CASSAZIONE

Aprire un mutuo con un istituto di credito non dà prova di maggiore capacità contributiva

Tributi – Accertamento sintetico – Redditometro – Acquisto di immobile finanziato in parte tramite mutuo – Detrazione del capitale mutuato dalla spesa accertata – Art. 38 D.P.R, 600/73 – Diluizione della capacità contributiva – Rilevanza nelle singole annualità dei ratei di mutuo versati

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26668 del 24 novembre 2020, ha avuto modo di riaffermare, in relazione all’incidenza del contratto di mutuo nella rettifica sintetica del reddito delle persone fisiche, quanto già asserito dalla stessa Corte con le pronunzie nn. 19192/2019, 19371/2018, 4797/2017 e n. 24597/2010, ricordando infine che il mutuo stipulato per l’acquisto di un immobile non esclude, ma diluisce la capacità contributiva. In tal caso però, pur dovendosi detrarre dalle spese accertate l’importo ricevuto a titolo di capitale mutuato, devono comunque essere considerati e sommati, per ogni annualità, gli importi pari ai ratei di mutuo pagati.

Alla luce di quanto esposto e della giurisprudenza pregressa, la Suprema Corte ha accolto il ricorso del contribuente, cassando la sentenza d’appello con rinvio al giudice di seconde cure in differente composizione per una decisione conforme al principio di diritto sopra riportato.

In buona sostanza la Suprema Corte ha rilevato che in tema di redditometro la prova contraria a carico del contribuente richiesta dalla norma (art. 38, c. 6, DPR 600/1973), può essere assolta mediante la produzione del contratto di mutuo, idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale delle somme utilizzate per l’acquisto del bene. Come noto, l’art. 38 del DPR 600/1973, prevede la possibilità di presumere il reddito complessivo netto sulla base della valenza induttiva di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento.

Diventa quindi rilevante comprendere, ai fini della corretta applicazione del metodo, quale siano i presupposti che ne consentono l’utilizzo e, conseguentemente, come vada ripartito l’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente. La prima questione, quindi, si pone in riferimento al concetto di incremento patrimoniale e della connessa capacità contributiva di cui al ricordato art. 38. Vale considerare, in proposito, che sotto il profilo fiscale il concetto di patrimonio è considerato nella sua accezione economica in quanto costituito dal valore di tutti i beni che il contribuente possiede in un certo momento; conseguentemente, gli incrementi patrimoniali sono riferibili all’accrescimento del valore di tali beni.

Diversa questione deve essere posta in riferimento al concetto di capacità contributiva enucleabile dall’atto di acquisto e dalla sua effettività. Occorre infatti distinguere il valore economico dell’operazione – di per sé indicativo di capacità economica e quindi contributiva – dalle concrete modalità di pagamento del prezzo e, in particolare, della riferibilità di tale pagamento all’anno oggetto di accertamento, anche ai fini della corretta applicazione del metodo sintetico sopra rammentata.

Sul punto, la giurisprudenza della Suprema Corte appare da tempo concorde nel ritenere che, ai fini dell’applicazione dell’art. 32, DPR 600/1973, per quanto riguarda gli incrementi patrimoniali costituiti dall’acquisto di immobili debba essere data decisiva rilevanza all’effettivo esborso di denaro al momento della stipula della compravendita, fatto, questo, che costruirebbe un preciso indice di forza economica e di effettiva capacità contributiva.

Infatti, secondo il principio giurisprudenziale sopra riferito e che deve ritenersi consolidato, “Nella ipotesi delle spese per incrementi patrimoniali,  l’accertamento deve basarsi, quindi, sulla diretta dimostrazione (risultante, solitamente, da un atto formale) della effettiva erogazione della spesa – costituente il fatto noto, manifestazione di ricchezza – da parte del contribuente in un determinato momento o arco di tempo (uno o più anni d’imposta); e salva restando, ai sensi dell’art. 38 cit., comma 6, la prova contraria, consistente nella dimostrazione documentale della sussistenza e del possesso, da parte del contribuente, di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (con riferimento alla complessiva posizione reddituale dell’intero suo nucleo familiare, costituito dai coniugi conviventi e dai figli, soprattutto minori: Cass. n. 5365 del 2014), o, più in generale, nella prova che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass. nn. 20588 del 2005, 9539 del 2013); o, ancora, che il pagamento del prezzo non è avvenuto e, quindi, l’acquisto effettuato non denota una reale disponibilità economica, poiché il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita, anziché quella onerosa apparente (Cass. n. 8665 del 2002; n. 5991 del 2006)”.

Al contempo, debbono essere valutate come non significative sotto il profilo della capacità di spesa tutte le forme di pagamento dilazionato, in quanto inidonee a dare luogo alla presunzione di guadagno nel periodo oggetto di accertamento, essendo al contrario presumibile che il contribuente intenda onorare tale pagamento con i redditi conseguiti nei periodi d’imposta successivi a quello oggetto di accertamento. In precedenti sentenze rese sul tema (cfr. Cass. n. 25473/2015) la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che, al di là dell’incremento patrimoniale che può derivare da una determinata operazione o dall’indice di spesa da essa ricavabile, occorre indagare sulle concrete modalità di corresponsione delle somme.

La pronuncia della Cassazione n. 90405/2020, tuttavia, ha espresso il fondamentale principio secondo il quale “il riferimento all’aumento di capitale non può bastare ad assolvere all’onere probatorio gravante sull’Amministrazione, potendo il detto aumento, in astratto, essere effettuato con modalità che non comportano un effettivo esborso di somme”,il che ci porta inevitabilmente a dover considerare il connesso – e rilevante – problema della ripartizione dell’onere probatorio in relazione alla natura delle operazioni compiute e, si ripete, sulla legittima (o illegittima) utilizzazione dell’art. 38, DPR 600/1973.  

Occorre però segnalare che, sul tema della ripartizione di tale onere, si ravvisa un cambio di rotta dalla parte della giurisprudenza di legittimità, a cui la sentenza citata sembra aderire. Si segnala infatti che risultano numerose le pronunce secondo le quali il contribuente resta onerato della dimostrazione relativa alla misura del reddito effettivamente conseguito nell’anno d’imposta oggetto di accertamento, in presenza di indici di capacità contributiva, che pervengono alle medesime conclusioni: “…in tema di accertamento delle imposte sui redditi delle persone fisiche, l’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 prevede che gli uffici finanziari possano determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. “redditometro”, e tale metodo di accertamento dispensa l’Amministrazione finanziaria da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su di essi e resta a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass. n. 16912 del 10/8/2016; Cass. n. 17793 del 19/7/2017; Cass. n. 27811 del 31/10/2018, Cass. n. 17534 del 28/06/2019)”.

Ciò equivale a dire che l’art. 38, DPR 600/1973 può essere utilmente applicato in tutti i casi sopra previsti, fatta salva la prova contraria da parte del contribuente in relazione alla propria effettiva capacità di spesa, rispetto alla quale deve procedersi, da parte dell’ufficio o, in seconda istanza, da parte del giudice, a uno scrupoloso esame come, ad esempio, in tema di acquisto di bene immobile tramite erogazione di un mutuo ipotecario; la S.C. ha statuito che non sia possibile ritenere come  esclusa in radice la capacità contributiva del soggetto contraente, quanto la sua diluizione nel tempo con evidenti ripercussioni sulla imputabilità di tali redditi a diversi anni di imposta. 

Tanto premesso e tornando al caso de quo, a un contribuente veniva notificato un avviso di accertamento ai fini IRPEF con il quale veniva sinteticamente rideterminato (redditometro) il suo reddito in conseguenza della spesa per l’acquisto di un immobile, il cui valore risultava incompatibile con i redditi dichiarati per l’anno della compravendita e per quelli ad esso attigui.

L’atto dell’Agenzia veniva impugnato presso le locali Commissioni Tributarie, che ritenevano le prove prodotte dal contribuente non sufficienti a vincere la valenza presuntiva e ne respingevano l’appello. Da qui il ricorso in Cassazione, affidato a tre motivi, in cui essenzialmente veniva eccepita l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata su un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento a diversi fatti oggetto della controversia, tutti relativi alla prova liberatoria finalizzata a vincere la valenza presuntiva, in termini di accertamento sintetico dell’imponibile, derivante dall’incremento patrimoniale rappresentato dall’acquisto immobiliare. La Corte di Cassazione ha riformato la decisione, ritenendo sussistente un vizio di insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, riguardante l’incidenza del mutuo ai fini della determinazione della capacità contributiva, ritenendo che “ … Innanzitutto, il ricorrente lamenta che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe escluso la rilevanza istruttoria della documentazione contabile (fatture dell’impresa venditrice), depositata dallo stesso contribuente e finalizzata a provare che i genitori di quest’ultimo avrebbero pagato parte (euro 82.000,00) del prezzo dell’immobile acquistato, sul fallace presupposto che i relativi documenti facessero riferimento ad un appartamento situato al primo piano dello stesso stabile, e quindi diverso da quello comprato dal ricorrente, posto al secondo piano.  Infatti, secondo il ricorrente, la CTR sarebbe caduta in errore nell’esaminare le relative fatture e nel confrontarle con il rogito della compravendita, poiché non si sarebbe avveduta che tutti tali documenti si riferiscono materialmente allo stesso appartamento e che la diversa identificazione del piano – che è di fatto il secondo – deriverebbe solo dalle modalità descrittive utilizzate dalla ditta alienante, che nelle fatture lo ha definito «primo piano sul piano uffici», laddove l’atto pubblico di acquisto lo individua invece come «secondo piano».  Va premesso che tale censura attinge solo una delle concorrenti ed autonome rationes decidendi esposte nella motivazione della sentenza impugnata (che esclude la rilevanza della documentazione contabile anche per il suo contenuto e che comunque ritiene incongruo, ai fini dell’art. 38, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 973, anche l’importo residuo che il ricorrente avrebbe pagato in parte direttamente ed in parte tramite mutuo). Tanto premesso, in parte qua il motivo è inammissibile, poiché non si sottrae alla seguente alternativa logica.  Infatti, se esso si fonda sull’assunta errata percezione dei dati documentali (fatture e rogito), prodotti nei giudizi di merito e richiamati nel ricorso dal contribuente, dai quali risulterebbe ictu oculi, a prescindere dalla diversa modalità di indicazione del piano, l’identità dell’appartamento cui essi si riferiscono, allora il mezzo d’impugnazione che il ricorrente avrebbe dovuto esperire era necessariamente la revocazione ex art. 395, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.  Altrimenti, se la comprensione dell’identità fattuale dello stesso immobile necessita di ulteriori riscontri documentali ( ovvero, come dedotto a pag. 16 del ricorso, delle risultanze catastali, dalle quali emergerebbe che il contribuente è intestatario di un unico appartamento), allora il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366, primo comma, num. 6, cod. proc. civ., che prescrive la specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726). Infatti, nel corpo del motivo, il ricorrente non indica se, ed in che grado e fase del merito, ha prodotto visure catastali, limitandosi a dedurre che esse sarebbero state «certamente in possesso dell’amministrazione finanziaria». Con ulteriore censura, il ricorrente assume che la CTR sarebbe incorsa in «una certa confusione» rispetto alla somma di euro 60.756,33, che in realtà costituisce la parte del prezzo d’acquisto pagata direttamente dal contribuente, al netto del mutuo e della somma che sarebbe stata invece pagata dai genitori del medesimo ricorrente. Il motivo in parte qua è inammissibile, atteso che è generico (non essendo specificato in cosa consisterebbe la lamentata «confusione»), e comunque infondato, posto che la motivazione della sentenza impugnata espone il medesimo importo residuale indicato dal ricorrente, attribuendogli la stessa causale. Quanto poi all’asserita circostanza che tale ultimo importo, autonomamente considerato, diviso per rate costanti per gli anni d’imposta valutati dall’ufficio ai sensi dell’art. 38, d.P.R. n. 600 del 1973, non integri lo scostamento del 25% rilevante ai fini dell’accertamento praticato, deve rilevarsi che si tratta di questione assorbita sia dalla già rilevata inammissibilità della censura relativa alla parte del prezzo che si assume pagata dai genitori del contribuente; sia da quanto infra si dirà in ordine alla rilevanza, nei limiti che saranno chiariti, della parte del corrispettivo che si assume invece finanziata con mutuo pluriennale erogato al ricorrente. Infatti, in conseguenza di tali decisioni, la critica della congruità del solo importo che il ricorrente assume di aver personalmente e direttamente sborsato non è rilevante, perché non assorbe interamente il quantum valutabile ai fini dell’accertamento praticato. E’ invece fondata la censura relativa al mutuo che il contribuente si è accollato al momento dell’acquisto del bene in questione, ed alla sua rinegoziazione, circostanze fattuali che, come dedotto nel ricorso (pagg. 18 e 19 ed allegati 8 e 9), il ricorrente aveva allegato già nel giudizio di merito e sulle quali la valutazione della CTR, limitata alla presa d’atto dell’importo della rata costante di restituzione del mutuo (peraltro senza precisare se si trattasse della somma precedente o successiva alla rinegoziazione), appare insufficiente. Infatti, come questa Corte ha già rilevato (Cass. 17/07/2019, n. 19192, in motivazione, e precedenti ivi citati), «in tema di accertamento cd. sintetico, la prova contraria a carico del contribuente richiesta dall’art. 38, sesto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, può essere assolta mediante la produzione del contratto di mutuo, idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale delle somme utilizzate per l’acquisto del bene (Cass. 03/12/2018, n. 31124).Va, però, precisato che qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, ed il contribuente deduca e dimostri che tale spesa sia giustificata dall’accensione di un mutuo ultrannuale, il mutuo medesimo non esclude ma diluisce la capacità contributiva; ne consegue che deve essere detratto dalla spesa accertata (ed imputata a reddito) il capitale mutuato, ma ad essa vanno, invece, aggiunti, per ogni annualità, i ratei di mutuo maturati e versati (Cass. n. 19371/2018; Cass.n. 4797/2017; Cass. n. 24597/2010).». Pertanto, la sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvo alla CTR, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio di diritto: “In tema di accertamento sintetico, il mutuo stipulato per l’acquisto di un immobile non esclude, ma diluisce la capacità contributiva, sicché deve essere detratto dalla spesa accertate il capitale mutuato, dovendo invece sommarsi, per ogni annualità, i ratei di mutuo maturato e versati”, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità ”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 24 novembre 2020, n. 26668

sul ricorso iscritto al n.3961/2013 R.G. proposto da:

O. C. A., difeso e rappresentato, come da procura speciale in atti, dall’Avv. Giorgio Fasano, con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. Rosario Villari in Roma, via Emanuele Filiberto 100.

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, n. 43/08/2012, emessa il 27 febbraio 2012, depositata il 6 giugno 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 settembre 2020 dal Consigliere Michele Cataldi;

Rilevato che

1. L’ Agenzia delle Entrate ha notificato a C.A.O. un avviso di accertamento con il quale, relativamente all’anno d’imposta 2004, in materia di Irpef, ha accertato, ex art. 38, quarto, quinto e sesto comma, d.P.R. d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il reddito sintetico del contribuente, in conseguenza della spesa per l’acquisto di un fabbricato del valore dichiarato di euro 382.765,33, costituente un incremento patrimoniale non compatibile con i redditi dichiarati relativamente agli anni d’imposta dal 2003 al 2006.

Pertanto, con lo stesso atto impositivo, l’Amministrazione ha recuperato a tassazione il maggior imponibile, con relativi accessori e sanzioni.

2. Il contribuente ha proposto ricorso avverso l’avviso d’accertamento e l’adita Commissione tributaria provinciale di Bari lo ha respinto.

3. Contro la sentenza di primo grado lo stesso contribuente ha proposto appello, che la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 43/08/2012, emessa il 27 febbraio 2012, ha rigettato.

4. Il contribuente ha allora proposto ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello, affidandolo a tre motivi.

5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., il ricorrente lamenta la violazione e l’errata applicazione dell’art. 38, comma quarto e ss., d.P.R. n. 600 del 1973, per preteso contrasto con la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., a causa del rinvio della predetta norma di legge allo strumento normativo del decreto del Ministro per le finanze, per stabilire indici e coefficienti presuntivi di reddito o di maggiore reddito, in relazione agli elementi indicativi di capacità contributiva.

Il motivo, che si sostanzia nella denuncia dell’asserita illegittimità costituzionale dell’art. 38, quarto comma e ss., d.P.R. n. 600 del 1973, è infondato, atteso che questa Corte ha già chiarito che « E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, commi 4 e ss., del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., nella I. n. 122 del 2010, nella parte in cui consente l’accertamento con metodo sintetico mediante il cd. redditometro, con riferimento sia all’art. 23 Cost., poiché i relativi decreti ministeriali non contengono norme per la determinazione del reddito, assolvendo soltanto ad una funzione accertativa e probatoria, sia agli artt. 24 e 53 Cost., in quanto il contribuente può dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito accertato è insussistente ovvero costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta.».

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., il ricorrente lamenta la violazione e l’errata applicazione dell’art. 38, comma quarto e ss., d.P.R. n. 600 del 1973, per preteso contrasto di tale norma con la legge 27 luglio 2000, n. 212 , recante disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente, ed in particolare con i principi d’informazione, di conoscenza e del contraddittorio preventivo, disciplinati dallo stesso statuto.

Il motivo, che si sostanzia nell’ulteriore denuncia dell’asserita illegittimità dell’art. 38, quarto comma e ss., d.P.R. n. 600 del 1973, per l’assunto contrasto con la legge ordinaria n. 212 del 2000, è infondato, atteso che questa Corte ha già chiarito che le disposizioni del suddetto statuto costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede di applicazione e interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, ma non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria (essendone, invero, ammessa la modifica o la deroga, purché espressa e non a opera di leggi speciali), con la conseguenza che una previsione legislativa che si ponga in contrasto con esse non è suscettibile di disapplicazione, né può essere per ciò solo oggetto di questione di legittimità costituzionale, non potendo le disposizioni dello Statuto fungere direttamente da norme parametro di costituzionalità (Cass. 20/02/2020, n. 4411).

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 5, cod. proc. civ., vigente ratione temporis, il ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La censura è articolata con riferimento a diversi fatti oggetto della controversia, tutti relativi alla prova liberatoria che il contribuente assume di aver offerto al fine di vincere la valenza presuntiva, in termini di accertamento sintetico dell’imponibile in questione, derivante dall’incremento patrimoniale rappresentato dall’acquisto immobiliare de quo. Innanzitutto, il ricorrente lamenta che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe escluso la rilevanza istruttoria della documentazione contabile (fatture dell’impresa venditrice), depositata dallo stesso contribuente e finalizzata a provare che i genitori di quest’ultimo avrebbero pagato parte (euro 82.000,00) del prezzo dell’immobile acquistato, sul fallace presupposto che i relativi documenti facessero riferimento ad un appartamento situato al primo piano dello stesso stabile, e quindi diverso da quello comprato dal ricorrente, posto al secondo piano.

Infatti, secondo il ricorrente, la CTR sarebbe caduta in errore nell’esaminare le relative fatture e nel confrontarle con il rogito della compravendita, poiché non si sarebbe avveduta che tutti tali documenti si riferiscono materialmente allo stesso appartamento e che la diversa identificazione del piano – che è di fatto il secondo – deriverebbe solo dalle modalità descrittive utilizzate dalla ditta alienante, che nelle fatture lo ha definito «primo piano sul piano uffici», laddove l’atto pubblico di acquisto lo individua invece come «secondo piano». Va premesso che tale censura attinge solo una delle concorrenti ed autonome rationes decidendi esposte nella motivazione della sentenza impugnata (che esclude la rilevanza della documentazione contabile anche per il suo contenuto e che comunque ritiene incongruo, ai fini dell’art. 38, quarto comma, d.P.R. n. 600 del 973, anche l’importo residuo che il ricorrente avrebbe pagato in parte direttamente ed in parte tramite mutuo).

Tanto premesso, in parte qua il motivo è inammissibile, poiché non si sottrae alla seguente alternativa logica.

Infatti, se esso si fonda sull’assunta errata percezione dei dati documentali (fatture e rogito), prodotti nei giudizi di merito e richiamati nel ricorso dal contribuente, dai quali risulterebbe ictu oculi, a prescindere dalla diversa modalità di indicazione del piano, l’identità dell’appartamento cui essi si riferiscono, allora il mezzo d’impugnazione che il ricorrente avrebbe dovuto esperire era necessariamente la revocazione ex art. 395, primo comma, num. 4, cod. proc. civ.

Altrimenti, se la comprensione dell’identità fattuale dello stesso immobile necessita di ulteriori riscontri documentali (ovvero, come dedotto a pag. 16 del ricorso, delle risultanze catastali, dalle quali emergerebbe che il contribuente è intestatario di un unico appartamento), allora il motivo è inammissibile per violazione dell’art. 366, primo comma, num. 6, cod. proc. civ., che prescrive la specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali esso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito. (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726).

Infatti, nel corpo del motivo, il ricorrente non indica se, ed in che grado e fase del merito, ha prodotto visure catastali, limitandosi a dedurre che esse sarebbero state «certamente in possesso dell’amministrazione finanziaria».

Con ulteriore censura, il ricorrente assume che la CTR sarebbe incorsa in «una certa confusione» rispetto alla somma di euro 60.756,33, che in realtà costituisce la parte del prezzo d’acquisto pagata direttamente dal contribuente, al netto del mutuo e della somma che sarebbe stata invece pagata dai genitori del medesimo ricorrente.

Il motivo in parte qua è inammissibile, atteso che è generico (non essendo specificato in cosa consisterebbe la lamentata «confusione»), e comunque infondato, posto che la motivazione della sentenza impugnata espone il medesimo importo residuale indicato dal ricorrente, attribuendogli la stessa causale.

Quanto poi all’asserita circostanza che tale ultimo importo, autonomamente considerato, diviso per rate costanti per gli anni d’imposta valutati dall’ufficio ai sensi dell’art. 38, d.P.R. n. 600 del 1973, non integri lo scostamento del 25% rilevante ai fini dell’accertamento praticato, deve rilevarsi che si tratta di questione assorbita sia dalla già rilevata inammissibilità della censura relativa alla parte del prezzo che si assume pagata dai genitori del contribuente; sia da quanto infra si dirà in ordine alla rilevanza, nei limiti che saranno chiariti, della parte del corrispettivo che si assume invece finanziata con mutuo pluriennale erogato al ricorrente.

Infatti, in conseguenza di tali decisioni, la critica della congruità del solo importo che il ricorrente assume di aver personalmente e direttamente sborsato non è rilevante, perché non assorbe interamente il quantum valutabile ai fini dell’accertamento praticato.

E’ invece fondata la censura relativa al mutuo che il contribuente si è accollato al momento dell’acquisto del bene in questione, ed alla sua rinegoziazione, circostanze fattuali che, come dedotto nel ricorso (pagg. 18 e 19 ed allegati 8 e 9), il ricorrente aveva allegato già nel giudizio di merito e sulle quali la valutazione della CTR, limitata alla presa d’atto dell’importo della rata costante di restituzione del mutuo (peraltro senza precisare se si trattasse della somma precedente o successiva alla rinegoziazione), appare insufficiente.

Infatti, come questa Corte ha già rilevato (Cass. 17/07/2019, n. 19192, in motivazione, e precedenti ivi citati), «in tema di accertamento cd. sintetico, la prova contraria a carico del contribuente richiesta dall’art. 38, sesto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, può essere assolta mediante la produzione del contratto di mutuo, idoneo a dimostrare la provenienza non reddituale delle somme utilizzate per l’acquisto del bene (Cass. 03/12/2018, n. 31124). Va, però, precisato che qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, ed il contribuente deduca e dimostri che tale spesa sia giustificata dall’accensione di un mutuo ultrannuale, il mutuo medesimo non esclude ma diluisce la capacità contributiva; ne consegue che deve essere detratto dalla spesa accertata (ed imputata a reddito) il capitale mutuato, ma ad essa vanno, invece, aggiunti, per ogni annualità, i ratei di mutuo maturati e versati (Cass. n. 19371/2018; Cass.n. 4797/2017; Cass. n. 24597/2010).».

Pertanto, la sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvo alla CTR, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio dí diritto: “In tema di accertamento sintetico, il mutuo stipulato per l’acquisto di un immobile non esclude, ma diluisce la capacità contributiva, sicché deve essere detratto dalla spesa accertate il capitale mutuato, dovendo invece sommarsi, per ogni annualità, i ratei di mutuo maturato e versati”, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso ed accoglie, nei termini di cui in motivazione, il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 23 settembre 2020.

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