CASSAZIONE

Applicazione della presunzione di distribuzione degli utili ai soci

Tributi – Accertamento – Verifica conti correnti – Soggetto interposto – Amministratore di fatto di società – Ristretta base sociale – Attribuzione derivata di maggior reddito – Definitività dell’accertamento societario per mancata impugnazione – Impugnabilità dell’accertamento personale – Limiti

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 8645 del 16 marzo 2022 è tornata a pronunciarsi in merito alla presunzione della distribuzione degli utili extracontabili nel caso di società di capitali a ristretta base sociale, affermando la legittimità della presunzione della determinazione del maggior reddito effettuata attraverso i prelevamenti riscontrati sui conti correnti, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati distribuiti, ma accantonati dalla società.

Viene definita società a ristretta base azionaria la società di capitali composta da un numero limitato di soci, legati spesso da vincoli di parentela e/o affinità. Negli anni, la progressiva generalizzazione e diffusione di tale schema societario ha visto gli uffici finanziari approdare a una sorta di “equiparazione” tra le società di persone e le società di capitali a ristretta base partecipativa ritenendo, anche per queste ultime, legittimo assoggettare a tassazione i maggiori utili extra-bilancio non dichiarati e accertati nei confronti della società direttamente in capo ai soci, presumendo che tali utili occulti fossero loro distribuiti.

Del resto, in base al disposto dell’art. 2433, comma 1, c.c., nelle società di capitali la percezione degli utili da parte del singolo socio è invece subordinata a un’apposita delibera assembleare adottata a maggioranza: nessuna presunzione di distribuzione, né assoluta, né relativa, è prevista dunque per le società di capitali. Nonostante ciò, i giudici della Suprema Corte hanno, con una certa costanza, voluto affermare che l’accertamento di utili extracontabili in capo alla società di capitali a ristretta base azionaria consente di inferire la loro distribuzione tra i soci in proporzione alle loro quote di partecipazione fatta salva in ogni caso, come detto, la facoltà per gli stessi di fornire la prova contraria, che tradizionalmente consiste nella possibilità di dimostrare che i maggiori ricavi non siano tali fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati, invece, accantonati dalla società (cfr. ex multis, Cass. nn. 26248/2010, 8473/2014, 32959/2018, 27778/2017, 27049/2019, 9442/2021). Negli anni, però, si è sviluppato un ulteriore orientamento giurisprudenziale secondo cui essa può anche consistere nella dimostrazione del socio di essere stato in realtà estraneo alla gestione e conduzione societaria (v. Cass. nn. 18042/2018, 23247/2018, 34282/2019, 15895/2020).

In sostanza, se viene dimostrato che la società non ha dichiarato ricavi, il fatto che la cerchia sociale sia estremamente ristretta (pochi soci, in molti casi familiari o affini) fa presumere che il maggior reddito sia stato anche “distribuito” tra le persone fisiche. Nonostante i molteplici dubbi evidenziati negli anni dalla dottrina in ordine alla legittimità di tale presunzione, la giurisprudenza di legittimità (ex multis v. Cass., n. 8903/2021) è ormai consolidata nel ritenere del tutto lecita l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili ai soci, pur in assenza di un’espressa previsione normativa al riguardo, quale quella contenuta nell’art. 5 comma 1, DPR 22 dicembre 1986, n. 917 per le società di persone, che non può ritenersi “illogica […j stante la «complicità» che normalmente avvince un gruppo così composto e l’appartenenza del patrimonio sociale e degli stessi utili, come per tutte le società, proporzionalmente ai soci”.

Una vera e propria “presunzione giurisprudenziale” che, con il trascorrere degli anni, ne ha ampliato notevolmente lo spettro applicativo allentando progressivamente il rigore delle rigide condizioni previste dalla prima giurisprudenza di legittimità. Del resto, nel nostro codice civile non vi è neppure una norma per le società di capitali di tenore analogo all’art. 2262 1.c., il quale, relativamente alle società di persone, stabilisce che salvo patto contrario, ciascun socio ha diritto di percepire la sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto.

In precedenza anche con la pronunzia m. 32959/2018 gli Ermellini ricordavano che sul tema “… la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la presunzione di distribuzione degli utili ai soci di società a ristretta base sociale opera non solo quando sia accertata tale ristretta base sociale, ma anche quando sia validamente accertata, a carico della società, la sussistenza di ricavi non contabilizzati, che costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai relativi dividendi (Cass. n. 7174/2002; n. 4695/2002; n. 3254/2000; n. 2390/2000; n. 14006/2003; n. 9519/2009); il motivo d’impugnazione non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata che, diversamente da quanto prospetta l’Agenzia, senza per nulla incorrere nell’errore di sovvertire le regole sulla ripartizione dell’onere della prova, conformandosi ai suaccennati principi di diritto, si è limitata a affermare, con estrema chiarezza, che, in difetto dell’accertamento di utili extracontabili realizzati dalla società, a ristretta base partecipativa, non è consentito presumere la distribuzione ai soci dei medesimi (eventuali, ma indimostrati) ricavi occulti”.

La ratio di tale asserzione, in definitiva, si fonda sulla circostanza che nella generalità dei casi tali società di capitali sono composte da soci legati da rapporti di parentela, venedosi in tal modo a generare un notevole grado di compartecipazione degli stessi alla gestione della società e al reciproco controllo tra i soci medesimi. Oggi, tuttavia, si ritiene che la “complicità” sia esistente anche in presenza di un numero limitato di persone nella compagine sociale, anche se estranei fra loro, in considerazione proprio del fatto che la ridotta compagine sociale rappresenta a tutti gli effetti il cardine su cui ruota il presupposto dell’Amministrazione finanziaria per presumere la distribuzione di utili in capo ai soci e di recuperare le imposte da questi non versate.  Ne consegue che viene delegato al contribuente il compito di produrre una prova complessa tesa a dimostrare, al contrario, di non aver percepito alcun utile “in nero”.

Negli anni, però, si è sviluppato un ulteriore orientamento giurisprudenziale secondo cui una prova può anche consistere nella dimostrazione del socio di essere stato in realtà estraneo alla gestione e conduzione societaria (v. Cass. nn. 18042/2018, 23247/2018, 34282/2019, 15895/2020).

In alcune recenti pronunce la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato che ai fini dell’applicazione della presunzione giurisprudenziale in esame non sia sufficiente la prova della ristretta base azionaria, dovendo altresì essere validamente accertata, a carico della società, la sussistenza di ricavi non contabilizzati, circostanza necessaria per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai relativi dividendi: in altre parole, affinché la presunzione in esame possa aver spazio sarebbe indispensabile che il reddito nei confronti della società sia accertato in maniera definitiva (Cass., 8 luglio 2021, n. 19442; Cass., 10 gennaio 2013, n. 441; Cass., 31 gennaio 2011, n. 2214).

Per altro verso, poi, la giurisprudenza di legittimità è ferma nel sostenere che la presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati non violi il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non sarebbe costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che in tale caso normalmente caratterizza la gestione sociale (Cass. 22 aprile 2009, n. 951; Cass. 15 settembre 2021, n. 24870; Cass. 23 luglio 2021, n. 21160).

In tale vasto, ma complessivamente uniforme scenario, l’ordinanza n. 8645/2022 in esame assume particolare interesse, perché conferma l’estensione della legittimità della citata presunzione anche se effettuata attraverso i prelevamenti riscontrati sui conti correnti.

Tornando quindi alla vicenda de quo, essa nasce con un accertamento scaturito dalle risultanze di un PVC redatto dalla Guardia di Finanza che determinava, nei confronti di una società contribuente impegnata in attività di commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi, un reddito d’impresa di euro 3.725.854 a fronte di quello dichiarato pari a euro 287.802. L’ufficio delle Entrate accertava che la società, mediante artifici e raggiri e utilizzando sistemi di erogazione alterati, effettuava consegne di prodotti petroliferi in quantità inferiori rispetto a quelle dovute. Il prodotto illecitamente sottratto, poi, veniva commercializzato in nero a clienti compiacenti con la realizzazione di proventi non assoggettati a imposizione fiscale. Per i soci, l’imputazione del maggior reddito ascritto alla società veniva operata sottraendo al maggiore imponibile le movimentazioni tracciate sui conti correnti dei soggetti non soci e attribuendo ai soci stessi il maggior reddito in proporzione alle partecipazioni al capitale sociale.

La parte contribuente si rivolgeva alla giustizia tributaria ottenendo giudizio sfavorevole in primo grado e un parziale riconoscimento in secondo grado. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, lamentando essenzialmente che la CTR avrebbe violato la regola dell’inversione dell’onere della prova posta dall’art. 32 del DPR 600/1973, e che sarebbe spettato al contribuente dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non fossero riferibili a operazioni imponibili, essendo l’onere della prova a carico dell’Amministrazione soddisfatto con l’allegazione e la documentazione dei dati e degli elementi emergenti dai conti correnti. L’amministratore di fatto presentava controricorso affidato a due motivi.

La Suprema Corte, riconoscendo la validità delle ragioni espresse dalla parte pubblica, ha affermato che “… Con l’avviso di accertamento notificato a P.F. in qualità di amministratore di fatto della società, in sostanza, l’Agenzia delle Entrate lo ha ritenuto un soggetto interposto dalla società nella percezione dei maggiori redditi derivanti dall’attività sociale, con la conseguenza che incombe su di lui l’onere di provare di non essere stato interposto e che i versamenti e i prelevamenti riscontrati sui conti correnti a lui riconducibili non derivavano dall’esercizio dell’attività economica svolta dall’ente societario; allo stesso modo di come sui soci della P.P. 88 s.r.l., società familiare a ristretta base di capitale, incombe l’onere di provare che i maggiori utili accertati non sono stati distribuiti ma sono stati accantonati o reinvestiti (giurisprudenza consolidata: cfr. ex multis Cass., sez. 5, n. 32959/2018; Cass., sez. 6-5, n. 18042/2018; Cass., sez. 5, n. 27778/2017; Cass., sez. 5, n. 24534/2017). Nella fattispecie che ci occupa, non avendo la società tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento ad essa notificato, quest’ultimo è diventato definitivo, sicché il P. non poteva mettere in discussione i presupposti dell’accertamento del maggior reddito sociale, né la misura di tale maggior reddito, potendo solo contestare la sua qualità di interposto rispetto alla percezione dei maggiori redditi sociali e provare la non riconducibilità dei versamenti e dei prelevamenti operati suoi conti correnti a redditi e ad attività in nero. Né è rilevante, nella fattispecie di causa, la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 che ha escluso l’operatività, per i liberi professionisti, della presunzione legata alla inerenza dei prelevamenti ad un’attività produttiva di reddito, in quanto è dalla stessa qualità di interposto della società, attribuita al P.F., che deriva la riconducibilità dei prelevamenti e dei versamenti riscontrati sui suoi conti correnti all’attività economica esercitata dall’ente societario. Con il quarto motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir e dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, l’Agenzia delle Entrate ha dedotto che la CTR, affermando la non recuperabilità dei costi indebitamente dedotti dalla base imponibile (e dell’IVA indebitamente detratta) ad opera della società nella determinazione del maggior reddito a quest’ultima imputato, ha, in primo luogo, illegittimamente rimesso in discussione l’accertamento notificato alla società nonostante che quest’ultima non l’avesse tempestivamente impugnato; in secondo luogo, ha male interpretato l’art. 8 del d.lgs. n. 16 del 2012, convertito in legge n. 44 del 2012, che ha modificato l’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537 del 1993, e che non consentirebbe la deducibilità di costi per operazioni oggettivamente inesistenti, a prescindere da eventuali connessioni con fattispecie di reato. Sotto il primo profilo di censura, il motivo è fondato. Si è detto, infatti, nell’esame del primo, del secondo e del terzo motivo, che la CTR non poteva rimettere in discussione il disconoscimento dei costi operato dall’Ufficio ai fini della rideterminazione del reddito imponibile della società e della imputazione dei maggiori utili extracontabili al P.F., in assenza di una tempestiva impugnazione dell’avviso di accertamento da parte della società. Il secondo profilo di censura di cui si compone il motivo di ricorso è, invece, inammissibile. Nel corpo del ricorso, l’Agenzia delle Entrate ha spiegato che per i non soci (tra i quali rientra, nella presente controversia, P.F.) la determinazione del maggior reddito imponibile è stata operata sommando per ciascuno di essi le movimentazioni in entrata (versamenti) e in uscita (prelevamenti) dai rispettivi conti correnti, sicché in questa sede l’Agenzia ricorrente non ha interesse a censurare l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della deducibilità dei costi e della detraibilità dell’iva per operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto quand’anche se ne affermasse la contrarietà al diritto, non cambierebbe la quantificazione del maggior reddito imputato al P.F. quale amministratore di fatto, quantificazione che, si ripete, è avvenuta sommando i prelevamenti e i versamenti ingiustificati risultanti dai conti correnti a lui intestati. Con il primo motivo del ricorso incidentale, rubricato “Nullità della sentenza ex artt. 36, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per contraddittorietà ed indecifrabilità assoluta della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.”, P.F. deduce il vizio assoluto di motivazione dal quale sarebbe affetta la sentenza impugnata, derivante dal fatto che nel corso della parte motiva il provvedimento parla del contribuente come di socio della società, anziché di terzo estraneo alla compagine sociale. Il motivo è infondato. Pur nell’ambiguità di alcuni punti della sentenza, che effettivamente parlano di “socio” anziché di terzo o interposto, la ratio decidendi su cui si basa la sentenza impugnata è chiara: essa accoglie l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate di attribuire al contribuente, non socio, il maggior reddito prodotto dalla società applicando quale criterio di determinazione la somma dei movimenti in entrata e in uscita dai suoi conti correnti (salvo, poi, come si è visto nell’esame del ricorso principale, erroneamente scomputare delle somme all’esito della disposta CTU). Peraltro, giova ricordare che l’obbligo di motivazione è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e si concreta, per tal via, una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (Cass., sez. 6-3, n. 22598/2018), fattispecie che qui non ricorre. Con il secondo motivo del ricorso incidentale, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 67 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 167 Tuir (divieto di doppia imposizione) in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, P.F. deduce che l’operato dell’Agenzia delle Entrate avrebbe violato il divieto della doppia imposizione, tassando due volte la stessa fonte di reddito: una volta ricondotti tali maggiori redditi accertati alla società, solo quest’ultima avrebbe dovuto essere il soggetto passivo d’imposta. Il motivo è infondato. Il P., pur come extraneus rispetto alla compagine sociale, è stato qualificato, quantomeno implicitamente, come interposto della società nella percezione dei maggiori redditi prodotti dall’attività sociale e non dichiarati. Ne deriva, dunque, l’applicazione dell’art. 37, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, che in sostanza trattano l’interponente (società) e l’interposto (P.F.) come coobbligati solidali, con la ulteriore conseguenza che il rimborso di quanto versato dall’interposto potrebbe essere concesso solo se e nei limiti in cui la stessa imposta (per i maggiori redditi rivenienti dall’attività sociale) sia stata versata anche dall’interponente in seguito ad accertamento definitivo. L’avveramento di tale ultima condizione non è stato nemmeno dedotto dal P.F. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al primo, al secondo, al terzo e, per quanto di ragione, al quarto motivo di ricorso e la causa deve essere rinviata alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese del presente giudizio”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 16 marzo 2022, n. 8645

sul ricorso n. 22306/2015 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;

-ricorrente –

Contro P. P.s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

-intimata-

Nonché P. F., rappresentato e difeso, in virtù di procura a margine del controricorso, dagli Avvocati Salvatore Mileto e Michele Procida, elettivamente domiciliato in Roma alla via Giambattista Vico n. 22 presso lo Studio legale Santacroce – Procida – Fruscione;

-controricorrente e ricorrente incidentale-

contro Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’ Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;

-controricorrente –

al ricorso incidentale avverso la sentenza n. 353/3/15 della COMM.TRIB.REG. dell’Abruzzo – L’Aquila, depositata il 10/4/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/1/2022 dal consigliere dott. NAPOLITANO ANGELO, tenutasi mediante collegamento da remoto; 

Fatti di causa

Sulla base delle risultanze del PVC redatto dalla Guardia di Finanza dell’Aquila in data 16/10/2008, l’Ufficio, con avviso n. 877030301893, relativamente all’anno d’imposta 2002, determinò nei confronti della società P.P. 88 s.r.l., esercente attività di commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi, un reddito d’impresa di euro 3.725.854, a fronte di quello dichiarato pari ad euro 287.802.

L’Ufficio accertò che la società mediante artifici e raggiri, utilizzando sistemi di erogazione alterati, effettuava consegne di prodotti petroliferi in quantità inferiori rispetto a quelle dovute.

Il prodotto illecitamente sottratto, poi, veniva commercializzato in nero a clienti compiacenti con la realizzazione di proventi non assoggettati ad imposizione fiscale.

Parte del maggior reddito attribuito alla società venne riscontrato attraverso indagini sui conti correnti di F.P., sui quali vennero evidenziate movimentazioni, tra prelevamenti e versamenti, pari a complessivi euro 523.525,43. Tale importo fu imputato a F.P. come amministratore di fatto della società, non socio della stessa, a titolo di reddito diverso, ex art. 67 del d.P.R. n. 917 del 1986 (Tuir). Il detto importo divenne l’oggetto dell’atto impositivo n. 877010401899, al quale venne allegato l’atto n. 877030301893 emesso nei confronti della società. Per i soci, l’imputazione del maggior reddito ascritto alla società fu operata sottraendo al maggiore imponibile le movimentazioni tracciate sui conti correnti dei soggetti non soci (come P.F., amministratore di fatto) ed attribuendo ai soci medesimi il maggior reddito in proporzione alle partecipazioni al capitale sociale.

F.P. propose ricorso dinanzi alla CTP dell’Aquila avverso l’avviso di accertamento a lui diretto, deducendo sia la legittimità delle movimentazioni da lui compiute sui suoi conti correnti, sia vizi relativi all’avviso di accertamento diretto alla società.

Si costituì l’Ufficio chiedendo la riunione del giudizio introdotto dal ricorso di F.P. con quelli di altri soggetti della famiglia che gestiva la società o detenevano di essa quote sociali, sostenendo nel merito la correttezza della pretesa fiscale. Nel giudizio di primo grado si costituì anche la società, di cui la CTP ordinò la chiamata in causa per l’integrazione del contraddittorio.

Il giudice di primo grado respinse il ricorso di F.P.

Quest’ultimo e la società proposero appello.

La CTR accolse in parte gli appelli.

Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

F.P. si è difeso con controricorso, che contiene un ricorso incidentale articolato in due motivi.

L’Agenzia delle Entrate ha depositato un controricorso al ricorso incidentale.

Le parti non hanno depositato memorie.

Ragioni della decisione

1.Con il primo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, l’Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso dalla determinazione del maggior reddito imputato a P.F. i prelevamenti riscontrati sui conti correnti a lui intestati. Tale esclusione, secondo l’Agenzia ricorrente, sarebbe scorretta in quanto rimetterebbe in discussione l’accertamento operato nei confronti della società, dal quale discende quello condotto sui soci e sugli estranei che abbiano di fatto gestito la società familiare a ristretta base di partecipazione al capitale In sostanza, secondo l’Agenzia delle Entrate, una volta che l’accertamento emesso nei confronti della società si sia cristallizzato per mancata impugnazione, come è avvenuto nella fattispecie in esame, l’accertamento del maggior reddito imputato ai soci e ai soggetti interposti non può più essere messo in discussione.

2. Con il secondo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, l’Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata nella parte in cui, recependo le risultanze della CTU, ha ritenuto giustificati versamenti eseguiti dal P. sul proprio conto corrente acceso presso la Banca dell’Adriatico per un ammontare di euro 2.600 e versamenti sul conto corrente acceso presso la Cassa di Risparmio di Rieti per euro 58.056,78.

Così facendo, sostiene l’Agenzia, la CTR avrebbe violato la regola dell’inversione dell’onere della prova posta dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973: sarebbe spettato al contribuente dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non fossero riferibili ad operazioni imponibili, essendo l’onere della prova a carico dell’Amministrazione soddisfatto con la allegazione e la documentazione dei dati e degli elementi emergenti dai conti correnti. Nel caso che ci occupa, l’Amministrazione avrebbe fondato l’avviso di accertamento notificato a P.F. sui dati emergenti dai conti correnti a lui intestati, che hanno contribuito a ricostruire i maggiori redditi della società da lui di fatto gestita, e che attraverso un processo di imputazione “discendente”, fondato sul rapporto tra interponente (società a ristretta base) e interposto (amministratore di fatto), ex art. 37, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, hanno poi consentito di determinare in capo a lui la quota dei maggiori redditi accertati come rivenienti dall’attività economica della società di fatto amministrata. E, di fronte ai dati offerti dall’Amministrazione, nessuna prova il P. avrebbe dato della non riferibilità delle movimentazioni tracciate sul suo conto corrente a redditi occulti rivenienti dall’attività sociale.

3. Con il terzo motivo di ricorso, rubricato “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c. – error in procedendo”, l’Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata per aver dato ingresso a motivi di doglianza relativi all’accertamento del maggior reddito in capo alla società (fonte poi dell’imputazione pro quota ai soci e agli interposti, come P.F.), nonostante che l’accertamento nei confronti della società fosse divenuto definitivo per mancanza di tempestiva impugnazione. Il P. avrebbe potuto solo dimostrare che il maggior reddito derivante dall’attività sociale e a lui imputato in relazione alla somma dei versamenti e prelevamenti riscontrati sui suoi conti correnti non fosse stato oggetto di distribuzione a suo favore, essendo confluito nel patrimonio della società per essere accantonato o reinvestito.

3.1. I primi tre motivi, che per la loro stretta connessione possono essere esaminati congiuntamente, sono fondati. Con l’avviso di accertamento notificato a P.F. in qualità di amministratore di fatto della società, in sostanza, l’Agenzia delle Entrate lo ha ritenuto un soggetto interposto dalla società nella percezione dei maggiori redditi derivanti dall’attività sociale, con la conseguenza che incombe su di lui l’onere di provare di non essere stato interposto e che i versamenti e i prelevamenti riscontrati sui conti correnti a lui riconducibili non derivavano dall’esercizio dell’attività economica svolta dall’ente societario; allo stesso modo di come sui soci della P.P. 88 s.r.l., società familiare a ristretta base di capitale, incombe l’onere di provare che i maggiori utili accertati non sono stati distribuiti ma sono stati accantonati o reinvestiti (giurisprudenza consolidata: cfr. ex multis Cass., sez. 5, n. 32959/2018; Cass., sez. 6-5, n. 18042/2018; Cass., sez. 5, n. 27778/2017; Cass., sez. 5, n. 24534/2017). Nella fattispecie che ci occupa, non avendo la società tempestivamente impugnato l’avviso di accertamento ad essa notificato, quest’ultimo è diventato definitivo, sicché il P. non poteva mettere in discussione i presupposti dell’accertamento del maggior reddito sociale, né la misura di tale maggior reddito, potendo solo contestare la sua qualità di interposto rispetto alla percezione dei maggiori redditi sociali e provare la non riconducibilità dei versamenti e dei prelevamenti operati suoi conti correnti a redditi e ad attività in nero. Né è rilevante, nella fattispecie di causa, la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 che ha escluso l’operatività, per i liberi professionisti, della presunzione legata alla inerenza dei prelevamenti ad un’attività produttiva di reddito, in quanto è dalla stessa qualità di interposto della società, attribuita al P.F., che deriva la riconducibilità dei prelevamenti e dei versamenti riscontrati sui suoi conti correnti all’attività economica esercitata dall’ente societario.

4. Con il quarto motivo, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 109 Tuir e dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, l’Agenzia delle Entrate ha dedotto che la CTR, affermando la non recuperabilità dei costi indebitamente dedotti dalla base imponibile (e dell’IVA indebitamente detratta) ad opera della società nella determinazione del maggior reddito a quest’ultima imputato, ha, in primo luogo, illegittimamente rimesso in discussione l’accertamento notificato alla società nonostante che quest’ultima non l’avesse tempestivamente impugnato; in secondo luogo, ha male interpretato l’art. 8 del d.lgs. n. 16 del 2012, convertito in legge n. 44 del 2012, che ha modificato l’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537 del 1993, e che non consentirebbe la deducibilità di costi per operazioni oggettivamente inesistenti, a prescindere da eventuali connessioni con fattispecie di reato.

4.1. Sotto il primo profilo di censura, il motivo è fondato.

Si è detto, infatti, nell’esame del primo, del secondo e del terzo motivo, che la CTR non poteva rimettere in discussione il disconoscimento dei costi operato dall’Ufficio ai fini della rideterminazione del reddito imponibile della società e della imputazione dei maggiori utili extracontabili al P.F., in assenza di una tempestiva impugnazione dell’avviso di accertamento da parte della società.

4.2. Il secondo profilo di censura di cui si compone il motivo di ricorso è, invece, inammissibile.

Nel corpo del ricorso, l’Agenzia delle Entrate ha spiegato che per i non soci (tra i quali rientra, nella presente controversia, P.F.) la determinazione del maggior reddito imponibile è stata operata sommando per ciascuno di essi le movimentazioni in entrata (versamenti) e in uscita (prelevamenti) dai rispettivi conti correnti, sicché in questa sede l’Agenzia ricorrente non ha interesse a censurare l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, della deducibilità dei costi e della detraibilità dell’iva per operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto quand’anche se ne affermasse la contrarietà al diritto, non cambierebbe la quantificazione del maggior reddito imputato al P.F. quale amministratore di fatto, quantificazione che, si ripete, è avvenuta sommando i prelevamenti e i versamenti ingiustificati risultanti dai conti correnti a lui intestati.

5. Con il primo motivo del ricorso incidentale, rubricato “Nullità della sentenza ex artt. 36, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992, 132 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. per contraddittorietà ed indecifrabilità assoluta della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.”, P.F. deduce il vizio assoluto di motivazione dal quale sarebbe affetta la sentenza impugnata, derivante dal fatto che nel corso della parte motiva il provvedimento parla del contribuente come di socio della società, anziché di terzo estraneo alla compagine sociale.

5.1. Il motivo è infondato.

Pur nell’ambiguità di alcuni punti della sentenza, che effettivamente parlano di “socio” anziché di terzo o interposto, la ratio decidendi su cui si basa la sentenza impugnata è chiara: essa accoglie l’impostazione dell’Agenzia delle Entrate di attribuire al contribuente, non socio, il maggior reddito prodotto dalla società applicando quale criterio di determinazione la somma dei movimenti in entrata e in uscita dai suoi conti correnti (salvo, poi, come si è visto nell’esame del ricorso principale, erroneamente scomputare delle somme all’esito della disposta CTU). Peraltro, giova ricordare che l’obbligo di motivazione è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e si concreta, per tal via, una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. (Cass., sez. 6-3, n. 22598/2018), fattispecie che qui non ricorre.

6. Con il secondo motivo del ricorso incidentale, rubricato “Violazione e falsa applicazione dell’art. 67 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 167 Tuir (divieto di doppia imposizione) in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c.”, P.F. deduce che l’operato dell’Agenzia delle Entrate avrebbe violato il divieto della doppia imposizione, tassando due volte la stessa fonte di reddito: una volta ricondotti tali maggiori redditi accertati alla società, solo quest’ultima avrebbe dovuto essere il soggetto passivo d’imposta.

6.1. Il motivo è infondato.

Il P., pur come extraneus rispetto alla compagine sociale, è stato qualificato, quantomeno implicitamente, come interposto della società nella percezione dei maggiori redditi prodotti dall’attività sociale e non dichiarati. Ne deriva, dunque, l’applicazione dell’art. 37, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, che in sostanza trattano l’interponente (società) e l’interposto (P.F.) come coobbligati solidali, con la ulteriore conseguenza che il rimborso di quanto versato dall’interposto potrebbe essere concesso solo se e nei limiti in cui la stessa imposta (per i maggiori redditi rivenienti dall’attività sociale) sia stata versata anche dall’interponente in seguito ad accertamento definitivo. L’avveramento di tale ultima condizione non è stato nemmeno dedotto dal P.F.

7. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al primo, al secondo, al terzo e, per quanto di ragione, al quarto motivo di ricorso e la causa deve essere rinviata alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione, che provvederà anche a regolare le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il primo, il secondo, il terzo motivo e la prima delle due censure in cui si articola il quarto motivo del ricorso principale.

Dichiara inammissibile la seconda delle due censure in cui si articola il quarto motivo del ricorso principale.

Rigetta il ricorso incidentale.

Cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio, alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione.

Doppio contributo per il ricorso incidentale.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 28 gennaio 2022

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