CASSAZIONE

Via libera al sequestro preventivo per l’indebita fruizione del regime fiscale Pex

Tributi – IRES – Contenzioso – Cessione di partecipazioni sociali – Comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa – Indebita fruizione del regime fiscale PEX – Artt. 2 e 4 del D.lgs. n. 74/2000 – Tribunale del riesame – Artt. 58 e 87 del DPR n 917/86 – Sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20001 del 20 maggio 2021, intervenendo in merito alla cessione di partecipazioni sociali, ai fini della fruizione del regime fiscale della Pex ha stabilito che in caso di indebita fruizione, dissimulata attraverso un’operazione con finalità elusiva assumendo rilevanza penale e integrare il reato di dichiarazione infedele, costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto nei confronti del legale rappresentate di una società.  Si tratta infatti di un principio che, come ricordato, è pacifico nella giurisprudenza, stante la funzione sussidiaria del sequestro per equivalente, che è stato recepito espressamente, anche per i reati tributari, dall’art. 12-bis, comma 1, D.lgs. 74/2000, introdotto dall’art. 10 del D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158. In altre parole i Supremi Giudici hanno conseguentemente confermato il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, disposto nei confronti del legale rappresentante di una Spa, in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 4, D.lgs. n. 74/2000. Per tale tipologia di intervento, nei reati tributari, sono sufficienti solo “fumus criminis” e corrispondenza fra i beni oggetto della misura e il profitto o il prezzo dell’ipotizzato reato.

Con il termine “confisca” si intende l’espropriazione a opera dello Stato delle cose che – per ripetere la tradizionale formula dell’art. 240 del codice penale – “servirono o furono destinate a commettere il reato ovvero ne rappresentano il prodotto od il profitto”. La figura generale di confisca opera per tutti i reati e viene riproposta, nei suoi effetti, in relazione a tutte le altre numerose tipologie e figure di confisca via via introdotte dal legislatore, in vari settori e con i più diversi caratteri e ambiti di applicabilità.

Come è d’altronde noto, la confiscabilità di beni per equivalente in caso di reati tributari trae origine dal rinvio operato dall’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 comma 143: “… Nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”. La confisca per equivalente riveste carattere essenzialmente sanzionatorio, essendo volta all’apprensione non tanto dei beni oggetto di profitto da parte del reo, quanto di un valore a questo equivalente. Una tale natura, oltre a essere stata esplicitamente affermata dalla giurisprudenza internazionale e da quella delle Sezioni Unite della Cassazione, gode del conforto di autorevole dottrina, concorde nel rinvenire all’interno della misura un carattere eminentemente afflittivo. La ratio che ha determinato il legislatore a fare uso di una tale misura sarebbe, in particolare, quella di ristabilire l’equilibrio economico interno al patrimonio del reo.

La Suprema Corte si è pronunciata varie volte sull’argomento, con interpretazioni non sempre coerenti, precisando però che in tema di reati tributari il profitto confiscabile è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale tratto dalla realizzazione del reato e può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento di un tributo, che si traduce non già in un miglioramento della situazione patrimoniale, quanto in un mancato decremento del patrimonio (Cass. pen. Sez. Un., n. 18734/2013). 

Dopo innumerevoli e contrastanti sentenze sull’argomento “confisca per equivalente” per i reati tributari, si è giunti alla sentenza 5 marzo 2014, n. 10561, in cui la Cassazione ha fissato alcuni principi di diritto, fra i quali: “… È consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.  Prosegue la S.C.: “… Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio” e “… Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”. Infine, chiosano gli Ermellini: “… La impossibilità del sequestro del profitto di reato può essere anche solo transitoria, senza che sia necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato” (Sent. n. 10561/ 2014).

Con il passare degli anni, tuttavia, l’ambito di applicazione della confisca allargata è stato ampliato finendo per includervi anche fattispecie di reato del tutto avulse dalla ratio originaria, sino a giungere all’applicabilità della confisca per sproporzione nell’ambito della legislazione penal-tributaria nel 2019: il Dl 124/2019 ha infatti introdotto l’art. 12-ter, D.lgs. 74/2000.

Infine, appare degna di menzione anche la pronunzia n. 13070 del 26 marzo 2019, nella quale la S.C. rammentava che la confisca per equivalente può essere disposta anche senza espressa indicazione dei beni da apprendere, ricordando che la confisca del profitto dei reati tributari deve essere eseguita, innanzitutto, in via diretta nei confronti del beneficiario delle condotte illecite, in relazione al denaro presso questo rinvenibile e poi, per equivalente, sui beni dell’imputato. Così, solo nell’ipotesi di insufficiente disponibilità di beni rinvenuti, si potrebbe porre il problema di applicare la confisca su beni futuri.

Infine, dall’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione: nella Relazione n. 3/2020 pubblicata il 13 gennaio 2020, si legge che a seguito dell’inclusione dei reati tributari nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità dell’ente, ex 231, si dovrebbe poter procedere alla confisca c.d. diretta o a quella per equivalente del profitto o del prezzo del reato nel patrimonio dell’ente, ex art. 19 D.lgs. 231/2001. Con la riforma, la commissione di un reato tributario comporta l’irrogazione in capo all’ente sia delle sanzioni amministrative già previste, ai sensi dell’art. 11, D.lgs. 472/1997, sia di quelle previste dal D.lgs. 231/2001, ma – si chiarisce – ciò non dovrebbe comportare alcun conflitto con il principio del ne bis in idem.

E’ diventata legge, a seguito della conversione del decreto fiscale (con legge n. 157/2019 in vigore dal 25 dicembre), la riforma dei reati tributari, che modifica la disciplina penale e la responsabilità amministrativa degli enti. Viene dunque confermato il complessivo impianto riformatore avanzato sotto la spinta dello slogan “manette agli evasori”.

In tema di reati tributari abbiamo assistito a due interventi legislativi che hanno inciso sulla disciplina della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato, di cui al D.lgs. 231/2001. Con il primo intervento, a opera del Dl 26 ottobre 2019, convertito con modifiche in L. 19 dicembre 2019, n. 157, è stato introdotto nel decreto 231 il nuovo art. 25-quinquiesdecies, con riferimento ai seguenti reati tributari: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2, co.1 e co. 2-bis, D.lgs. n. 74/2000); dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3, D.lgs. 74/2000); emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8, commi 1 e 2-bis, D.lgs. 74/2000); occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10, D.lgs. 74/2000); sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11, D.lgs. 74/2000).

Questa prima inclusione è stata realizzata dal legislatore senza condizioni o modifiche rispetto alle ipotesi previste dal codice penale, semplicemente “estendendo” i citati reati tributari alla disciplina della responsabilità amministrativa dipendente da reato. Con il secondo intervento, nel mese di luglio 2020, sono state ulteriormente ampliate le fattispecie tributarie rilevanti ai fini del decreto 231/2001, secondo le condizioni dettate dalla c.d. Direttiva PIF (Direttiva UE 2017/1371) relativa alla “lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’UE mediante il diritto penale”.  

Nello specifico, il D.lgs. 14 luglio 2020, n. 75, in attuazione di quanto disposto dalla normativa europea e dalla legge di recepimento (legge di delegazione europea 4 ottobre 2019, n. 117), ha ‘aggiunto’ al D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 anche i seguenti e ulteriori reati tributari: dichiarazione infedele (art. 4, D.lgs. 74/2000); omessa dichiarazione (art. 5, D.lgs. 74/2000); indebita compensazione (art. 10-quater, D.lgs. n. 74/2000).

In generale si deve considerare che si tratta di reati “trasversali”, nel senso che oltre a interessare in via diretta l’area fiscale e l’area amministrativa contabile, hanno riflessi anche su altre aree e processi aziendali. Con riferimento ai reati di natura dichiarativa, si dovrà considerare che si realizzano con la presentazione delle dichiarazioni volte a determinare la base imponibile e l’imposta IRES e IVA, con gli antecedenti necessari nelle attività relative alla redazione dei bilanci ed alla registrazione contabile di fatture o altri documenti e quindi avendo come riferimento il ciclo passivo dell’azienda. Con riferimento agli ulteriori reati di natura non dichiarativa, assume rilievo il ciclo attivo dell’azienda, dovendo qui fare riferimento all’emissione di fatture o altri documenti a fronte di operazioni inesistenti a fine di consentire a terzi l’evasione fiscale. Con riferimento, poi, all’occultamento e distruzione di documenti e sottrazione al pagamento di imposte, si dovrà fare attenzione anche ai sistemi di sicurezza nell’archiviazione cartacea o informatica, tali da escludere condotte rilevanti, nonché alla gestione del patrimonio.

Il decreto legislativo n. 75 del 14 luglio 2020 ha recepito la direttiva Ue n. 2017/1371 – c.d. direttiva PIF (Protezione Interessi Finanziari) – recante norme per “la lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale”. A seguito di tale attuazione si è estesa ulteriormente la responsabilità amministrativa degli enti per i reati tributari, ricomprendendovi fattispecie dapprima escluse dalla legge 157/2019. All’art. 25-quinquiesdecie, “Reati tributari”, indica per quali di questi reati (previsti, cioè, nel novellato D.lgs. 74/2000) commessi per interesse o vantaggio dell’ente possa determinarsi la responsabilità amministrativa, fra i quali sono specificati sia il delitto di dichiarazione fraudolenta, sia il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 1, D.lgs. 74/2000.

Tornando al motivo centrale della presente pronunzia, appare evidente che l’indebita fruizione del regime fiscale della “participation exemption” – cosiddetta Pex – può quindi assumere rilevanza penale e integrare il reato di dichiarazione infedele nel caso in cui con essa si dissimuli un’operazione con finalità elusiva.

Il sistema della partecipation exemption, come è noto, è stato introdotto dalla riforma Tremonti del 2003 con la legge delega 80/2003, e con il successivo D.lgs. n. 344/2003, che hanno radicalmente modificato il sistema di imposizione degli utili societari e delle plusvalenze da partecipazioni con la volontà di omogeneizzare il sistema fiscale italiano a quello degli altri Paesi europei. La ratio alla base del regime in esame è quella di evitare una doppia tassazione di una medesima capacità contributiva, ossia quella della società e quella dei soci. Risulta opportuno sottolineare che la doppia tassazione, secondo il regime tributario nazionale, è vietata ma, come recita l’art. 67 del DPR 600/1973, “la stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto d’imposta neppure nei confronti di soggetti diversi”, risultando pertanto escluso dall’ambito applicativo il caso degli utili societari prodotti dalla società e poi distribuiti sotto forma di dividendi, presentando, appunto, presupposti d’imposta diversi.

Il principio che ha ispirato la riforma è stato sostanzialmente lo spostamento del baricentro impositivo dal socio alla società, tassando tendenzial­mente l’utile al momento della produzione, senza conguagli successivi. Ciò ha comportato l’irrilevanza fiscale del passaggio del reddito ai soci, salvo il conguaglio in capo alle persone fisiche destinatarie finali, e della vendita della re­lativa partecipazione. In altre parole, l’esenzione – e la conseguente irrilevanza delle minusvalenze – prevista sui plusvalori derivanti dalla cessione (o valutazione) di azio­ni o quote societarie risponde alla duplice esigenza di evitare la doppia imposizione sugli utili, già realizzati dalla partecipata e tassati in capo ad essa e, contestualmente, alla necessità di prevenire la duplicazione del prelievo sugli utili che la società partecipata realizzerà ed assoggetterà ad imposizione in futuro.

La Pex, difatti, prevede che le plusvalenze realizzate mediante questo strumento non rientrino tra i ricavi soggetti a tassazione IRES, o meglio, rientrano ma concorrano alla formazione del reddito imponibile dell’impresa solo per una minima parte.

Tuttavia, per poter beneficiare degli effetti di questo regime è necessario verificare se l’operazione di cessione di partecipazioni sociali rispetta alcuni requisiti, dettati principalmente dall’articolo 87 del DPR n 917/86 (TUIR) ed è un regime di esenzione e riguarda la non imponibilità, ai fini delle imposte dirette (IRES/IRPEF) della plusvalenza derivante dalla cessione di partecipazioni.

L’esenzione da tassazione può essere ottenuta dal soggetto cedente soltanto al sussistere di alcuni requisiti che sono indicati agli articoli 58 e 87 del TUIR: in caso di mancato rispetto di detti requisiti la plusvalenza resta imponibile. Stante all’articolo 73 del TUIR, non tutti i soggetti possono beneficiare di tale regime, come ad esempio le persone fisiche che non producono reddito d’impresa e la società semplice, che presenta però numerosi vantaggi fiscali.

La giurisprudenza di legittimità sull’argomento ha sempre tenuto conto di un quadro tributario ondivago e non organico: oltre a rendere poco agevoli le interpretazioni normative e i comportamenti da assumere, complica, nel quadro più generale dell’economia, anche le valutazioni e le scelte di investimento degli operatori economici.

Da citare inoltre, sul tema, la sentenza degli Ermellini n. 41686 del 2014, dove la Corte affrontando un’accusa di dichiarazione infedele collegata alla violazione da parte di un contribuente, legale rappresentante di una società, della normativa relativa alla “participation exemption”, ha chiarito quale sia la nozione di “commercialità” della società partecipata, ai fini dell’applicabilità della Pex.  Il requisito della commercialità dell’impresa impone al giudice di effettuare un esame specifico per accertare in concreto se la società partecipata, oggetto della cessione, sia o meno dotata di una struttura idonea, anche potenzialmente, ad avviare un processo produttivo per la realizzazione e la commercializzazione di beni o servizi.

Menzioniamo in ultimo anche la sentenza n. 46953 del 16 ottobre 2018, nella quale gli Ermellini hanno specificato che per imposta evasa debba intendersi, ai sensi del D.lgs. 74/2000, art. 1, comma 1, lett. f), “… la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine; non si considera imposta evasa quella teorica e non effettivamente dovuta collegata a una rettifica in diminuzione di perdite dell’esercizio o di perdite pregresse spettanti e utilizzabili”.

E’ stato poi precisato che la soglia di punibilità non costituisce una condizione oggettiva di punibilità ma un elemento costitutivo del reato: ciò in quanto la sua integrazione non dipende da un evento futuro e incerto, ma dallo stesso comportamento dell’agente che, con una condotta omissiva, contribuisce alla realizzazione del fatto tipico.

All’uopo appare opportuno citare anche la recente risposta a interpello dell’Agenzia delle Entrate, la n. 33 dell’11 gennaio 2021. Secondo il parere del Fisco l’adesione al principio di effettività consente di escludere che si abbia esercizio di un’attività d’impresa in relazione a mere intenzioni ovvero in relazione all’assolvimento di meri adempimenti formali, dove il criterio formale di qualifica del reddito di cui all’art. 55 TUIR costituisce condizione necessaria ma non sufficiente a individuare il requisito della commercialità, che va definito sulla base di un criterio sostanziale, secondo il quale non tutti i redditi prodotti nell’esercizio di impresa sono riferibili a un’attività commerciale. La mancanza del suddetto requisito della “commercialità” comporterebbe la deducibilità della minusvalenza derivante dalla cessione della partecipazione, secondo quanto previsto dall’art. 101, comma 1, TUIR, ai sensi del quale le minusvalenze dei beni relativi all’impresa sono deducibili a condizione che siano diverse da quelle derivanti dal realizzo di partecipazioni che beneficiano del regime della participation exemption. L’analisi delle Entrate muove dal presupposto che “il requisito della commercialità deve essere considerato in maniera sostanziale, attribuendo rilievo alle specifiche caratteristiche della società partecipata e non limitandosi ad un esame formale dell’oggetto sociale”, sempreché l’attività sia effettiva, escludendo così che si configuri “l’esercizio di un’attività d’impresa in relazione all’assolvimento di meri adempimenti formali”. In altri termini, indipendentemente dall’oggetto sociale statutario, è sufficiente che venga svolta una effettiva attività commerciale.

Tanto premesso e tornando al caso in esame il Tribunale, a seguito di riesame proposto nell’interesse di un contribuente, annullava parzialmente il decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca in via diretta nei confronti della persona giuridica e per equivalente sui beni della persona fisica indagata.

La parte contribuente si lamentava successivamente in Cassazione, affidando il ricorso a cinque motivi, fra i quali essenzialmente insisteva sulla violazione di legge, in relazione agli artt. 1 e 4 del citato decreto legislativo, nonché all’art. 87 del TUIR, poiché i giudici della cautela, in relazione alle condotte di indebita fruizione del regime fiscale Pex, avevano non correttamente affermato la rilevanza penale delle stesse perché in presenza di atteggiamenti fraudolenti che legittimavano un’operazione volta all’elusione fiscale.

Il Collegio di legittimità, ha invece ritenuto corretta la valutazione del Giudice, ricordando che: “…  I Giudici della cautela, sulla base di tali articolati rilievi, hanno ritenuto provato, ai limitati effetti cautelari, il fumus del contestato reato di cui all’art. 4 d.lgs 74/2000, escludendo che la condotta potesse rientrare nell’ambito del c.d. abuso del diritto o elusione fiscale penalmente irrilevante ex art. 10 bis, Statuto contrib. La motivazione del Tribunale è corretta ed in linea con i principi affermati da questa Corte in subiecta materia. Va ricordato che, in tema di sequestro preventivo, la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del riesame o della Corte di cassazione non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi (Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Rv.215840 – 01); non è necessario, quindi, valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (Sez. 1, n. 18491 del 30/01/2018, Rv.273069 – 01; Sez. 1,n. 18491 del 30/01/2018, Rv.273069 – 01), con la precisazione che il Giudice deve, comunque, verificare in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la “serietà degli indizi” costituisce presupposto per l’applicazione delle misure cautelari reali (Sez.3, n.37851 del 04/06/2014, Rv.260945 Sez.5,n.3722 del 11/12/2019, dep.29/01/2020, Rv.278152 – 01). Questa Corte, inoltre, ha affermato, in tema di violazioni finanziarie, che l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Mocali, Rv. 264950; Sez.3, n.38016 del 21/04/2017, dep.31/07/2017, Rv.270551 – 01 Sez. 3, n.8047 del 2018, non massimata). Il terzo motivo di ricorso è infondato. Va ricordato che, in tema di sequestro preventivo, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, conseguendone che lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché esso emerga ictu oculi (tra le tante: Cass., Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016). Nella specie, ciò non solo non risultava palese ma, anzi, il Tribunale ha ampiamente motivato, in aderenza alle emergenze processuali, in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati: con riferimento al reato di cui all’art. 4 d.lgs di cui al capo b) ha evidenziato- quanto all’indebita fruizione del regime fiscale PEX la qualificata esperienza dell’indagato nel settore dell’alta finanza e l’ingente valore economico delle operazioni produttive di plusvalenze poste in essere (pag 25 dell’ordinanza impugnata); in relazione altre condotte contestate al capo b) ha richiamato la qualità dell’indagato di legale rappresentate della FT CAPITAL, carica che gli consentiva di conoscere i singoli elementi passivi iscritti nel bilancio e di attivarsi per verificare l’effettiva esistenza delle spese iscritte nel bilancio; in relazione, infine, al reato di cui all’art. 2 dlgs 74/2000 contestato al capo a) dell’imputazione, ha richiamato le cariche formali dell’indagato, che lo ponevano in condizione di richiedere in qualsiasi momento informazione presso i professionisti incaricati dei vari adempimenti, la circolazione, di immediata percezione, di capitali mediante il calibrati uso di fatture passive estere, gli importi assai elevati delle fatture, oggetto delle fatture relativo a prestazioni di consulenza e ricerca clienti di cui avrebbe dovuto fruire in prima persona lo stesso indagati, posizioni apicali rivestite dall’indagato anche nell’ambito delle società straniere emittenti le fatture. Ne consegue l’infondatezza della doglianza. Il quarto motivo di ricorso è infondato.  Per la loro natura di dati di fatto aventi valore indiziario, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ben possono essere poste a fondamento di un provvedimento cautelare reale. In proposito va ricordato, infatti, che, ai fini della applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 cod.proc.pen., essendo sufficiente l’esistenza del “fumus delicti” in concreto (cfr. sez. 6, n. 45591 del 24.10.2013, Ferro, Rv. 257816; Sez. 3, n. 37851 del 4.6.2014, Parrelli, non mass.), dovendosi cioè verificare in modo puntuale e coerente la serietà degli elementi in base ai quali il giudice ritenga concretamente esistente il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere la fattispecie in quella astratta, tenendo anche conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti. Va dunque ribadito il principio che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale (cfr. Sez. 3 n. 2006 del 2.10.2014, dep. 16.1.2015, Scatena, Rv. 261928, fattispecie relativa a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato, nonché Sez.3, n. 36302 del 15/03/2019, Rv. 277553 – 01, secondo cui, in tema di reati tributari è legittimo, nel procedimento cautelare reale, nel quale è sufficiente l’oggettiva sussistenza del “fumus” del reato e si può prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore, il ricorso alle presunzioni tributarie.  A tanto consegue l’infondatezza della doglianza.  Il quinto motivo di ricorso è infondato. Costituisce principio di diritto consolidato, che va ribadito, che, in materia di reati tributari, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può avere ad oggetto beni inclusi in un fondo patrimoniale familiare, in quanto su di essi grava un mero vincolo di destinazione che non ne esclude la disponibilità da parte del proprietario che ve li ha conferiti. (Sez.3, n.23621 del 17/07/2020, Rv. 279824 – 01; Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, Rv. 268586 – 01; Sez.3, n. 40364 del 19/09/2012, Rv.253681 – 01). In particolate si è affermato che affermato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, non presupponendo alcuna forma di responsabilità civile, può avere ad oggetto anche beni inclusi nel fondo patrimoniale familiare, in quanto appartenenti al soggetto che ve li ha conferiti (Sez. 3, n. 40364 del 19/09/2012, Rv. 253681, cit.). Infatti, i beni costituenti il fondo patrimoniale possono essere aggrediti dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, gravando sui medesimi un mero vincolo di destinazione che non attiene alla titolarità del diritto di proprietà, e quindi, al tema dell’appartenenza del bene a persona estranea al reato sicché i beni costituenti il fondo patrimoniale rimangono nella disponibilità del proprietario o dei rispettivi proprietari e possono essere sottoposti a sequestro e a confisca in conseguenza dei reati ascritti ad uno dei conferenti ( Sez. 3, n. 1709 del 25/10/2012, dep. 2013, Cervone, non mass.). Ne consegue l’infondatezza della doglianza difensiva, che, peraltro, risulta meramente assertiva e priva di confronto critico con tale orientamento consolidato. Consegue, quindi, il rigetto del ricorso e, in base al disposto dell’art. 616 cod.proc.pen. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

Corte di Cassazione – Sentenza 20 maggio 2021, n. 20001

sul ricorso proposto da:

M. S., nato a Modena il 01/04/1973 avverso l’ordinanza del 20/11/2020 del Tribunale di Modena

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Antonella Di Stasi;

lette le richieste scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale S. Tocci, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

lette per l’imputato le conclusioni scritte dell’avv. Giulio Garuti, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso in relazione a tutti i motivi presentati.

RITENUTO IN FATTO

1. Con ordinanza del 20/11/2020, il Tribunale di Modena, a seguito di riesame proposto nell’interesse di M. S., annullava parzialmente il decreto di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca in via diretta nei confronti della persona giuridica e per equivalente sui beni della persona fisica indagata, limitatamente all’importo di euro 287.100,00, confermando nel resto;

il sequestro era stato disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Modena in data 03.07.2020 nei confronti del predetto, nella qualità di legale rappresentante della società FIN-T.C.P. spa, in relazione ai reati di cui agli artt. 2 e 4 d.lgs. 74/2000.

2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione M. S., a mezzo del difensore di fiducia, articolando cinque motivi di seguito enunciati.

Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 1 e 4 d.lgs 74/2000 nonché 87 TUIR per aver il Tribunale del riesame ritenuto che la contestata indebita fruizione del regime della “partecipation exemption” integri la fattispecie di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 d.lgs 74/2000.

Argomenta che il Tribunale aveva ritenuto integrato il requisito del fumus commissi delicti in relazione alle condotte di indebita fruizione del regime fiscale PEX contestate al capo b) dell’imputazione provvisoria, erroneamente affermato che le condotte assumevano rilevanza penale perché connotate da fraudolenza, mentre la condotta di dichiarazione indebita prescindeva da tale carattere, relativo alle diverse fattispecie di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs 74/2000.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 4, comma 1 bis d.lgs 74/2000 per avere il Tribunale del riesame ritenuto che la contestata indebita deduzione di una minusvalenza per l’importo di euro 619.310,69 integri il reato di cui all’art. 4 d.lgs 74/2000, escludendo la ricorrenza della predetta causa di esclusione della punibilità.

Argomenta che con le modifiche di cui al d.lgs n. 158/2015, il reato di dichiarazione infedele è integrato dalla indicazione di elementi passivi inesistenti e non da quelli fittizi; il Tribunale non aveva considerato che l’esistenza materiale della minusvalenza era indubbia e che, quindi, trovava applicazione la causa di esclusione della punibilità di cui al comma 1 bis dell’alt. 4 d.lgs 74/2000.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 2 e 4 d.lgs 74/2000 per avere il Tribunale del riesame omesso qualsivoglia indagine in ordine all’elemento soggettivo delle contestate fattispecie, esprimendo sul punto una osservazione dei tutto apodittica relativa alla sola condotta di indebita fruizione del regime fiscale PEX, contestata al capo B) dell’imputazione provvisoria; con riferimento alle contestate false fatturazioni di cui al capo A) dell’imputazione provvisoria il Tribunale aveva fatto riferimento esclusivamente agli elementi oggettivi rilevato in sede di pvc da parte dell’Agenzia delle Entrate, dalle quali non emergeva la finalità di evasione in capo all’indagato.

Con il quarto motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 321 cod.proc.pen. per l’insussistenza delle condizioni legittimanti la disposta misura cautelare, nonché per violazione degli artt. 2 e 4 d.lgs 74/2000.

Argomenta che la misura ablatoria era stata basata su accertamenti presuntivi condotti dalla Agenzia delle Entrate, non approfonditi dalla Guardia di Finanza delegata, che non aveva svolto specifiche indagini.

Con il quinto motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 321 cod.proc.pen., 322 ter cod.pen. e 12 bis d.lgs 74/2000 in relazione al sequestro per equivalente disposto sui beni dell’indagato, perché facenti parte di fondi patrimoniali costituiti tra il 2007 ed il 2008 tra M. S. e l’allora moglie Cinzia Zangheri, con la quale si separava nell’anno 2017.

Chiede, pertanto, l’annullamento della ordinanza impugnata.

Si è proceduto in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, in base al disposto dell’art. 23, comma 8 d.l. 137/2020, conv. in L. n. 176/2020.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. I primi due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente perché oggettivamente connessi, sono infondati.

Il Tribunale, con ampia motivazione, ha escluso che la condotta contestata al capo B) dell’imputazione provvisoria (art 4 d.lgs 74/2000) con riferimento all’indebita fruizione del regime fiscale cd PEX in relazione agli anni di imposta 2014 e 2015 (l’indagato, nella sua qualità di legale rappresentante della società Fin.T. C. P. spa, al fine di evadere l’imposta sui redditi e sul valore aggiunto ometteva di annotare nelle dichiarazioni Ires 2014 e Ires 2015 dallo stesso sottoscritte elementi attivi di reddito, tramite indebite variazioni in diminuzioni con riferimento a plusvalenze in regime fiscale PEX), potesse integrare un mero errore di valutazione giuridico-tributaria in ordine alla classificazione di plusvalenze fiscalmente indeducibili ( e come tale riconducibile nell’alveo dell’art. 4, comma 1 bis del d.lgs 74/2000), ravvisando, invece, la rilevanza penale del fatto perché dissimulante un’operazione volta all’elusione fiscale (cfr pag 25-26 dell’ordinanza impugnata).

In particolare, il Tribunale ha rimarcato come l’Agenzia delle Entrate, esaminando la documentazione contabile e fiscale della FT C., aveva messo in rilievo l’indebita fruizione del regime fiscale cd PEX, con un recupero a tassazione, ai fini Ires, di una base imponibile pari ad euro 8.062.170 per l’anno 2014 e ad euro 6.453.925 per l’anno di imposta 2015.

L’accesso a tale beneficio (nel caso della partecipation exemption, in sede di dichiarazione dei redditi, la plusvalenza generata dalla cessione delle quote di partecipazione dapprima compare, nella sua interezza, tra gli elementi che concorrono in positivo alla formazione del reddito; successivamente il 95% di quella stessa plusvalenza ricompare, come variazione in diminuzione, come componente negativo che riduce la base imponibile), subordinato dall’art. 87 TUIR alla sussistenza di specifici requisiti oggettivi e soggettivi, non poteva, nella specie, essere realizzato, per la mancanza della “commercialità” della società partecipata, (requisito previsto dall’art. 87, comma 1, lett. d, del TUIR per l’applicazione della partecipation exemption, regime invocato invece dalla difesa per negare l’esistenza in dichiarazione di elementi attivi di ammontare inferiore a quello effettivo). Ha, quindi, ravvisato la finalità elusiva dell’operazione, rimarcando che le società direttamente e indirettamente partecipate dalla FT C. P. E. srl (a sua volta partecipata al 50,63% dalla stessa FT C.) avevano le medesime caratteristiche di piccole aziende in forte crisi economica, senza dipendenti o con unico dipendente, con bilanci negativi e/o titolari di un patrimonio immobiliare di entità nettamente superiore rispetto alla limitata entità dei dichiarati ricavi dell’attività produttiva, così da delineare chiari indizi dell’esercizio di un’attività di mero godimento di immobili.

Da tali comuni caratteristiche delle società partecipate e dall’entità dell’evasione, il Tribunale ha tratto la conseguente valutazione che l’operazione di classificazione operata dalla FT C. avesse avuto quale unico risultato quello di fruire del regime PEX per plusvalenze realizzate con le cessioni e permute delle quote di partecipazione alla holding, rimarcando anche che l’esperienza qualificata dell’indagato nel settore dell’alta finanza rendeva non ipotizzabile che il predetto avesse posto in essere operazioni produttive di plusvalenze da milioni di euro, senza una previa accurata indagine sulle caratteristiche e condizioni economiche delle società partecipate dalla holding di cui intendeva cedere le quote, onde verificare il regime di tassazione applicabile all’ingente somma così conseguita nell’interesse della società.

I Giudici della cautela, sulla base di tali articolati rilievi, hanno ritenuto provato, ai limitati effetti cautelari, il fumus del contestato reato di cui all’art. 4 d.lgs 74/2000, escludendo che la condotta potesse rientrare nell’ambito del c.d. abuso del diritto o elusione fiscale penalmente irrilevante ex art. 10 bis, Statuto contrib.

La motivazione del Tribunale è corretta ed in linea con i principi affermati da questa Corte in subiecta materia. Va ricordato che, in tema di sequestro preventivo, la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del Tribunale del riesame o della Corte di cassazione non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi (Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Rv.215840 – 01);

non è necessario, quindi, valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato (Sez. 1, n. 18491 del 30/01/2018, Rv.273069 – 01; Sez. 1,n. 18491 del 30/01/2018, Rv.273069 – 01), con la precisazione che il Giudice deve, comunque, verificare in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l’esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la “serietà degli indizi” costituisce presupposto per l’applicazione delle misure cautelari reali (Sez.3, n.37851 del 04/06/2014, Rv.260945 Sez.5,n.3722 del 11/12/2019, dep.29/01/2020, Rv.278152 – 01).

Questa Corte, inoltre, ha affermato, in tema di violazioni finanziarie, che l’istituto dell’abuso del diritto di cui all’art. 10-bis I. 27 luglio 2000, n. 212, che, per effetto della modifica introdotta dall’art. 1 del d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude ormai la rilevanza penale delle condotte ad esso riconducibili, ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti comportamenti fraudolenti, simulatori o comunque finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa di cui al d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cosicché esso non viene mai in rilievo quando i fatti in contestazione integrino le fattispecie penali connotate da tali elementi costitutivi (Sez. 3, n. 40272 del 01/10/2015 – dep. 07/10/2015, Mocali, Rv. 264950; Sez.3, n.38016 del 21/04/2017, dep.31/07/2017, Rv.270551 – 01 Sez. 3, n.8047 del 2018, non massimata).

3. Il terzo motivo di ricorso è infondato.

Va ricordato che, in tema di sequestro preventivo, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al fumus del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, conseguendone che lo stesso giudice può rilevare anche il difetto dell’elemento soggettivo del reato, purché esso emerga ictu oculi (tra le tante: Cass., Sez. 2, n. 18331 del 22/04/2016).

Nella specie, ciò non solo non risultava palese ma, anzi, il Tribunale ha ampiamente motivato, in aderenza alle emergenze processuali, in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati: con riferimento al reato di cui all’art. 4 d.lgs di cui al capo b) ha evidenziato- quanto all’indebita fruizione del regime fiscale PEX la qualificata esperienza dell’indagato nel settore dell’alta finanza e l’ingente valore economico delle operazioni produttive di plusvalenze poste in essere (pag 25 dell’ordinanza impugnata);

in relazione altre condotte contestate al capo b) ha richiamato la qualità dell’indagato di legale rappresentate della FT CAPITAL, carica che gli consentiva di conoscere i singoli elementi passivi iscritti nel bilancio e di attivarsi per verificare l’effettiva esistenza delle spese iscritte nel bilancio; in relazione, infine, al reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000 contestato al capo a) dell’imputazione, ha richiamato le cariche formali dell’indagato, che lo ponevano in condizione di richiedere in qualsiasi momento informazione presso i professionisti incaricati dei vari adempimenti, la circolazione, di immediata percezione, di capitali mediante il calibrati uso di fatture passive estere, gli importi assai elevati delle fatture, oggetto delle fatture relativo a prestazioni di consulenza e ricerca clienti di cui avrebbe dovuto fruire in prima persona lo stesso indagati, posizioni apicali rivestite dall’indagato anche nell’ambito delle società straniere emittenti le fatture. Ne consegue l’infondatezza della doglianza

4. Il quarto motivo di ricorso è infondato.

Per la loro natura di dati di fatto aventi valore indiziario, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, ben possono essere poste a fondamento di un provvedimento cautelare reale. In proposito va ricordato, infatti, che, ai fini della applicazione della cautela reale, non occorre che il compendio indiziario si configuri come grave ai sensi dell’art. 273 cod.proc.pen., essendo sufficiente l’esistenza del “fumus delicti” in concreto (cfr. sez. 6, n. 45591 del 24.10.2013, Ferro, Rv. 257816; Sez. 3, n. 37851 del 4.6.2014, Parrelli, non mass.), dovendosi cioè verificare in modo puntuale e coerente la serietà degli elementi in base ai quali il giudice ritenga concretamente esistente il reato configurato e la conseguente possibilità di sussumere la fattispecie in quella astratta, tenendo anche conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti.

Va dunque ribadito il principio che le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sè fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000, hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale (cfr. Sez. 3 n. 2006 del 2.10.2014, dep. 16.1.2015, Scatena, Rv. 261928, fattispecie relativa a sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente del profitto del reato, nonché Sez.3, n. 36302 del 15/03/2019, Rv. 277553 – 01, secondo cui, in tema di reati tributari è legittimo, nel procedimento cautelare reale, nel quale è sufficiente l’oggettiva sussistenza del “fumus” del reato e si può prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore, il ricorso alle presunzioni tributarie.

A tanto consegue l’infondatezza della doglianza.

5. Il quinto motivo di ricorso è infondato.

Costituisce principio di diritto consolidato, che va ribadito, che, in materia di reati tributari, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente può avere ad oggetto beni inclusi in un fondo patrimoniale familiare, in quanto su di essi grava un mero vincolo di destinazione che non ne esclude la disponibilità da parte del proprietario che ve li ha conferiti. (Sez.3, n.23621 del 17/07/2020, Rv. 279824 – 01; Sez. 3, n. 40362 del 06/07/2016, Rv. 268586 – 01; Sez.3, n. 40364 del 19/09/2012, Rv.253681 – 01).

In particolate si è affermato che affermato che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, non presupponendo alcuna forma di responsabilità civile, può avere ad oggetto anche beni inclusi nel fondo patrimoniale familiare, in quanto appartenenti al soggetto che ve li ha conferiti (Sez. 3, n. 40364 del 19/09/2012, Rv. 253681, cit.). Infatti, i beni costituenti il fondo patrimoniale possono essere aggrediti dal sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, gravando sui medesimi un mero vincolo di destinazione che non attiene alla titolarità del diritto di proprietà, e quindi, al tema dell’appartenenza del bene a persona estranea al reato sicché i beni costituenti il fondo patrimoniale rimangono nella disponibilità del proprietario o dei rispettivi proprietari e possono essere sottoposti a sequestro e a confisca in conseguenza dei reati ascritti ad uno dei conferenti (Sez. 3, n. 1709 del 25/10/2012, dep. 2013, Cervone, non mass.).

Ne consegue l’infondatezza della doglianza difensiva, che, peraltro, risulta meramente assertiva e priva di confronto critico con tale orientamento consolidato.

6. Consegue, quindi, il rigetto del ricorso e, in base al disposto dell’art. 616 cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 07/04/2021

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