EUROPA FISCALITA IVA

Accertamento IVA da studi di settore, ok dalla Corte Ue

La sentenza della Corte Ue del 21 novembre 2018 è innescata da una causa (C‑648/16) avente a oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Calabria che verte sull’interpretazione dell’art. 273 della direttiva IVA (n. 2006/112/CE) nell’ambito di una controversia in merito a un avviso di accertamento dell’IVA: il considerando 59 della direttiva IVA recita che “È opportuno che, entro certi limiti e a certe condizioni, gli Stati membri possano adottare o mantenere misure speciali che derogano alla presente direttiva, al fine di semplificare la riscossione dell’imposta o di evitare talune forme di evasione o elusione fiscale”.

Il DPR 633/1973, che disciplina le modalità di rettifica delle dichiarazioni IVA, all’art. 54 prevede che la verifica delle veridicità delle dichiarazioni può essere operata mediante revisione formale della dichiarazione presentata o in modo più approfondito, sulla base sia dei dati di cui dispone, sia di quelli raccolti dall’Amministrazione finanziaria mediante i propri poteri istruttori.

Gli accertamenti possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta o dagli studi di settore: in caso di mancato adeguamento ai ricavi o compensi determinati sulla base degli studi di settore possono essere attestate le cause che giustificano la non congruità e possono essere attestate, inoltre, le cause che giustificano un’incoerenza rispetto agli indici economici individuati dagli studi.

 

Il procedimento

Una contribuente soggetta a IVA era oggetto di accertamento tributario riguardo all’esercizio 2010 e contestava il quantum dell’accertamento, che era stato determinato sulla base di uno studio di settore relativo alla categoria dei commercialisti e consulenti tributari. La ricorrente sosteneva che l’Amministrazione finanziaria avrebbe erroneamente applicato alla sua situazione lo studio di settore relativo ai commercialisti e consulenti tributari, anziché quello relativo all’attività dei consulenti del lavoro, ritenuta la propria occupazione prevalente. La CTP competente per territorio decideva di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale: “Se sia o meno compatibile con la direttiva IVA la normativa nazionale italiana nella parte in cui consente l’applicazione dell’IVA a un volume d’affari globale accertato induttivamente, sotto il profilo del rispetto della detrazione e dell’obbligo di rivalsa e, più in generale, in relazione al principio di neutralità e traslazione dell’imposta”.

 

Legittimo l’accertamento da studi di settore, a condizione che…

La Corte affermava che le disposizioni dell’art. 273 della direttiva IVA non precisano né le condizioni né gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere e conferiscono loro, dunque, un margine discrezionale riguardo i mezzi idonei a raggiungere gli obiettivi di assicurare la riscossione dell’IVA e di evitare l’evasione, restando tuttavia tenuti a esercitare la loro competenza nel rispetto del diritto dell’Unione e dei suoi principi generali. Nessun impedimento, quindi, a una normativa nazionale, come quella in questione, che determini l’importo dell’IVA dovuta da un soggetto passivo sulla base del volume d’affari complessivo, accertato induttivamente sulla scorta di studi settoriali approvati con decreto ministeriale. In ogni caso, la normativa nazionale e la sua applicazione possono essere conformi al diritto dell’Unione soltanto se rispettano i principi di neutralità dell’imposta e di proporzionalità.

Per la Corte, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria proceda a una rettifica dell’IVA il cui importo risulti da un maggior volume d’affari accertato induttivamente, il principio di neutralità verrebbe rispettato solo se il soggetto passivo accertato possa detrarre l’IVA assolta a monte.

Secondo la Corte il meccanismo in questione, alla luce della sua natura, della sua struttura e delle regole che lo disciplinano, “non sembra violare il principio di proporzionalità, la cui verifica spetta tuttavia al giudice del rinvio” e quindi, alla luce di tutte le considerazioni esposte, la direttiva IVA e i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano a una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento, che permetta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi differenze tra i redditi dichiarati e quelli stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere a un metodo induttivo basato sugli studi stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, alla rettifica fiscale. Il tutto a condizione che al contribuente venga riconosciuta la possibilità, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità e del diritto di difesa, di contestare i risultati di tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’IVA.

 

 

 

 

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