulla nullità del consequenziale pignoramento basato su crediti tributari. Ora, questo ulteriore e innovativo contributo offerto con la pronuncia oggi in commento che, ripetiamo, può essere riepilogato più sinteticamente in: “L’Amministrazione finanziaria non può iscrivere a ruolo la pretesa e notificare la conseguente cartella di pagamento nel caso in cui il contribuente abbia ottenuto la sospensione giudiziale dell’esecuzione dell’avviso di accertamento”, mette in evidenza essenzialmente la diversa natura dell’avviso di accertamento, quale atto presupposto e prodromico  nel quale l’Amministrazione finanziaria esterna la propria pretesa impositiva, rispetto alla  cartella di pagamento quale atto successivo rispetto allo stesso avviso di accertamento, con  la quale ha inizio la procedura di riscossione coattiva.  La Corte di Cassazione, rammentando innanzitutto il contenuto dell’articolo 47, D.Lgs. 546/1992 e dell’articolo 39, DPR 602/1973, riguardanti rispettivamente la sospensione giudiziale e quella amministrativa, ne ha ben precisato le differenze, sottolineando che esse coesistono e possono essere concesse al contribuente contemporaneamente e alternativamente, ma che, pur non essendo previste norme di raccordo, è evidente che la prima prevalga sulla seconda.  Gli effetti sospensivi che possono riguardare l’avviso di accertamento non investono la cartella di pagamento per quanto prodromica rispetto alla stessa esecuzione forzata di cui alTitolo II del DPR 602/1973.

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, la vicenda la vicenda in esame trae origine dalla notifica di un avviso di accertamento a una società, nei confronti della quale veniva richiesta e ottenuta la sospensione dell’esecuzione. Tuttavia, l’A.F. dichiarava esecutivo il ruolo consegnandolo all’Agente della riscossione, che poi notificava la successiva cartella di pagamento. Avverso tale atto si proponeva ricorso dinanzi alla competente C.T.P. che accoglieva l’impugnazione. La C.T.R. riformava la decisione ritenendo che la cartella di pagamento non era impugnabile ai sensi dell’articolo 19, D.Lgs. 546/1992, in quanto non affetta da vizi propri e che la sospensione cautelare disposta dal giudice paralizzava provvisoriamente l’esecutività dell’atto, senza incidere sulla sua efficacia. Pertanto, la società contribuente proponeva ricorso per cassazione deducendo la violazione o falsa applicazione degli articoli 47 e 19, D.Lgs. 546/1992 e dell’articolo 15, DPR 602/1973, lamentando anche il vizio di illogica e contraddittoria motivazione della sentenza.

La Corte di Cassazione, rammentando innanzitutto il contenuto dell’articolo 47, D.Lgs. 546/1992 e dell’articolo 39, DPR 602/1973, concernenti rispettivamente la sospensione giudiziale e quella amministrativa, ha ritenuto di manifesta infondatezza le doglianze presentate dalla parte contribuente e che: “ … La difesa denuncia un’apparente violazione dell’art. 24 d.lvo 159/2011, ma nella sostanza formula critiche alla motivazione del decreto impugnato, che esulano ex art. 10 d.lvo 159/2011 dall’ambito del giudizio di legittimità che, in materia di misure di prevenzione, può avere ad oggetto esclusivamente le violazioni di legge, ma non i vizi di motivazione riconducibili alla disciplina di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. La Corte d’Appello, escludendo che il provvedimento ablativo abbia colpito i ricorrenti in quanto eredi, ma in proprio, ha messo in evidenza le diverse situazioni giuridiche che caratterizzano i cespiti oggetto di confisca rilevando che: a) il conto transitorio era intestato esclusivamente al ricorrente S. F., mentre il figlio Si. disponeva di delega ad operare sul detto conto;b) il libretto nominativo era cointestato alla A. I. e al Si. F.; c) il conto corrente ordinario era intestato al S. F. avendo il figlio Si. una delega ad operare sul detto conto. La corte romana ha proceduto ad un’analisi differenziata dei tre cespiti dando rilevanza all’atto di delega conferita dal S. F. al figlio Si. ad operare sui conti bancari, così attribuendo a detta delega significatività sul piano probatorio ai fini della valutazione dell’esistenza di un’ intestazione fittizia dei conti (v. pp. 5 e del decreto impugnato). In quest’ottica la Corte territoriale, ha ritenuto la fittizietà della intestazione valorizzando l’aspetto indiziante rappresentato dalla delega, mettendo così in evidenza l’esistenza di un onere probatorio in capo al titolare formale dei conti (S. F.) di dimostrare la esclusiva disponibilità delle risorse giacenti per sottrarle alla confisca

[v. in tal senso Cass. sez. 6 n. 49878 in Ced Cass. rv 258140]

. La decisione è corretta sul piano giuridico. L’articolo 26 d.lvo 159/2006 disciplinando la materia della c.d. “intestazione fittizia, da coordinarsi con l’articolo 24 dello stesso decreto legislativo, non pone alcun vincolo probatorio nella dimostrazione della esistenza di un’intestazione fittizia di un qualsivoglia bene che sia da ricondursi al proposto. La Corte romana dopo avere sottoposto a vaglio critico l’”atto della delega” sotto il profilo di una sua compatibilità logico-funzionale con la situazione concreta, ritenendo il dato probatorio ex se insufficiente a sciogliere il conseguente dubbio sulla reale titolarità delle disponibilità economiche giacenti sui conti, seguendo le regole generali dettate dall’art. 24 comma 1 d.lvo 159/2011, tenendo conto delle allegazioni difensive, ha svolto valutazioni in ordine alla proporzionalità esistente tra le risorse economiche rappresentate dai saldi dei due rapporti bancari e i redditi dichiarati dal S. F.. Sotto un profilo di stretto diritto, il metodo seguito dalla Corte territoriale è corretto siccome applicativo di una regola di inferenza stabilita dallo stesso articolo 24 d.lvo 159/2011 richiamata dal terzo comma dell’art. 23 dello stesso decreto qualora il provvedimento ablativo coinvolga, come nel caso in esame, interessi di soggetti terzi. Dalla lettura delle due disposizioni si ritrae che il criterio di inferenza rappresentato dall’apprezzamento della proporzionalità tra il valore dei beni sottoposti a sequestro (finalizzato alla confisca di prevenzione) e i redditi dichiarati dal terzo ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica, è l’unico utilizzabile dal giudice della prevenzione, unitamente a quello della prova positiva della lecita provenienza del bene sequestrato. Di qui discende la manifesta infondatezza delle censure mosse con il primo motivo di ricorso sub lett. a) ed e). L’indagine della Corte territoriale ha portato a motivata decisione la piena legittimità delle disponibilità giacenti sul conto corrente di corrispondenza (c.d. conto ordinario) intestato al ricorrente, avendo questi, infatti fornito prova positiva, ritenuta esaustiva, circa la lecita provenienza delle somme che hanno alimentato il conto. Adottando lo stesso percorso logico giuridico, la Corte territoriale ha ritenuto che per le disponibilità economiche giacenti sul c.d. conto transitorio (97.000,00 €), il S. F. non ha fornito prova adeguata. Sul punto la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa ha analizzato le giustificazioni fornite dal ricorrente ed in particolare la circostanza che sul conto in esame siano confluiti quote di fondi “Romangest” sottoscritti nel 2002 dal S. F..Sul punto la Corte romana ha messo in evidenza che risultano privi di adeguata prova giustificativa agli effetti dell’articolo 24 d.lvo 159/2001 due specifici aspetti: 1) la giustificazione della provenienza delle somme utilizzate alla sottoscrizione dei fondi Romangest; 2) la giustificazione, di una giacenza, al momento del sequestro pari quasi al triplo del valore dei fondi sottoscritti. Su entrambi gli aspetti la difesa non ha formulato alcuna specifica e puntuale critica dimostrativa di un’erronea applicazione della legge da parte della Corte territoriale, che puntualmente registra, fra l’altro, la coincidenza cronologica tra il mo- mento della sottoscrizione dei fondi Romangest e il periodo in cui ha inizio la attività illecita che porterà il Si. F. alla condanna per i gravi illeciti. Le censure mosse da ricorrente in tal caso, partendo da una critica generica al metodo seguito dalla Corte territoriale, scadono in vere e proprie doglianze di merito il cui apprezzamento esula del tutto dal giudizio di legittimità. Di qui la manifesta infondatezza delle doglianze di cui al primo motivo di ricorso lett. b) ed f). A completamento di questa parte non può poi ritenersi dirimente la generica doglianza relativa alla mancata indagine da svolgersi in ordine all’andamento dell’investimento in fondi e allo sviluppo della movimentazione del conto transitorio, posto che normativamente è onere del ricorrente fornire la prova della legittima provenienza delle risorse sequestrate. Né può essere accolta l’ulteriore doglianza manifestata dalla difesa che ha denunciato l’impossibilità a fornire la prova richiesta, a causa del sequestro disposto fin dal 2010 dei conti. Tale giustificazione non regge nella misura in cui il ricorrente non ha fornito dimostrazione di una specifica attivazione volta all’acquisizione di documentazione utile alla prova della propria tesi, ed ingiustificatamente impedita dalla Autorità che di quella documentazione ha la disponibilità Le residue censure attinenti alla confisca del conto transitorio mosse dalla difesa riguardano aspetti valutativi e di merito non suscettibili di apprezzamento in sede di legittimità. Con riferimento alla disposta confisca del 50% della giacenza sul libretto postale nominativo cointestato al Si. F. e alla di lui madre, odierna ricorrente, va osservato che il ricorso è inammissibile. Le doglianze sono generiche e non tengono conto del fatto che in questo caso la Corte d’Appello ha disposto la confisca nella misura indicata, sul presupposto della accertata e non confutata cointestazione del libretto e di una riconducibilità del 50% della giacenza alla disponibilità del Si. F., in assenza di dimostrazione contraria (da parte della A. I.) che non pare neppure essere stata tentata dalla difesa. Per le suddette ragioni il ricorso è inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500 alla Cassa delle Ammende, così equitativamente determinata la sanzione amministrativa prevista dall’art. 616 cod. proc. pen., ravvisandosi nella condotta del ricorrente gli estremi della responsabilità ivi stabilita”.

Corte di Cassazione – Sentenza 14 dicembre 2021, n. 40047

sul ricorso proposto da:

F. S. N. IL 23/05/1941 I. A. N. IL 18/05/1941 avverso il decreto n. 26/2015 CORTE APPELLO di ROMA, del 03/12/2015

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. UGO DE CRESCIENZO;

lette/sentite le conclusioni del PG

Uditi difensori Avv.;

RITENUTO IN FATTO

S. F. e Antona I. ricorrono per Cassazione avverso il decreto 3.12.2015 con il quale la Corte d’Appello di Roma, ha disposto la confisca ex art. 24 d.lvo n. 159/2011 del conto transitorio n. 11025004 e della quota pari al 50% del saldo del libretto nominativo di risparmio n. 10147405 acceso presso Poste Italiane spa.

La difesa chiede l’annullamento della decisione impugnata deducendo i seguenti motivi così riassunti entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 1) violazione dell’art. 24 d.lvo 159/2011 e mancanza assoluta di motivazione in relazione a talune delle devoluzioni difensive di cui all’atto di appello.

La difesa si duole del fatto che la Corte d’Appello:

a) si sia concentrata sulla liceità dell’accumulo delle somme rinvenute sul conto transitorio, apprezzato attraverso il dato della congruità del rapporto redditi/disponibilità, senza fornire alcuna prova in ordine alla “fittizietà” dell’intestazione, così come richiesto dall’art. 24 d.lvo 159/2011 (pag. 4 del ricorso);

b) non ha considerato che le somme di cui al conto transitorio sarebbero il frutto di uno sviluppo incrementativo degli investimenti fatti dal ricorrente con somme lecitamente disponibili, circostanza quest’ultima che, per effetto del sequestro penale in essere fin dal 2010 (pag. 5 del ricorso) è stato impedito di dimostrare;

c) ha assunto come circostanza probante dell’illiceità della fonte di provenienza delle somme sequestrate, il dato della “sperequazione” patrimoniale, valevole ex se, in tesi della difesa, solo come “indicatore” nel giudizio di riferibilità dei beni al proposto e non al terzo;

d) ha adottato parametri di calcolo della capacità reddituale errati, perché non ha tenuto conto dell’autonomia economica dei figli del ricorrente;

e) non ha considerato che il ricorrente ha dimostrato che le somme di denaro oggetto di sequestro e successiva confisca fossero di propria pertinenza, elemento di fatto, quest’ultimo, sufficiente a contestare l’asserto accusatorio della fittizia intestazione;

f) non ha verificato chi abbia operato le movimentazione di conto sia per quanto attiene al rapporto bancario sia per quanto attiene al libretto al portatore;

g) ha errato nel ritenere incondizionatamente aggredibile la giacenza del libretto fino alla concorrenza della metà del suo saldo.

RITENUTO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

Va premesso in fatto che il presente procedimento ablativo prende le mosse dalla predicata qualificata pericolosità sociale di F. Si. (figlio degli odierni ricorrenti e vittima del delitto di omicidio consumato in suo danno il 3.7.2014) e dal successivo sequestro e confisca del cospicuo patrimonio a questi riconducibile pro- vento di attività illecita che ha determinato la sua condanna (con sentenza 17.10.2013 del Tribunale di Roma) alla pena di anni nove di reclusione ed € 13.000,00 di multa per i delitti di associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, frode fiscale attuata secondo il meccanismo delle frodi carosello con conseguente danno per l’erario di 370.000.000,00 di €.

Dalla lettura del provvedimento impugnato si evince che il Tribunale di Roma con decreto 15.12.2014 aveva disposto la confisca, nell’ambito di un più ampio compendio di beni e utilità ritenuti ricadere nell’asse ereditario di F. Si. o comunque provento dell’illecita attività a questi attribuita dei seguenti beni:

1) conto corrente 400472320 c/o Unicredit;

2) conto deposito transitorio 11025004 c/o Unicredit libretto nominativo al risparmio 10147405 c/o Poste italiane.

La corte d’Appello, accogliendo parzialmente l’impugnazione del suddetto decreto, revocava la confisca del saldo del conto corrente 400472320, nonché del 50% del saldo depositato sul libretto nominativo postale 10147405, confermando il provvedimento ablativo del conto di deposito transitorio e del restante 50% del saldo giacente sul libretto nominativo postale.

La difesa denuncia un’apparente violazione dell’art. 24 d.lvo 159/2011, ma nella sostanza formula critiche alla motivazione del decreto impugnato, che esulano ex art. 10 d.lvo 159/2011 dall’ambito del giudizio di legittimità che, in materia di misure di prevenzione, può avere ad oggetto esclusivamente le violazioni di legge, ma non i vizi di motivazione riconducibili alla disciplina di cui all’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. La Corte d’Appello, escludendo che il provvedimento ablativo abbia colpito i ricorrenti in quanto eredi, ma in proprio, ha messo in evidenza le diverse situazioni giuridiche che caratterizzano i cespiti oggetto di confisca rilevando che:

a) il conto transitorio era intestato esclusivamente al ricorrente S. F., mentre il figlio Si. disponeva di delega ad operare sul detto conto;

b) il libretto nominativo era cointestato alla A. I. e al Si. F.;

c) il conto corrente ordinario era intestato al S. F. avendo il figlio Si. una delega ad operare sul detto conto. La corte romana ha proceduto ad un’analisi differenziata dei tre cespiti dando rilevanza all’atto di delega conferita dal S. F. al figlio Si. ad operare sui conti bancari, così attribuendo a detta delega significatività sul piano probatorio ai fini della valutazione dell’esistenza di un’ intestazione fittizia dei conti (v. pp. 5 e del decreto impugnato).

In quest’ottica la Corte territoriale, ha ritenuto la fittizietà della intestazione valorizzando l’aspetto indiziante rappresentato dalla delega, mettendo così in evidenza l’esistenza di un onere probatorio in capo al titolare formale dei conti (S. F.) di dimostrare la esclusiva disponibilità delle risorse giacenti per sottrarle alla confisca [v. in tal senso Cass. sez. 6 n. 49878 in Ced Cass. rv 258140].

La decisione è corretta sul piano giuridico. L’articolo 26 d.lvo 159/2006 disciplinando la materia della c.d. “intestazione fittizia, da coordinarsi con l’articolo 24 dello stesso decreto legislativo, non pone alcun vincolo probatorio nella dimostrazione della esistenza di un’intestazione fittizia di un qualsivoglia bene che sia da ricondursi al proposto. La Corte romana dopo avere sottoposto a vaglio critico l’”atto della delega” sotto il profilo di una sua compatibilità logico-funzionale con la situazione concreta, ritenendo il dato probatorio ex se insufficiente a sciogliere il conseguente dubbio sulla reale titolarità delle disponibilità economiche giacenti sui conti, seguendo le regole generali dettate dall’art. 24 comma 1 d.lvo 159/2011, tenendo conto delle allegazioni difensive, ha svolto valutazioni in ordine alla proporzionalità esistente tra le risorse economiche rappresentate dai saldi dei due rapporti bancari e i redditi dichiarati dal S. F..

Sotto un profilo di stretto diritto, il metodo seguito dalla Corte territoriale è corretto siccome applicativo di una regola di inferenza stabilita dallo stesso articolo 24 d.lvo 159/2011 richiamata dal terzo comma dell’art. 23 dello stesso decreto qualora il provvedimento ablativo coinvolga, come nel caso in esame, interessi di soggetti terzi. Dalla lettura delle due disposizioni si ritrae che il criterio di inferenza rappresentato dall’apprezzamento della proporzionalità tra il valore dei beni sottoposti a sequestro (finalizzato alla confisca di prevenzione) e i redditi dichiarati dal terzo ai fini delle imposte sul reddito o alla propria attività economica, è l’unico utilizzabile dal giudice della prevenzione, unitamente a quello della prova positiva della lecita provenienza del bene sequestrato.

Di qui discende la manifesta infondatezza delle censure mosse con il primo motivo di ricorso sub lett. a) ed e). L’indagine della Corte territoriale ha portato a motivata decisione la piena legittimità delle disponibilità giacenti sul conto corrente di corrispondenza (c.d. conto ordinario) intestato al ricorrente, avendo questi, infatti fornito prova positiva, ritenuta esaustiva, circa la lecita provenienza delle somme che hanno alimentato il conto. Adottando lo stesso percorso logico giuridico, la Corte territoriale ha ritenuto che per le disponibilità economiche giacenti sul c.d. conto transitorio (97.000,00 €), il S. F. non ha fornito prova adeguata. Sul punto la Corte territoriale, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa ha analizzato le giustificazioni fornite dal ricorrente ed in particolare la circostanza che sul conto in esame siano confluiti quote di fondi “Romangest” sottoscritti nel 2002 dal S. F.

Sul punto la Corte romana ha messo in evidenza che risultano privi di adeguata prova giustificativa agli effetti dell’articolo 24 d.lvo 159/2001 due specifici aspetti:

1) la giustificazione della provenienza delle somme utilizzate alla sottoscrizione dei fondi Romangest;

2) la giustificazione, di una giacenza, al momento del sequestro pari quasi al triplo del valore dei fondi sottoscritti. Su entrambi gli aspetti la difesa non ha formulato alcuna specifica e puntuale critica dimostrativa di un’erronea applicazione della legge da parte della Corte territoriale, che puntualmente registra, fra l’altro, la coincidenza cronologica tra il mo- mento della sottoscrizione dei fondi Romangest e il periodo in cui ha inizio la attività illecita che porterà il Si. F. alla condanna per i gravi illeciti. Le censure mosse da ricorrente in tal caso, partendo da una critica generica al metodo seguito dalla Corte territoriale, scadono in vere e proprie doglianze di merito il cui apprezzamento esula del tutto dal giudizio di legittimità.

Di qui la manifesta infondatezza delle doglianze di cui al primo motivo di ricorso lett. b) ed f).

A completamento di questa parte non può poi ritenersi dirimente la generica doglianza relativa alla mancata indagine da svolgersi in ordine all’andamento dell’investimento in fondi e allo sviluppo della movimentazione del conto transitorio, posto che normativamente è onere del ricorrente fornire la prova della legittima provenienza delle risorse sequestrate. Né può essere accolta l’ulteriore doglianza manifestata dalla difesa che ha denunciato l’impossibilità a fornire la prova richiesta, a causa del sequestro disposto fin dal 2010 dei conti. Tale giustificazione non regge nella misura in cui il ricorrente non ha fornito dimostrazione di una specifica attivazione volta all’acquisizione di documentazione utile alla prova della propria tesi, ed ingiustificatamente impedita dalla Autorità che di quella documentazione ha la disponibilità Le residue censure attinenti alla confisca del conto transitorio mosse dalla difesa riguardano aspetti valutativi e di merito non suscettibili di apprezzamento in sede di legittimità.

Con riferimento alla disposta confisca del 50% della giacenza sul libretto postale nominativo cointestato al Si. F. e alla di lui madre, odierna ricorrente, va osservato che il ricorso è inammissibile.

Le doglianze sono generiche e non tengono conto del fatto che in questo caso la Corte d’Appello ha disposto la confisca nella misura indicata, sul presupposto della accertata e non confutata cointestazione del libretto e di una riconducibilità del 50% della giacenza alla disponibilità del Si. F., in assenza di dimostrazione contraria (da parte della A. I.) che non pare neppure essere stata tentata dalla difesa. Per le suddette ragioni il ricorso è inammissibile e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500 alla Cassa delle Ammende, così equitativamente determinata la sanzione amministrativa prevista dall’art. 616 cod. proc. pen., ravvisandosi nella condotta del ricorrente gli estremi della responsabilità ivi stabilita.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.500,00 ciascuno a favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 7 febbraio 2017.

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