CASSAZIONE IVA

Omesso versamento IVA e rilevanza penale della crisi aziendale

IVA – Omesso versamento – Confisca per equivalente – Rilevanza penale – Responsabilità legale rappresentante – Situazione di crisi aziendale – Dolo generico – Congruità della pena

La Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 11247 del 2 aprile 2020 è tornata a pronunciarsi sul dibattuto tema dell’elemento psicologico nel reato di omesso versamento IVA, ex art. 10-ter, D.lgs. 74/2000, in presenza di una comprovata crisi di liquidità aziendale, per riaffermare che non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta.

La pronuncia in commento, pur confermando il rigoroso orientamento di legittimità che limita la esclusione della colpevolezza ai soli casi in cui la difesa del giudicabile riesca a provare in giudizio la assenza di responsabilità per la crisi finanziaria che ha colpito l’impresa, ha anche ritenuto che la situazione crisi in cui versa l’azienda non deve essere conseguenze di errate strategie di impresa, come l’impossibilità di adempiere al debito tributario malgrado il sacrificio del patrimonio personale.

La sentenza in commento si segnala per la completezza della motivazione in riferimento ai più significativi arresti giurisprudenziali nei quali, necessariamente, occorre dimostrare la sussistenza della scriminante forza maggiore quale fatto oggettivo in grado di elidere la presunzione di sussistenza del dolo generico.

In proposito si rappresenta che il concorde orientamento della Corte di Cassazione ha stabilito che, per la configurazione dei reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del D.lgs. 74/2000, e dell’art. 2. comma 1-bis del DL 463/1983, deve sussistere unicamente il dolo generico, che si manifesta nella cosciente e volontaria omissione del versamento di quanto dovuto per legge al Fisco.

Comunque, nel largo panorama delle pronunzie della Suprema Corte sull’argomento si ricorda, ad esempio, la n. 23796/2019, nella quale si affermava che ai fini dell’esclusione della colpevolezza per il reato di cui all’ art. 10-ter, D.lgs. n. 74/2000 punito a titolo di dolo generico, è irrilevante la crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, salva la dimostrazione che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere al versamento del tributo. Sul punto si evidenzia anche quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la Sentenza n. 6113/2016, e più specificatamente che “la prova del dolo è insita, generalmente, nella

presentazione della dichiarazione annuale dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo d’imposta e quanto deve essere versato entro il termine lungo previsto. Il debito IVA, infatti, è direttamente collegato alle operazioni imponibili compiute nel periodo di imposta”.
Alla luce del suddetto orientamento appare del tutto plausibile che i reati in oggetto sarebbero configurati anche in caso di grave crisi aziendale, anche nel caso in cui dalla stessa dovesse derivare il fallimento della società.

Come del resto risulta dalla lettura della pronunzia n. 39503/2017, con la quale gli Ermellini avevano statuito che deve essere confermata la condanna per omesso versamento di IVA se l’imputato non dimostra che la crisi finanziaria sia stata imprevedibile, repentina e che egli abbia fatto da amministratore tutto quanto nelle sue disponibilità per evitare l’omissione del versamento.

Chiarito quanto sopra sull’elemento soggettivo dei reati tributari, si vuole ricordare come è stata affrontata la tematica della crisi di liquidità dell’imprenditore da parte della giurisprudenza di legittimità.
Innanzitutto si porta all’attenzione la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la n. 37425/2013, le quali hanno stabilito che l’imputato, nei reati tributari, può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere al debito di imposta esclusivamente fornendo prova della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica, nonché dell’assoluta impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso di misure idonee da valutarsi caso per caso. L’orientamento giurisprudenziale sopra riportato ha trovato ulteriore seguito in successive pronunce della Corte di Cassazione (Cass. Sez. III, 05 dicembre 2013, n. 5467; Cass. Sez. III, 08 aprile 2014, n. 20266; Cass. Sez. III, 17 dicembre 2015, n. 49666), nelle quali è stata esclusa la rilevanza penale del mancato assolvimento dell’onere fiscale in presenza dell’assoluta impossibilità di provvedere alle esigenze dell’azienda pagando i debiti erariali, oppure fornendo una dimostrazione concreta dell’impedimento, fornendo al contempo la prova dell’impossibilità di reperire le risorse necessarie a consentire il corretto adempimento delle obbligazioni tributarie.

Tanto premesso e tornando al caso di specie, quello del legale rappresentante di Srl ritenuto responsabile del delitto di cui all’art. 10-ter, D.lgs. n. 74/2000 e condannato alla confisca per equivalente dal Tribunale per avere omesso di versare all’erario, entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale.

L’importo veniva successivamente ridotto in sede di appello, ma il legale rappresentante proseguiva in Cassazione affidando le doglianze a tre motivi e specificando che la confisca e il sequestro non avrebbero potuto aggredire l’abitazione dell’imputato, trattandosi di casa di abitazione in cui lo stesso risiedeva.

I Supremi Giudici nel complesso non hanno ritenuto valide le ragioni della difesa, affermando invece che “… Ciò premesso, con riguardo al delitto previsto dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, va osservato che nella sostituzione tributaria, il sostituto, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, allorché procede al versamento in favore di quest’ultimo, deve trattenere una percentuale dell’emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per poi versarlo all’Erario nel termine di legge. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello dell’erogazione degli emolumenti ai collaboratori: ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali erogazioni, deriva, quindi, a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria. Pertanto, la situazione di chi non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute, successivamente con l’omesso versamento secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria e, infine, con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Il legislatore ha ritenuto, dunque, di tutelare non qualsiasi tributo non versato, ma solo quelli dovuti all’erario e trattenuti dal contribuente e che, fin dall’origine, hanno un preciso vincolo di destinazione. Sotto il profilo soggettivo, va osservato che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal d.lgs. n. 74 del 2000, richiedono che il

comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà non emerge dal testo dell’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, che è punito a titolo di dolo generico, per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all’agente, di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, consapevolezza che deve investire anche la soglia di punibilità, la quale, contribuendo a definirne il disvalore, è un elemento costitutivo del fatto. Alla luce di tali premesse, non può quindi, dì regola, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013 – dep. 13/09/2013, Corliano, Rv. 257683). Ciò non significa che, in astratto, siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – in cui possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto d’imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 – dep. 15/05/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055). Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez.3, n. 43599 del 09/09/2015, dep.29/10/2015, Rv. 265262). Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi ora ricordati, evidenziando non solo che la causa della crisi, dovuta al ritardo nei pagamenti dei clienti, rientra nel normale rischio d’impresa, ma anche che non la difesa non aveva nemmeno fornito la prova che la dedotta crisi finanziaria non fosse suscettibile di essere altrimenti e tempestivamente fronteggiata, non avendo il B. né proposto alcuna soluzione per risanare la società, né adottato tutte le misure possibili per far fronte all’adempimento degli obblighi erariali, tra cui le azioni per il recupero dei crediti versi clienti, che risultavano già scaduti negli anni 2010 e 2011. Da tali elementi, la Corte territoriale ha perciò ritenuto che il ricorrente avesse deliberatamente scelto di non accantonare l’IVA incassata e di non versarla per destinare tali risorse ad altri pagamenti. Si tratta di una motivazione adeguata ed esente da illogicità manifeste e da errori di diritto e, pertanto, supera il vaglio di legittimità. Il secondo motivo è manifestamente infondato in relazione a tutti i profili dedotti. In tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice di merito è investito di un ampio potere discrezionale, che non è sottratto al controllo di legittimità, dovendo il giudice medesimo dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per la concessione o il rifiuto di concessione, con l’indicazione degli elementi reputati decisivi nella scelta compiuta, senza che sia, peraltro, necessario valutare analiticamente tutte le circostanze rilevanti, in positivo o in negativo (ex multis, cfr. Sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, Guglielmi e altri, Rv. 214570). Nel caso di specie, la Corte si è uniformata al principio ora richiamato, avendo dato rilevanza, ai fini della mancanza del presupposti applicativi delle attenuanti in esame, alla negativa personalità dell’imputato, gravato da due precedenti penali, uno per estorsione continuata – reato dichiarato estinto per svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità – e l’altro per lesioni colpose aggravate: elementi, questi, che la Corte territoriale, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, ha ritenuto di particolare pregnanza e prevalenti rispetto alle condizioni di salute del ricorrente e al parziale e pagamento del debito tributario. Va poi osservato che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; non è

perciò consentita la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. Peraltro, l’impegno motivazionale da parte del giudice è direttamente proporzionale all’entità della pena inflitta: quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio. (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008 – dep. 15/09/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189). Di conseguenza, nell’ipotesi in cui la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale di cui all’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., anche Ove adoperi espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, ovvero si richiami alla gravità del reato o alla personalità del reo (Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007 – dep. 03/09/2007, Ruggieri, Rv. 237402). Anche in tal caso, la motivazione addotta dalla Corte d’appello è immune da aporie logiche o da violazioni di legge, avendo ravvisato la congruità della pena, inflitta dal primo giudice in misura superiore al minimo edittale ma sensibilmente inferiore a quella mediana, sulla base sia del complessivo importo dell’IVA non versato, pari a 423.607, e della personalità del ricorrente, come emerge dai suoi trascorsi giudiziari. Il terzo motivo è manifestamente infondato. Va premesso che, ai sensi dell’art. 12-bis d.lgs. n 74 del 2000, nel caso di condanna per uno dei delitti contemplati dall’indicato d.lgs., è obbligatoria la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo; nel caso in esame, trattandosi di omesso versamento dell’IVA, il profitto del reato è pacificamente rappresentato dall’importo di imposta non versato, pari, appunto a 423.607 euro, di talché non è dato ravvisare alcuna duplicazione di sanzioni. Quanto agli ulteriori profili dedotti, il ricorrente non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale ha affermato come, sulla base degli atti presenti al fascicolo processuale, non risulta che sia stata data esecuzione al provvedimento di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. in data 15/09/216, ciò che comporta la manifesta infondatezza della doglianza secondo cui il sequestro sui beni dell’imputato sarebbe stato eseguito in assenza della verifica del mancato reperimento delle somme di denaro intestate alla società, la quale, peraltro, nel frattempo è fallita. La Corte territoriale, inoltre, ha appurato che nemmeno risulta sequestrato – e tantomeno confiscato – l’immobile di cui il B. è proprietario al 50% e ove egli risiederebbe; sul punto, il ricorso è del tutto assertivo e non prende posizione rispetto alle argomentazioni addotte dalla Corte d’appello, di talché il motivo, anche sotto questo profilo, appare manifestamente infondato”.

Corte di Cassazione – Sentenza 2 aprile 2020, n. 11247

Ritenuto in fatto

1. Con l’impugnata sentenza, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale di Genova e appellata dall’imputato, la Corte di appello di Genova riduceva l’importo della disposta confisca per equivalente fino alla concorrenza di 423.607 euro, nel resto confermando la pronuncia di primo grado, che aveva condannato G.B. alla pena di giustizia perché responsabile del delitto di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, a lui contestato per avere omesso di versare all’erario, nella sua qualità di legale rappresentante della G. TRANS srl., entro il termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo, l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale relativa al 2012, pari a complessivi 509.635,04 euro.

2. Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, per mezzo del difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
2.1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta responsabilità dell’imputato. Assume il ricorrente che la Corte territoriale avrebbe contraddittoriamente, per un verso, accertato la situazione di crisi aziendale – causata principalmente da mancati incassi di crediti, dall’aumento dei costi, dalla crisi generale del settore – e, per altro verso, escluso che detta situazione costituisca un’assoluta impossibilità ad adempiere; sarebbe, del resto, illogico sostenere che occorre prima pagare l’IVA e poi i fornitori e dipendenti, perché ciò comporterebbe l’immediata cessazione dell’attività produttiva e conseguentemente l’impossibilità di pagare l’imposta. In ogni caso, non sussisterebbe il dolo, essendo accertato che la società non disponeva della liquidità necessaria per pagare l’IVA, di talché il ricorrente non effettuò una scelta “libera”.

2.2. Con il secondo motivo si eccepisce la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione alla ritenuta responsabilità dell’imputato e al complessivo trattamento sanzionatone.
Evidenzia il ricorrente che la teste R. ha dichiarato che l’ammontare dell’imposta non versata ammontava a 432.607 euro, essendo stato pagato l’importo di 45.988 euro, ciò che avrebbe dovuto comportare una riduzione della pena. La motivazione sarebbe inoltre illogica laddove ha negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non avendo la Corte territoriale considerato né la situazione di difficoltà finanziaria e i tentativi dell’imputato di porvi rimedio, né il precario stato di salute del B.

2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. in ordine alla confisca. Assume il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe dovuto disporre la confisca, pena la duplicazione della sanzione penale, e perché il sequestro sui beni dell’imputato è stato eseguito in violazione del decreto di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. in 15/09/2016, non risultando che la mancata capienza dei beni della società. In ogni caso, la confisca e il sequestro non potrebbero aggredire l’abitazione dell’imputato, trattandosi di casa di abitazione in cui risiede il B.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
3. In premessa, va evidenziato che si è in presenza di una “doppia conforme” statuizione di responsabilità, il che limita all’evidenza i poteri di rinnovata valutazione della Corte di legittimità, nel senso che, ai limiti conseguenti all’impossibilità per la Cassazione di procedere ad una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di cassazione il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori, si aggiunge l’ulteriore limite in forza del quale neppure potrebbe evocarsi il tema del “travisamento della prova”, a meno che (ma non è questo il caso, alla luce dei motivi di ricorso) il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale.
4. Ciò premesso, con riguardo al delitto previsto dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, va osservato che nella sostituzione tributaria, il sostituto, quale debitore di una somma costituente reddito per il sostituito, allorché procede al versamento in favore di quest’ultimo, deve trattenere una percentuale dell’emolumento (c.d. ritenuta alla fonte) per poi versarlo all’Erario nel termine di legge. Il debito verso il fisco relativo al versamento delle ritenute è collegato con quello dell’erogazione degli emolumenti ai collaboratori: ogni qualvolta il sostituto d’imposta effettua tali erogazioni, deriva, quindi, a suo carico l’obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all’obbligazione tributaria.

Pertanto, la situazione di chi non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute, successivamente con l’omesso versamento secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria e, infine, con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale.

Il legislatore ha ritenuto, dunque, di tutelare non qualsiasi tributo non versato, ma solo quelli dovuti all’erario e trattenuti dal contribuente e che, fin dall’origine, hanno un preciso vincolo di destinazione.
5. Sotto il profilo soggettivo, va osservato che, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal d.lgs. n. 74 del 2000, richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, questa specifica direzione della volontà non emerge dal testo dell’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, che è punito a titolo di dolo generico, per la cui integrazione è, perciò, sufficiente la consapevolezza, in capo all’agente, di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato, consapevolezza che deve investire anche la soglia di punibilità, la quale, contribuendo a definirne il disvalore, è un elemento costitutivo del fatto.

6. Alla luce di tali premesse, non può quindi, dì regola, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta (Sez. 3, n. 37528 del 12/06/2013 – dep. 13/09/2013, Corliano, Rv. 257683).

Ciò non significa che, in astratto, siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito e, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – in cui possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere l’obbligazione tributaria.
È tuttavia necessario che siano assolti precisi oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, devono investire non solo l’aspetto circa la non imputabilità al sostituto d’imposta della crisi economica, che improvvisamente avrebbe interessato l’impresa, ma anche che detta crisi non possa essere stata adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014 – dep. 15/05/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055).

Occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez.3, n. 43599 del 09/09/2015, dep.29/10/2015, Rv. 265262).

7. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi ora ricordati, evidenziando non solo che la causa della crisi, dovuta al ritardo nei pagamenti dei clienti, rientra nel normale rischio d’impresa, ma anche che non la difesa non aveva nemmeno fornito la prova che la dedotta crisi finanziaria non fosse suscettibile di essere altrimenti e tempestivamente fronteggiata, non avendo il B. né proposto alcuna soluzione per risanare la società, né adottato tutte le misure possibili per far fronte all’adempimento degli obblighi erariali, tra cui le azioni per il recupero dei crediti versi clienti, che risultavano già scaduti negli anni 2010 e 2011. Da tali elementi, la Corte territoriale ha perciò ritenuto che il ricorrente avesse deliberatamente scelto di non accantonare l’IVA incassata e di non versarla per destinare tali risorse ad altri pagamenti.

Si tratta di una motivazione adeguata ed esente da illogicità manifeste e da errori di diritto e, pertanto, supera il vaglio di legittimità.
8. Il secondo motivo è manifestamente infondato in relazione a tutti i profili dedotti.
8.1. In tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice di merito è investito di un ampio potere discrezionale, che non è sottratto al controllo di legittimità, dovendo il giudice medesimo dare conto delle precise ragioni e dei criteri utilizzati per la concessione o il rifiuto di concessione, con l’indicazione degli elementi reputati decisivi nella scelta compiuta, senza che sia, peraltro, necessario valutare analiticamente tutte le circostanze rilevanti, in positivo o in negativo (ex multis, cfr. Sez. 1, n. 12496 del 21/09/1999, Guglielmi e altri, Rv. 214570).

Nel caso di specie, la Corte si è uniformata al principio ora richiamato, avendo dato rilevanza, ai fini della mancanza del presupposti applicativi delle attenuanti in esame, alla negativa personalità dell’imputato, gravato da due precedenti penali, uno per estorsione continuata – reato dichiarato estinto per svolgimento positivo del lavoro di pubblica utilità – e l’altro per lesioni colpose aggravate: elementi, questi, che la Corte

territoriale, con apprezzamento fattuale logicamente motivato, ha ritenuto di particolare pregnanza e prevalenti rispetto alle condizioni di salute del ricorrente e al parziale e pagamento del debito tributario.
8.2. Va poi osservato che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; non è perciò consentita la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione. Peraltro, l’impegno motivazionale da parte del giudice è direttamente proporzionale all’entità della pena inflitta: quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio. (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008 – dep. 15/09/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189). Di conseguenza, nell’ipotesi in cui la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera all’obbligo motivazionale di cui all’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., anche Ove adoperi espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, ovvero si richiami alla gravità del reato o alla personalità del reo (Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007 – dep. 03/09/2007, Ruggieri, Rv. 237402).

Anche in tal caso, la motivazione addotta dalla Corte d’appello è immune da aporie logiche o da violazioni di legge, avendo ravvisato la congruità della pena, inflitta dal primo giudice in misura superiore al minimo edittale ma sensibilmente inferiore a quella mediana, sulla base sia del complessivo importo dell’IVA non versato, pari a 423.607, e della personalità del ricorrente, come emerge dai suoi trascorsi giudiziari.

9. Il terzo motivo è manifestamente infondato.
9.1. Va premesso che, ai sensi dell’art. 12-bis d.lgs. n 74 del 2000, nel caso di condanna per uno dei delitti contemplati dall’indicato d.lgs., è obbligatoria la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo; nel caso in esame, trattandosi di omesso versamento dell’IVA, il profitto del reato è pacificamente rappresentato dall’importo di imposta non versato, pari, appunto a 423.607 euro, di talché non è dato ravvisare alcuna duplicazione di sanzioni.
9.2. Quanto agli ulteriori profili dedotti, il ricorrente non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, laddove la Corte territoriale ha affermato come, sulla base degli atti presenti al fascicolo processuale, non risulta che sia stata data esecuzione al provvedimento di sequestro preventivo emesso dal g.i.p. in data 15/09/216, ciò che comporta la manifesta infondatezza della doglianza secondo cui il sequestro sui beni dell’imputato sarebbe stato eseguito in assenza della verifica del mancato reperimento delle somme di denaro intestate alla società, la quale, peraltro, nel frattempo è fallita.
La Corte territoriale, inoltre, ha appurato che nemmeno risulta sequestrato – e tantomeno confiscato – l’immobile di cui il B. è proprietario al 50% e ove egli risiederebbe; sul punto, il ricorso è del tutto assertivo e non prende posizione rispetto alle argomentazioni addotte dalla Corte d’appello, di talché il motivo, anche sotto questo profilo, appare manifestamente infondato.
10. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13/06/2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 13/12/2019

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