CASSAZIONE

Autoriciclaggio: il giudice non è tenuto a trovare alcun nesso tra beni confiscabili e reato

Reati tributari – Autoriciclaggio – Reato- spia – Sequestro preventivo diretto e per equivalente finalizzato alla confisca – Rateizzazione del debito – Barca di proprietà – Confisca per sproporzione – Violazione di legge – Rimozione del sequestro – Esclusione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 41780 del 17 novembre 2021 è intervenuta sul delitto di autoriciclaggio, articolando una interessante presa di posizione sulla c.d. confisca allargata per affermare che è possibile procedere alla confisca dell’imbarcazione anche se con valore sproporzionato rispetto al reddito posseduto dall’indagato, confermando il sequestro preventivo emesso dal Gip nell’ambito di un’indagine relativa ai delitti di cui agli artt. 648-ter.1 c.p. e 2 del D.lgs. 74/2000. Pertanto, per i casi di condanna o di applicazione della pena per determinati reati, hanno quindi sentenziato gli Ermellini, “… è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.

Ricordiamo al riguardo che gli accertamenti avevano consentito di far emergere un complesso meccanismo di reati fiscali posti in essere mediante il ricorso sistematico a false fatture per prestazioni pubblicitarie, funzionale alla commissione dell’autoriciclaggio, attraverso l’interposizione di società straniere. Inoltre, il fine dell’indagine era quello di dimostrare la sproporzione tra i redditi dichiarati dal contribuente negli ultimi quindici anni e i costi sostenuti per l’acquisto e la gestione dell’imbarcazione nello stesso arco temporale, pari ad oltre 30 milioni di euro. L’inchiesta aveva fatto emergere che gli indagati, con la complicità di un supposto c.d. sodalizio criminale di professionisti e altri imprenditori, italiani ed esteri, avrebbero impiegato somme di denaro proventi di frodi fiscali, veicolandole verso società off-shore con sede in Croazia, Svizzera, Principato di Monaco e Panama, funzionali all’acquisito e alla gestione dell’imbarcazione.

In altre parole, la S.C. ha voluto ricordare che la confiscabilità non è esclusa dal solo fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore superi il provento di tale reato.

Appare utile soffermarsi anche sul concetto evocato della pertinenzialità, come definito dall’art. 817 del codice civile, che la prevede come il risultato di due fattori sinteticamente definibili come l’oggettiva destinazione di un bene a servizio od ornamento di un altro bene e la volontà del proprietario di instaurare tale rapporto di destinazione: esse, infatti, pur potendo formare oggetto di autonomi atti di disposizione, seguono sempre la cosa principale quando la proprietà di quest’ultima viene trasferita, se non sia diversamente disposto.

Le pertinenze sono sottoposte a un particolare regime di circolazione, come dispone l’art. 818 c.c.

Tornando al punto d’interesse individuato nella pronunzia, che riguarda la cd. confisca allargata (o definita anche per sproporzione), rammentiamo che essa si inserisce nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniale disciplinate dal nostro ordinamento per contrastare la criminalità organizzata e aggredire le ricchezze illecitamente accumulate, che potrebbero essere utilizzate anche per la commissione di ulteriori delitti. L’istituto, disciplinato dall’art. 12 sexies del decreto legge 306/1992 (convertito nella legge 356/1992), prevede al comma 2 che, in caso di gravissimi reati, “…è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.

L’ambito di applicazione della confisca allargata sembra essere stato individuato dal legislatore attraverso un discrimen rappresentato dal disvalore del tipo criminoso, parametrato sulla gravità del fatto concreto in base ad individuati livelli quantitativi. In altri termini, il legislatore ha selezionato i reati presupposti, prevedendo delle soglie quantitative di rilevanza superate le quali il giudice può disporre l’applicazione della confisca allargata. 

Invero, la confisca allargata si caratterizza per essere una misura ablatoria diretta a colpire beni non pertinenti al reato e, dunque, diversi dal prezzo, dal prodotto e dal profitto dell’illecito. Ciò è ormai pacifico sia nella giurisprudenza delle Sezioni Unite (v. Sent. 920/2004 e lan. 33451/14), che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, v. Ord. 18/2006 e Ord. 18/96 che peraltro hanno escluso che la confisca allargata violi il principio di uguaglianza e il diritto di difesa ovvero che si delinei quale “frutto di una cultura del sospetto”.

Anche secondo la Corte di Cassazione, con la notata SU 920/2004, la presunzione prevista “trova ben radicata base nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore, ad essere perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza”. Al giudice è precluso, a ogni modo, espropriare un patrimonio d’ingente valore senza accertarne la sproporzione rispetto ai redditi ed alle attività economiche del condannato e porre attenzione alle allegazioni difensive. Non pare neppure dubbia la compatibilità della confisca allargata con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, trattandosi di misura che consegue a una sentenza di condanna applicata all’esito di un giusto processo, nel rispetto delle norme della Convenzione europea. La Corte europea ha più volte manifestato favore nei confronti di strumenti di confisca allargata, previsti da diversi ordinamenti per contrastare il crimine organizzato, concentrando la valutazione sulle concrete garanzie offerte agli interessati e dunque sull’effettiva possibilità di difendersi, a principiare dall’intervento di una Corte che consideri le tesi difensive. Secondo la Corte europea, trattandosi di “perdita di proprietà”, la confisca in questione è disciplinata al secondo comma dell’articolo 1 del Protocollo n.1, al pari della confisca di prevenzione.  L’art. 1 recita che “…Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità ed alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non ledono il diritto degli Stati di applicare quelle leggi che giudicano necessarie per disciplinare l’uso dei beni in relazione all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri tributi o ammende”. Qualsiasi interferenza con il diritto di proprietà deve trovare dunque un “giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale della comunità e quelle della tutela dei diritti fondamentali della persona.

Tornando in ambito nazionale tale strumento può essere utilizzato nella fase cautelare con il sequestro preventivo, sulla base di seri indizi di colpevolezza, oppure in seguito a condanna attraverso la confisca definitiva. In questa fattispecie non è richiesta la provenienza illecita del bene, che è invece alla base della confisca di prevenzione disciplinata dall’art. 240 del codice penale; si pone invece in risalto la sproporzione tra reddito dichiarato e valore dei beni, ponendo a carico del soggetto interessato dell’onere di fornire la documentazione attestante la legittima provenienza del bene stesso. La legge non fa riferimento alla titolarità formale dei beni, ma alla loro disponibilità sostanziale, perché si vuole evitare che l’effettiva disponibilità del bene sia occultata tramite l’intestazione fittizia ad altri soggetti, qualunque sia la forma adottata: la “disponibilità” del bene può essere infatti “diretta” (titolarità del diritto di proprietà, del diritto reale, del diritto di credito, ecc.), “indiretta” oppure “per interposta persona fisica o giuridica”.

Infine, è utile rammentare anche che una nuova disciplina della confisca allargata, introdotta dal decreto fiscale 2020 che ha esteso anche a determinati reati tributari, si applica esclusivamente alle condotte delittuose poste in essere dopo il 25 dicembre 2019. L’espressa previsione normativa risolve un profilo di diritto intertemporale connesso alla qualificazione della confisca allargata o per sproporzione, da parte della giurisprudenza, come misura di sicurezza: in assenza di previsioni ad hoc del legislatore, infatti, ciò comporterebbe l’applicabilità della confisca allargata anche ai casi di condanna per reato tributario fraudolento commesso in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova norma.

Vediamo in dettaglio le novità introdotte. La modifica del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D.lgs. 74/2000) reprime la condotta di chi, fuori dai casi previsti dall’art. 2 del medesimo decreto legislativo, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente o avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare  inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi, quando congiuntamente l’imposta evasa è superiore,con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro 30.000, oppure quando l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione è superiore al 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque, è superiore a euro 1.500.000, ovvero qualora l’ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta è superiore al 5% dell’ammontare dell’imposta medesima o comunque a 30.000 euro. Secondo la scuola giurisprudenziale la fattispecie in esame si differenzia da quella del precedente art. 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) in quanto la prima presuppone l’utilizzazione di fatture o documenti analoghi relativi a operazioni inesistenti, mentre la seconda l’impiego di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e il raggiungimento della soglia di punibilità (cfr. Cass. Sez. 3,  n.  6360 del 25/10/2018). II discrimine, quindi, non è dato dalla natura dell’operazione ma dal modo in cui essa viene documentata, come evidenziato dalla pronunzia Cass. n. 38185/2017, nella quale si riportava che il delitto di dichiarazione fraudolenta è configurabile a titolo di dolo eventuale, ravvisabile nell’accettazione del rischio che l’azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l’evasione delle imposte dirette o dell’IVA. Come per il delitto di cui all’art. 2, è stata introdotta anche in questo caso la confisca allargata, purché l’imposta evasa sia superiore ad euro 100.000. Ora, il caso in esame ha avuto un interessante epilogo in quanto l’imbarcazione oggetto di ricorso è stata dissequestrata dal pubblico ministero già con provvedimento del 1° giugno 2021, che accoglieva l’istanza di revoca del sequestro promossa dalla difesa dell’imprenditore, riconoscendo l’insussistenza dei requisiti per procedere al sequestro di cui all’art. 240 bis del codice penale. Inoltre, era stata accertata l’insussistenza della sproporzione tra i redditi di P.F. e il valore dell’imbarcazione. Di fatto a parere del collegio difensivo, poi accolto dalla Procura, “…le osservazioni contenute nell’istanza paiono condivisibili e che pertanto non trova applicazione il disposto dell’art. 240 bis c.p. con riguardo al delitto di autoriciclaggio”.

Tanto premesso e tornando alle specifiche del caso oggi in dibattimento, che comunque rispetta un interessante percorso logico e giuridico, un contribuente si era rivolto alla Cassazione con l’intento di annullare la confisca per sproporzione che aveva interessato uno yacht di cui era titolare, disposta in ordine al delitto di autoriciclaggio su somme provenienti anche da violazioni tributarie. Tra gli altri rilievi il ricorrente aveva censurato il criterio della ragionevolezza temporale su cui era stata fondata la confisca allargata o per sproporzione, in considerazione del decorso di un limitato periodo di tempo tra la commissione del cosiddetto reato spia (o presupposto) e il tempo di acquisizione del bene. Sul punto si evidenzia che per la giurisprudenza della Cassazione non rileva che il valore della confisca superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna (SS.UU. 920/2004; Cass. n. 11269/2009).  A fronte di tali approdi alcune tendenze mitigatrici si registrano in giurisprudenza (Cass. n.5452/2010), attraverso una cauta distribuzione dell’onere probatorio, ristabilendo un sia pur minimo legame tra il reato e il bene, evocato (in astratto) dalla giurisprudenza costituzionale.  

Ne offre l’occasione proprio la necessità di valutare con rigore la dimostrazione storico evolutiva dei periodi in cui si evidenzia la sproporzione tra redditi/attività economiche e acquisti in essi realizzati.  In tal senso, se il pubblico ministero può operare un accertamento in cui il confronto tra reddito dichiarato e patrimonio posseduto viene riferito ad un contesto temporale precedente la commissione del reato contestato, questo deve costituire anche il limite del thema decidendum: ciò vuol dire che ove la sproporzione si riferisca a un determinato periodo di tempo, per gli acquisti realizzati al di fuori di tale fase il provvedimento non troverebbe giustificazione. D’altra parte l’indagato può dimostrare la legittima provenienza dei beni limitando le sue allegazioni al periodo preso in considerazione dal pubblico ministero, senza dover assolvere alla probatio diabolica di dimostrare la legittimità dell’intero suo patrimonio.

Comunque l’imprenditore adiva in Cassazione contro la decisione del Tribunale che aveva autorizzato una confisca per sproporzione emessa dal Giudice per le indagini preliminari, disposta in ordine al delitto di autoriciclaggio su somme provenienti anche da violazioni tributarie. Il ricorso era affidato ad articolati motivi di doglianza nei quali, essenzialmente, si lamentava la nullità dell’ordinanza per violazione dell’art. 240-bis cod. pen.

La Suprema Corte ha giudicato infondato tale motivo di doglianza, ricordando che: “Con riguardo, innanzitutto, al criterio della ragionevolezza temporale, di cui alla prima censura, occorre evidenziare – insieme a Corte cost. n. 33 del 2018, richiamata sia nel provvedimento che nel ricorso – che lo stesso attiene specificamente all’istituto della confisca per sproporzione, di cui all’art. 240-bis cod. pen., e risponde all’evidente fine di evitare un’applicazione abnorme della stessa norma, con possibili e gravi ricadute sull’esercizio del diritto di difesa. La previsione in esame stabilisce che, a fronte della condanna o dell’applicazione della pena per determinati reati, “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”. La norma, dunque, riconnette a due elementi – la qualità di condannato per determinati reati e la sproporzione del patrimonio di cui il soggetto dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica – la presunzione che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare: presunzione, peraltro, solo relativa, potendo il condannato vincerla giustificando la provenienza dei beni. L’istituto poggia, nella sostanza, su una presunzione di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone.  In presenza delle condizioni indicate, il giudice, dunque, non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più generica attività criminosa del condannato. E’ stato ben evidenziato, infatti, che, se fosse richiesto il nesso di “pertinenzialità” al reato per cui si è proceduto, la norma risulterebbe priva di “valore aggiunto” rispetto alla generale previsione dell’art. 240 cod. pen., limitandosi a rendere obbligatoria la confisca di alcune cose che la disposizione del codice configura come facoltativa (senza considerare, peraltro, che in rapporto a plurimi delitti inseriti nella lista dei reati presupposto – quali, ad esempio, l’associazione mafiosa o l’usura – l’ablazione dei beni derivati dal reato è già prevista, in generale, come obbligatoria).  Ne deriva la conclusione – centrale per la vicenda oggetto del ricorso – che la confiscabilità non è esclusa dal fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto, o che il loro valore superi il provento di tale reato.

La disposizione in esame, infatti, si presenta espressiva di una «scelta di politica criminale del legislatore, operata con l’individuare delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare una accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti, e quindi col trarne una presunzione, iuris tantum, di origine illecita del patrimonio “sproporzionato” a disposizione del condannato per tali delitti»: presunzione che trova «base nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore […] ad essere perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza» (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, Montella, Rv. 226490).  Muovendo da queste premesse, la Corte costituzionale ha quindi richiamato il citato principio della ragionevolezza temporale, in forza del quale il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna. Occorre evitare, cioè, una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all’intera vita del condannato; ciò, infatti, rischierebbe di rendere particolarmente problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la provenienza dei beni (ancorché inteso come di semplice allegazione), il quale tanto più si complica quanto più è retrodatato l’acquisto del bene da confiscare. In una simile prospettiva – ha concluso la Consulta sul punto – la fascia di «ragionevolezza temporale», entro la quale la presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria.  Così richiamato l’inquadramento dogmatico dell’istituto, si osserva che il ricorso – sotto la rubrica della violazione di legge – contesta in realtà il vizio di motivazione dell’ordinanza, sul presupposto che il legame temporale in oggetto sarebbe stato riconosciuto pur in presenza di un ampio periodo – circa 10 anni tra l’acquisto dell’imbarcazione (2005) ed il tempus commissi delicti dell’autoriciclaggio (dall’ottobre 2016 al novembre 2018) – e con argomento contrastato dallo stesso capo di imputazione.  Questa censura non merita accoglimento. Pronunciandosi sul punto, il Tribunale ha infatti sottolineato che la coindagata M.F. – figlia del ricorrente e pienamente consapevole dei mezzi fraudolenti impiegati – aveva riferito che il “meccanismo ideato per il mantenimento della barca (“farmi avere indietro il denaro che pagavo a Secom, a fronte dell’emissione di fatture false”) era da lei direttamente gestito dal 2016 (“In buona sostanza ho pagato fatture false per circa 6 milioni di euro dal 2016 al 2018 e mi sono tornati in Svizzera un po’ meno di 5 milioni di euro”), ma riposava su un sistema – intestazione del leasing a varie società, prima italiane e poi estere, nonché finti noleggi – che aveva “ereditato” e che era stato studiato “in quanto mio padre non aveva una dichiarazione dei redditi congrua per giustificare il possesso di una barca di quel valore”. In forza di queste affermazioni – che il ricorso si limita a definire “estrapolate” e “decontestualizzate” – il Tribunale ha quindi affermato che le condotte di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. avevano costituito l’ultimo strumento – in termini di tempo – teso ad assicurare la disponibilità di un bene (l’imbarcazione) non giustificabile con i redditi dichiarati; uno strumento, dunque, che si era inserito in un meccanismo illecito attivato anni addietro, con l’utilizzo dei profitti ex art. 2, d.lgs. n. 74 del 2000 e con l’appropriazione indebita, e con il quale mostrava una evidente continuità per la realizzazione dell’unico fine indicato. Dal che, dunque, la ragionevolezza temporale di cui si discute, evidenziata dalla ricostruzione “a ritroso” di un “meccanismo unitario” che – si ribadisce – aveva consentito di godere di un bene sproporzionato (per valore e costi di gestione) ai redditi dichiarati dal ricorrente. Una motivazione non manifestamente illogica e tutt’altro che apparente, quindi, come tale immeritevole di annullamento, specie alla luce degli stretti termini ammessi dall’art. 325 cod. proc. pen. e sopra richiamati. Le considerazioni che precedono, poi, permettono di rigettare anche il secondo punto del primo motivo di ricorso, con il quale si evidenzia che il reato- spia in oggetto (l’autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen.) non era ancora previsto dall’ordinamento al tempo dell’acquisto del natante, essendo stato introdotto nel codice penale quasi dieci anni dopo, con la I. 15 dicembre 2014, n. 186, in vigore dal 1° gennaio 2015; ebbene, questa tesi non merita accoglimento. La natura della confisca per sproporzione (e del sequestro alla stessa finalizzato), sopra evocata con le parole della Corte costituzionale, consente infatti di riconoscere l’istituto pur in assenza di qualunque legame tra il reato per il quale è pronunciata condanna ed il bene, del quale, pertanto, non rileva neppure il momento dell’acquisto (quale titolarità o disponibilità), sia pur nei limiti di quella ragionevolezza temporale già trattata. Negli stessi termini, allora, una volta individuato – con motivazione non censurabile – questo requisito cronologico, unitamente agli altri presupposti di cui all’art. 240-bis cod. pen., risulta irrilevante perfino la circostanza che il reato-spia non fosse ancora vigente all’instaurarsi della relazione tra il condannato ed il bene, poiché questa viene sanzionata – con l’ablazione – in ragione non del delitto adesso oggetto di condanna, ma di altri reati, precedentemente commessi e non accertati giudizialmente, dai quali si ritiene – con presunzione relativa – che derivino i beni di cui il soggetto dispone. La materia, dunque, si sottrae alla tematica della irretroattività della legge penale, richiamata nel ricorso, poiché non comporta l’applicazione oggi di una norma non vigente all’epoca del fatto (che, peraltro, qui non è il fatto-reato, ma l’acquisto della titolarità o disponibilità del bene), ma il riconoscimento – si ribadisce, con presunzione iuris tantum – di un nesso di derivazione tra il bene ed altri reati allora commessi, ovviamente nella piena vigenza delle disposizioni che ne sancivano l’illiceità penale. La prima parte dell’impugnazione, dunque, deve essere rigettata.  Manifestamente infondata, per contro, risulta poi la seconda parte, che si sviluppa su due motivi connessi, concernenti la riconosciuta sproporzione tra il valore del natante ed i redditi propri dell’indagato; in particolare, con la prima delle due censure si lamenta la carenza di motivazione su tale presupposto, mentre con l’altra si contesta nel merito la decisione assunta, rappresentandosi – con ampio richiamo documentale – la piena capacità patrimoniale del F. ad acquistare l’imbarcazione oggetto di sequestro. Una doppia doglianza, dunque, non consentita di fronte a questa Corte. A giudizio del Collegio, peraltro, anche sul punto la motivazione stesa dal Tribunale non può definirsi assente o di mera apparenza, non meritando, pertanto, di essere annullata.

L’ordinanza impugnata, infatti, al riguardo ha sottolineato che:

a) dalle indagini svolte, risultava che i flussi finanziari che avevano consentito l’acquisto (con leasing) provenivano da Svizzera, Malta, Irlanda e Croazia, mentre i redditi leciti dell’indagato non risultavano esser mai stati trasferiti in questi Paesi;

b) dalle dichiarazioni della figlia, M. F., già sopra ricordate, emergeva chiara l’intenzione di entrambi di giustificare contabilmente, in modo artificioso, la disponibilità di un bene che il ricorrente non avrebbe potuto acquistare, in forza dei redditi dichiarati;

c) questi, in particolare, ammontavano mediamente a circa 600.000 euro annui, come tali assolutamente insufficienti a coprire non solo l’acquisto della barca (23 milioni di euro pagati tra il 2005 ed il 2018), ma anche il mantenimento dello stesso bene, nell’ordine di altre centinaia di migliaia di euro annui. Ancora, il Tribunale ha richiamato gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, fatti propri dal Pubblico ministero, dai quali emergeva che, anche a considerare le ulteriori allegazioni fornite dalla difesa e relative ai dividendi percepiti (sui quali il Collegio di merito, all’evidenza, non poteva svolgere verifiche analitiche), questi non avrebbero comunque consentito di giustificare l’acquisto ed il mantenimento dell’imbarcazione, sia pur immaginandone una improbabile destinazione esclusiva a questo scopo. Una motivazione congrua e fondata su oggettivi elementi investigativi, quindi, che non è possibile porre in discussione in questa sede in forza delle valutazioni patrimoniali diffusamente espresse nel terzo motivo di ricorso, con ampio richiamo a cifre e loro causali, proprie della fase di cognizione ma non valutabili da parte della Corte di legittimità.  Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali”.

Corte di Cassazione – Sentenza 17 novembre 2021, n. 41780

sul ricorso proposto da

F. P., nato a Spresiano (Tv) il 19/11/1941 avverso l’ordinanza del 28/1/2021 del Tribunale del riesame di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere Enrico Mengoni;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Felicetta Marinelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 28/1/2021, il Tribunale del riesame di Milano rigettava la richiesta presentata ex art. 324 cod. proc. pen. da P. F. e, per l’effetto, confermava il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del locale Tribunale 1’11/1/2021 con riguardo ai delitti di cui agli artt. 648-ter.1 cod. pen. e 2, d. 1gs. 10 marzo 2000, n. 74.

2. Propone ricorso per cassazione il F. – con riguardo alla sola confisca “per sproporzione” di un’imbarcazione, disposta in ordine al delitto di autoriciclaggio su somme provenienti anche da violazioni tributarie – deducendo i seguenti motivi:

– nullità dell’ordinanza per violazione dell’art. 240-bis cod. pen.

Premesso che la cd. confisca allargata sarebbe fondata, tra gli altri, sul presupposto della ragionevolezza temporale, ossia del decorso di un limitato periodo di tempo tra la commissione del cd. reato-spia ed il tempo di acquisizione del bene, il Tribunale lo avrebbe riconosciuto pur a fronte del decennio trascorso tra il 2005, anno di stipula del contratto di leasing per l’imbarcazione, ed il 2016, anno di decorrenza delle condotte contestate; risulterebbe evidente, quindi, l’irragionevolezza di tale assunto, peraltro palesemente contrario ad ogni principio di proporzione, in uno con l’errata motivazione del Tribunale che avrebbe riconosciuto – con palese forzatura – un presunto meccanismo unitario, creato all’epoca e preordinato, con continuità, a commettere reati ben dieci anni dopo.

La fallacia di questo argomento, peraltro, risiederebbe anche nel fatto che il reato-spia in oggetto – l’autoriciclaggio, di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. – sarebbe stato introdotto solo dalla I. n. 186 del 2014, con decorrenza dal 1°/1/2015, così da non poter esser collegato all’acquisto del natante, avvenuto nel 2005; il criterio della ragionevolezza temporale, infatti, richiamerebbe la pericolosità sociale di cui il fatto di reato sarebbe sintomo, e non potrebbe esser ravvisato qualora quest’ultimo – all’epoca dell’acquisto del bene – non avesse costituito illecito penale. Diversamente, si perverrebbe ad una abnorme dilatazione dell’operatività della cd. confisca allargata, da evitare anche alla luce della giurisprudenza costituzionale; – la stessa censura, di seguito, è mossa quanto al requisito della sproporzione tra il valore del bene ed il reddito del soggetto condannato, che dovrebbe trovare sempre effettivo riscontro e sicuro accertamento.

Ebbene, il Tribunale avrebbe individuato tale elemento con motivazione del tutto inadeguata, “con raffazzonata valutazione” del presupposto stesso, limitandosi a poche parole che non terrebbero in alcun conto le diffuse allegazioni e produzioni difensive e, dunque, senza alcuna dimostrazione del requisito in esame;

– la nullità dell’ordinanza è poi dedotta per violazione degli artt. 111 Cost., 125, comma 3, 321, cod. proc. pen., 240-bis cod. pen.

Con riguardo, ancora, al decisivo profilo della sproporzione, e riprendendo quanto sopra accennato, il Tribunale avrebbe totalmente omesso di valutare la copiosa documentazione versata dalla difesa, con la quale sarebbe stato provato l’effettivo ammontare dei redditi personali dell’indagato e, dunque, l’assenza della sproporzione medesima; da intendere, peraltro, non come una qualsiasi difformità tra guadagni e capitalizzazione, ma come congruo e significativo squilibrio tra questi.

Ebbene, il ricorrente avrebbe dimostrato per tabulas:

a) che tra il 2004 ed il 2016 avrebbe percepito redditi per almeno 42,5 milioni di euro (come da analitica indicazione nell’atto di parte), oltre ad interessi ed investimenti vari;

b) che alla sottoscrizione del contratto di leasing (novembre 2005), avrebbe prestato fideiussione personale sino a 27,3 milioni di euro;

c) che sarebbe a capo di un gruppo societario leader in Italia e tra i più affermati a livello internazionale, peraltro detenendo il 98% della F. s.r.l. (società al vertice del gruppo stesso) che, negli anni in oggetto, avrebbe maturato utili distribuibili per 274 milioni di euro, pari a 17 milioni annui solo per lui.

A fronte di questa produzione documentale, il Tribunale, di fatto, non avrebbe steso alcuna motivazione, limitandosi ad affermazioni astratte od ininfluenti, come la necessità di sottrarre ai redditi le relative imposte evase, quantificate in 6,9 milioni di euro;

anche a voler compiere questa operazione, infatti, residuerebbe un importo (35,6 milioni) ben adeguato al valore dell’imbarcazione (32,8 milioni di euro, ad accogliere l’eccessiva valutazione dei giudici).

Anche il richiamo alle dichiarazioni della figlia M., poi, risulterebbero irrilevanti, oltre che decontestualizzate, perché riferibili al più al momento dell’acquisto del natante, non agli anni successivi. Palesemente generica, infine, sarebbe l’indicazione di ulteriori imbarcazioni nella disponibilità del ricorrente, così come di “spese legate alle esigenze quotidiane”, perché prive di ogni specificazione.

Ne risulterebbe, dunque, una motivazione palesemente viziata, di mera apparenza, con la quale il Tribunale non avrebbe esaminato affatto gli argomenti esposti dalla difesa ed il loro fondamento documentale, sostenendo il requisito della sproporzione in termini apodittici e privi alcuna effettiva verifica.

3. Con requisitoria scritta del 1/9/2021, il Procuratore generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

4. Osserva preliminarmente questa Corte che, in sede di ricorso per cassazione proposto avverso provvedimenti cautelari reali, l’art. 325 cod. proc. pen. ammette il sindacato di legittimità soltanto per motivi attinenti alla violazione di legge.

Nella nozione di “violazione di legge” rientrano, in particolare, la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice (v., per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004, P.C. Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710; Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611).

4. Tanto premesso in termini generali, il ricorso del F. risulta infondato, non ravvisandosi nell’ordinanza del Tribunale il plurimo vizio di legge denunciato.

5. Con riguardo, innanzitutto, al criterio della ragionevolezza temporale, di cui alla prima censura, occorre evidenziare – insieme a Corte cost. n. 33 del 2018, richiamata sia nel provvedimento che nel ricorso – che lo stesso attiene specificamente all’istituto della confisca per sproporzione, di cui all’art. 240-bis cod. pen., e risponde all’evidente fine di evitare un’applicazione abnorme della stessa norma, con possibili e gravi ricadute sull’esercizio del diritto di difesa.

6. La previsione in esame stabilisce che, a fronte della condanna o dell’applicazione della pena per determinati reati, “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica”.  La norma, dunque, riconnette a due elementi – la qualità di condannato per determinati reati e la sproporzione del patrimonio di cui il soggetto dispone, anche indirettamente, rispetto al suo reddito o alla sua attività economica – la presunzione che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare: presunzione, peraltro, solo relativa, potendo il condannato vincerla giustificando la provenienza dei beni. L’istituto poggia, nella sostanza, su una presunzione di provenienza criminosa dei beni posseduti dai soggetti condannati per taluni reati, per lo più (ma non sempre) connessi a forme di criminalità organizzata: in presenza di determinate condizioni, si presume, cioè, che il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone.

7. In presenza delle condizioni indicate, il giudice, dunque, non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più generica attività criminosa del condannato. E’ stato ben evidenziato, infatti, che, se fosse richiesto il nesso di “pertinenzialità” al reato per cui si è proceduto, la norma risulterebbe priva di “valore aggiunto” rispetto alla generale previsione dell’art. 240 cod. pen., limitandosi a rendere obbligatoria la confisca di alcune cose che la disposizione del codice configura come facoltativa (senza considerare, peraltro, che in rapporto a plurimi delitti inseriti nella lista dei reati presupposto – quali, ad esempio, l’associazione mafiosa o l’usura – l’ablazione dei beni derivati dal reato è già prevista, in generale, come obbligatoria).

8. Ne deriva la conclusione – centrale per la vicenda oggetto del ricorso – che la confiscabilità non è esclusa dal fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto, o che il loro valore superi il provento di tale reato.  La disposizione in esame, infatti, si presenta espressiva di una «scelta di politica criminale del legislatore, operata con l’individuare delitti particolarmente allarmanti, idonei a creare una accumulazione economica, a sua volta possibile strumento di ulteriori delitti, e quindi col trarne una presunzione, iuris tantum, di origine illecita del patrimonio “sproporzionato” a disposizione del condannato per tali delitti»: presunzione che trova «base nella nota capacità dei delitti individuati dal legislatore […] ad essere perpetrati in forma quasi professionale e a porsi quali fonti di illecita ricchezza» (Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, Montella, Rv. 226490).

9. Muovendo da queste premesse, la Corte costituzionale ha quindi richiamato il citato principio della ragionevolezza temporale, in forza del quale il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare talmente lontano dall’epoca di realizzazione del “reato spia” da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna. Occorre evitare, cioè, una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell’istituto della confisca “allargata”, il quale legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all’intera vita del condannato; ciò, infatti, rischierebbe di rendere particolarmente problematico l’assolvimento dell’onere dell’interessato di giustificare la provenienza dei beni (ancorché inteso come di semplice allegazione), il quale tanto più si complica quanto più è retrodatato l’acquisto del bene da confiscare. In una simile prospettiva – ha concluso la Consulta sul punto – la fascia di «ragionevolezza temporale», entro la quale la presunzione è destinata ad operare, andrebbe determinata tenendo conto anche delle diverse caratteristiche della singola vicenda concreta e, dunque, del grado di pericolosità sociale che il fatto rivela agli effetti della misura ablatoria.

10. Così richiamato l’inquadramento dogmatico dell’istituto, si osserva che il ricorso – sotto la rubrica della violazione di legge – contesta in realtà il vizio di motivazione dell’ordinanza, sul presupposto che il legame temporale in oggetto sarebbe stato riconosciuto pur in presenza di un ampio periodo – circa 10 anni tra l’acquisto dell’imbarcazione (2005) ed il tempus commissi delicti dell’autoriciclaggio (dall’ottobre 2016 al novembre 2018) – e con argomento contrastato dallo stesso capo di imputazione.

11. Questa censura non merita accoglimento. Pronunciandosi sul punto, il Tribunale ha infatti sottolineato che la coindagata M..F. – figlia del ricorrente e pienamente consapevole dei mezzi fraudolenti impiegati – aveva riferito che il “meccanismo ideato per il mantenimento della barca (“farmi avere indietro il denaro che pagavo a S., a fronte dell’emissione di fatture false”) era da lei direttamente gestito dal 2016 (“In buona sostanza ho pagato fatture false per circa 6 milioni di euro dal 2016 al 2018 e mi sono tornati in Svizzera un po’ meno di 5 milioni di euro”), ma riposava su un sistema – intestazione del leasing a varie società, prima italiane e poi estere, nonché finti noleggi – che aveva “ereditato” e che era stato studiato “in quanto mio padre non aveva una dichiarazione dei redditi congrua per giustificare il possesso di una barca di quel valore”. In forza di queste affermazioni – che il ricorso si limita a definire “estrapolate” e “decontestualizzate” – il Tribunale ha quindi affermato che le condotte di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen. avevano costituito l’ultimo strumento – in termini di tempo – teso ad assicurare la disponibilità di un bene (l’imbarcazione) non giustificabile con i redditi dichiarati; uno strumento, dunque, che si era inserito in un meccanismo illecito attivato anni addietro, con l’utilizzo dei profitti ex art. 2, d. Igs. n. 74 del 2000 e con l’appropriazione indebita, e con il quale mostrava una evidente continuità per la realizzazione dell’unico fine indicato. Dal che, dunque, la ragionevolezza temporale di cui si discute, evidenziata dalla ricostruzione “a ritroso” di un “meccanismo unitario” che – si ribadisce – aveva consentito di godere di un bene sproporzionato (per valore e costi di gestione) ai redditi dichiarati dal ricorrente.

Una motivazione non manifestamente illogica e tutt’altro che apparente, quindi, come tale immeritevole di annullamento, specie alla luce degli stretti termini ammessi dall’art. 325 cod. proc. pen. e sopra richiamati.

12. Le considerazioni che precedono, poi, permettono di rigettare anche il secondo punto del primo motivo di ricorso, con il quale si evidenzia che il reato- spia in oggetto (l’autoriciclaggio di cui all’art. 648-ter.1 cod. pen.) non era ancora previsto dall’ordinamento al tempo dell’acquisto del natante, essendo stato introdotto nel codice penale quasi dieci anni dopo, con la I. 15 dicembre 2014, n. 186, in vigore dal 1° gennaio 2015; ebbene, questa tesi non merita accoglimento.

13. La natura della confisca per sproporzione (e del sequestro alla stessa finalizzato), sopra evocata con le parole della Corte costituzionale, consente infatti di riconoscere l’istituto pur in assenza di qualunque legame tra il reato per il quale è pronunciata condanna ed il bene, del quale, pertanto, non rileva neppure il momento dell’acquisto (quale titolarità o disponibilità), sia pur nei limiti di quella ragionevolezza temporale già trattata. Negli stessi termini, allora, una volta individuato – con motivazione non censurabile – questo requisito cronologico, unitamente agli altri presupposti di cui all’art. 240-bis cod. pen., risulta irrilevante perfino la circostanza che il reato-spia non fosse ancora vigente all’instaurarsi della relazione tra il condannato ed il bene, poiché questa viene sanzionata – con l’ablazione – in ragione non del delitto adesso oggetto di condanna, ma di altri reati, precedentemente commessi e non accertati giudizialmente, dai quali si ritiene – con presunzione relativa – che derivino i beni di cui il soggetto dispone. La materia, dunque, si sottrae alla tematica della irretroattività della legge penale, richiamata nel ricorso, poiché non comporta l’applicazione oggi di una norma non vigente all’epoca del fatto (che, peraltro, qui non è il fatto-reato, ma l’acquisto della titolarità o disponibilità del bene), ma il riconoscimento – si ribadisce, con presunzione iuris tantum – di un nesso di derivazione tra il bene ed altri reati allora commessi, ovviamente nella piena vigenza delle disposizioni che ne sancivano l’illiceità penale. La prima parte dell’impugnazione, dunque, deve essere rigettata.

14. Manifestamente infondata, per contro, risulta poi la seconda parte, che si sviluppa su due motivi connessi, concernenti la riconosciuta sproporzione tra il valore del natante ed i redditi propri dell’indagato; in particolare, con la prima delle due censure si lamenta la carenza di motivazione su tale presupposto, mentre con l’altra si contesta nel merito la decisione assunta, rappresentandosi – con ampio richiamo documentale – la piena capacità patrimoniale del F. ad acquistare l’imbarcazione oggetto di sequestro. Una doppia doglianza, dunque, non consentita di fronte a questa Corte.

15. A giudizio del Collegio, peraltro, anche sul punto la motivazione stesa dal Tribunale non può definirsi assente o di mera apparenza, non meritando, pertanto, di essere annullata.

L’ordinanza impugnata, infatti, al riguardo ha sottolineato che:

a) dalle indagini svolte, risultava che i flussi finanziari che avevano consentito l’acquisto (con leasing) provenivano da Svizzera, Malta, Irlanda e Croazia, mentre i redditi leciti dell’indagato non risultavano esser mai stati trasferiti in questi Paesi;

b) dalle dichiarazioni della figlia, Manuela F., già sopra ricordate, emergeva chiara l’intenzione di entrambi di giustificare contabilmente, in modo artificioso, la disponibilità di un bene che il ricorrente non avrebbe potuto acquistare, in forza dei redditi dichiarati;

c) questi, in particolare, ammontavano mediamente a circa 600.000 euro annui, come tali assolutamente insufficienti a coprire non solo l’acquisto della barca (23 milioni di euro pagati tra il 2005 ed il 2018), ma anche il mantenimento dello stesso bene, nell’ordine di altre centinaia di migliaia di euro annui.

Ancora, il Tribunale ha richiamato gli accertamenti dell’Agenzia delle Entrate, fatti propri dal Pubblico ministero, dai quali emergeva che, anche a considerare le ulteriori allegazioni fornite dalla difesa e relative ai dividendi percepiti (sui quali il Collegio di merito, all’evidenza, non poteva svolgere verifiche analitiche), questi non avrebbero comunque consentito di giustificare l’acquisto ed il mantenimento dell’imbarcazione, sia pur immaginandone una improbabile destinazione esclusiva a questo scopo.

16. Una motivazione congrua e fondata su oggettivi elementi investigativi, quindi, che non è possibile porre in discussione in questa sede in forza delle valutazioni patrimoniali diffusamente espresse nel terzo motivo di ricorso, con ampio richiamo a cifre e loro causali, proprie della fase di cognizione ma non valutabili da parte della Corte di legittimità.

17. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2021

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