CASSAZIONE

I guanti “usa e getta” tradiscono l’odontoiatra

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 4168 del 21 febbraio 2018, ha precisato che il dato relativo all’utilizzo del materiale di consumo da parte di un dentista rappresenta un elemento legittimamente utilizzabile per la ricostruzione presuntiva dei ricavi.

Cosa succede se il professionista usa una quantità notevole di materiali di consumo, insolita rispetto al volume d’affari denunciato al Fisco? Può essere oggetto di un accertamento delle Entrate che in base alla logica e alla comune esperienza, possono ragionevole ritenere che a determinati consumi corrisponda un certo numero di prestazioni, con possibilità quindi di calcolo dei ricavi presunti. Nel caso in esame un medico odontoiatra titolare di due studi professionali e che esercitava la professione da oltre venti anni presentava un inconsueto uso di materiali di consumo, si vedeva notificato un avviso di accertamento per IRPEF e IRAP, relativo all’anno 2015, fondato sulla ricostruzione analitico-induttiva dei ricavi.

L’Agenzia delle Entrate aveva accertato maggiori redditi basandosi sulla quantità dei materiali “usa e getta” utilizzati dal professionista, che lasciava ragionevolmente presupporre un numero di prestazioni superiore a quelle effettivamente fatturate. L’accertamento era basato dalla quantità sproporzionata del materiale “usa e getta” che, secondo l’Ufficio, era utilizzato per l’espletamento delle prestazioni professionali per cure e interventi odontoiatrici nell’anno in esame, che potevano giustificare una attività “in nero”.

E’ noto che la metodologia di controllo predisposta dall’Agenzia per i laboratori odontotecnici ricorda che i controlli sono finalizzati alla ricostruzione anche in via presuntiva dell’effettiva dimensione dell’attività economica oggetto del controllo, e del reale volume d’affari prodotto. Quest’ultima tipologia di controllo trova legittimazione nell’articolo 62-sexies, comma 3, del Dl 331/1993, convertito dalla legge 427/1993, in base al quale la rettifica delle dichiarazioni può essere fondata sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e condizioni di esercizio della specifica attività svolta o dagli studi di settore. Nella procedura di ricostruzione citata i controlli si traducono in operazioni di stima della potenzialità produttiva dell’attività economica oggetto di controllo, idonee da un lato a smentire l’entità del giro d’affari risultante dalle scritture contabili e, dall’altro, a pervenire alla quantificazione del volume d’affari più verosimile in relazione alle effettive caratteristiche dell’attività svolta.

Va sottolineato, in questo caso, che la contabilità del contribuente era tenuta in modo regolare e lo studio di settore risultava coerente: l’avviso di accertamento era basato sul numero di guanti acquistati dall’odontoiatra necessari per l’attività del medico, secondo il quale il quantitativo era stato determinato dall’ufficio in modo del tutto arbitrario.

Il contribuente proponeva ricorso, che però veniva respinto in primo grado.

La decisione della CTP era poi confermata in appello, dove i giudici avevano ritenuto legittima la presunzione utilizzata dall’ufficio basata su elementi gravi, precisi e concordanti, attesa la forte discrepanza tra l’entità del materiale utilizzato, indicativo degli interventi effettuati, e i ricavi indicati in dichiarazione.

La sentenza della CTR veniva dunque impugnata, lamentando l’illegittima applicazione del metodo analitico-induttivo usato dai verificatore, stante la regolare tenuta della contabilità del contribuente e l’utilizzo di un solo dato per la ricostruzione dei ricavi, costituito dal numero dei guanti impiegati, senza nemmeno valutare che il contribuente risultava congruo e coerente agli studi di settore.

La S.C. ha però rigettato il ricorso del medico ritenendo invece valide le motivazioni alla base della sentenza impugnata e affermando inoltre che: “ … Secondo l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, gli studi di settore costituiscono, come si evince dall’art. 62-sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella I. 29 ottobre 1993, n. 427, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva – in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile – il reddito reale del contribuente. Siffatto accertamento, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro – nella specie operato alla stregua degli elementi presuntivi suesposti – di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, essendo le stesse di per sé suscettibili di evidenziare che la stessa presenta caratteristiche di stranezza, di singolarità e di contrasto con elementari regole economiche, tali da renderlo immediatamente percepibile come inattendibile secondo a comune esperienza. (cfr., ex multis, Cass. sez. 5, 24.9.2014, n. 20060).E non può revocarsi in dubbio che le anomalie riscontrate nel caso concreto, in sede di verifiche fossero, di per sé, tali da giustificare il ricorso all’accertamento induttivo, mediante gli indici suindicati, a prescindere delle risultanze degli specifici studi di settore. Ciò posto, va rimarcato che fra gli elementi presentivi semplici utilizzabili ai fini accertativi, purché gravi, precisi e concordanti, rientrano senza dubbio, quelli relativi all’impiego di materiale di consumo, ove indicativi di rilevanti incongruenze tra costi e ricavi e, quindi, di attività non dichiarate o di passività dichiarate, secondo canoni di ragionevole probabilità (cfr. Cass. sez. 5, 23.7.2010 n. 17408; Cass. sez. 5, 15.12.2006, n. 26919; Cass. sez. 5, 24.11.2006, n. 25001 Cass. sez. 5, 8.7.2002, n. 9884). In particolare, questa Corte ha affermato che «Ai fini della ricostruzione del reddito, l’Ufficio può procedere ad accertamento di tipo analitico – induttivo, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973. n. 600, con la verifica del consumo dei guanti monouso utilizzati dal contribuente per la sua attività di odontoiatra, dal momento che esiste una correlazione tra il materiale di consumo utilizzato e gli interventi sui pazienti». (Cass. sez. 5, 5.6.2008, n. 14879). Così delineato il quadro normativo ed ermeneutico di riferimento, deve osservarsi che il nucleo essenziale delle doglianze formulate dal contribuente concerne il dato di base sul quale si fonda l’accertamento, costituito dall’entità del materiale “usa e getta” che l’Ufficio ritiene essere stato utilizzato nell’espletamento delle prestazioni professionali per cure ed interventi odontoiatrici nell’arco del 2005: più precisamente, il ricorrente ritiene che l’accertamento del quantitativo di tale materiale, ed in special modo dei guanti, sia stato determinato in modo arbitrario, in quanto non terrebbe conto di tutta una serie di elementi evidenziai nei propri atti dal contribuente stesso. Tanto basta per escludere la sussistenza del vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., posto che esso consiste (cfr. Cass. sez. 1, 11 agosto 2004, n. 15499) nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie formativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa”.

CORTE DI CASSAZIONE Ordinanza 21 febbraio 2018, n. 4168

Sul ricorso 22285-2011 proposto da: B. G., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO D’AYALA VALVA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato REMO DOMINICI;

– ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

nonché contro DIREZIONE PROVINCIALE DI GENOVA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 6/2011 della COMM.TRIB.REG. di GENOVA, depositata il 10/03/2011; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2017 dal Consigliere Dott. PAOLO BERNAZZANI.

Fatti di causa

G.B. propone ricorso nei confronti dell’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Liguria n. 6/6/2011, pronunciata il 17.11.10 e depositata il 10.3.11, con la quale è stato rigettato l’appello dallo stesso proposto ed è stata, conseguentemente, confermata la legittimità dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del predetto contribuente, medico odontoiatra, per IRPEF ed IRAP relative all’anno 2005.

Con i due motivi di ricorso formulati, il contribuente censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 19 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., e per omessa o insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.

Resiste l’A.d.E. con controricorso.

Ragioni della decisione

  1. Il primo motivo di ricorso, concernente violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 19 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., è infondato.

I giudici di appello hanno affermato la legittimità del contestato accertamento, ravvisando la ricorrenza, nella specie, dei presupposti legittimanti l’accertamento analitico – induttivo di cui alla norma citata, ritenendo, altresì, la correttezza delle valutazioni presuntive poste dall’Ufficio a suo fondamento.

In tale prospettiva, la sentenza impugnata ha individuato il presupposto legittimante l’accertamento operato dall’Ufficio nella circostanza, ragionevolmente sintomatica dell’esistenza di attività non dichiarate, rappresentata dall’avere il contribuente evidenziato una forte discrepanza tra l’entità del materiale di consumo utilizzato nell’esercizio della propria attività professionale di odontoiatra indicativo di un correlativo numero di interventi sui pazienti – ed i ricavi indicati nella dichiarazione sottoposta a rettifica, tenuto conto anche del fatto che il ricorrente esercita la predetta attività dal 1980 ed è titolare di due studi nella città di Genova.

Hanno, dunque, considerato i giudici del gravame che, ai fini dell’accertamento, l’Ufficio aveva legittimamente e coerentemente ricostruito il maggior reddito sulla base della quantità dei materiali “usa e getta” normalmente utilizzati nell’esecuzione delle singole prestazioni odontoiatriche (guanti bicchieri, aspira saliva e tovaglioli) così come risultanti dalla documentazione esaminata e, tenuto conto delle normali dispersioni, aveva, quindi, correttamente proceduto alla determinazione dei correlativi ricavi avuto, altresì, puntuale riguardo alle diverse tipologie di prestazioni eseguite (quantificate in via percentuale anche sulla base delle indicazioni del contribuente) e dei valori medi risultanti dalle tariffe A.n.c.i. per l’anno di riferimento.

  1. Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto esperibile un accertamento analitico – induttivo ex d.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), in base a presunzioni, pur in presenza di contabilità regolarmente tenuta, mentre, in tale ipotesi, sarebbe consentito procedere alla rettifica del dichiarato solo sulla base delle risultanze delle scritture contabili; lo stesso ha riconosciuto, peraltro, che, ai sensi della disposizione sopra richiamata l’accertamento può comunque essere condotto anche in base a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

Sotto tale profilo, sostiene il ricorrente che, confermando l’accertamento dei maggiori ricavi, la Commissione avrebbe violato la citata norma, avendo utilizzato a fini probatori presunzioni fondate non su una pluralità di elementi dotati dei requisiti di assoluta certezza, concretezza, gravità, precisione e concordanza, ma su un unico dato incerto e ricostruito in modo arbitrario, costituito da numero di guanti impiegati, sulla cui base ed a mezzo di presunzioni a catena si è pervenuti al risultato finale, omettendo anche di valutare gli elementi di segno opposto dal contribuente dedotti.

  1. Ciò posto, va osservato che l’accertamento con metodo analitico induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali ancorché di rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39, comma 1 lett. d) dal d.P.R. n. 600/1973 pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacché la disposizione presuppone, appunto, l’esistenza scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della competenza e fedeltà della contabilità esaminata (cfr., ex multis, Cass. sez. 5, 24.9.2014, n. 20050; Cass. sez. 5, 15.6.2011, n. 13068), come si verifica qualora le contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto configgente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo della antieconomicità del comportamento del contribuente. In tali casi, pertanto, l’Ufficio è legittimato a desumere, sulla base delle predette presunzioni, maggiori ricavi o minori costi con conseguente spostamento dell’onere della prove a carico del contribuente (cfr. Cass. sez. 5, 18.5.2012, n. 7871; Cass. sez. 6, ord. 30.12.2015, n. 26036).
  2. Nella medesima ottica, non può neppure condividersi l’ulteriore assunto del ricorrente, secondo cui l’accertamento induttivo operato nel caso di specie sarebbe inficiato, nella sua valenza sostanziale, dalla conformità dei ricavi dichiarati agli studi di settore in materia, dei quali l’Ufficio non avrebbe tenuto alcun conto.

Secondo l’orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, gli studi di settore costituiscono, come si evince dall’art. 62-sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito nella I. 29 ottobre 1993, n. 427, solo uno degli strumenti utilizzabili dall’Amministrazione finanziaria per accertare in via induttiva – in presenza di una contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile – il reddito reale del contribuente. Siffatto accertamento, infatti, ben può essere condotto anche sulla base del riscontro – nella specie operato alla stregua degli elementi presuntivi suesposti – di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, essendo le stesse di per sé suscettibili di evidenziare che la stessa presenta caratteristiche di stranezza, di singolarità e di contrasto con elementari regole economiche, tali da renderlo immediatamente percepibile come inattendibile secondo a comune esperienza. (cfr., ex multis, Cass. sez. 5, 24.9.2014, n. 20060).

E non può revocarsi in dubbio che le anomalie riscontrate nel caso concreto, in sede di verifiche fossero, di per sé, tali da giustificare il ricorso all’accertamento induttivo, mediante gli indici suindicati, a prescindere delle risultanze degli specifici studi di settore.

  1. Ciò posto, va rimarcato che fra gli elementi presentivi semplici utilizzabili ai fini accertativi, purché gravi, precisi e concordanti, rientrano senza dubbio, quelli relativi all’impiego di materiale di consumo, ove indicativi di rilevanti incongruenze tra costi e ricavi e, quindi, di attività non dichiarate o di passività dichiarate, secondo canoni di ragionevole probabilità (cfr. Cass. sez. 5, 23.7.2010 n. 17408; Cass. sez. 5, 15.12.2006, n. 26919; Cass. sez. 5, 24.11.2006, n. 25001 Cass. sez. 5, 8.7.2002, n. 9884). In particolare, questa Corte ha affermato che «Ai fini della ricostruzione del reddito, l’Ufficio può procedere ad accertamento di tipo analitico – induttivo, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973. n. 600, con la verifica del consumo dei guanti monouso utilizzati dal contribuente per la sua attività di odontoiatra, dal momento che esiste una correlazione tra il materiale di consumo utilizzato e gli interventi sui pazienti». (Cass. sez. 5, 5.6.2008, n. 14879).
  2. Così delineato il quadro normativo ed ermeneutico di riferimento, deve osservarsi che il nucleo essenziale delle doglianze formulate dal contribuente concerne il dato di base sul quale si fonda l’accertamento, costituito dall’entità del materiale “usa e getta” che l’Ufficio ritiene essere stato utilizzato nell’espletamento delle prestazioni professionali per cure ed interventi odontoiatrici nell’arco del 2005: più precisamente, il ricorrente ritiene che l’accertamento del quantitativo di tale materiale, ed in special modo dei guanti, sia stato determinato in modo arbitrario, in quanto non terrebbe conto di tutta una serie di elementi evidenziai nei propri atti dal contribuente stesso.

Tanto basta per escludere la sussistenza del vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., posto che esso consiste (cfr. Cass. sez. 1, 11 agosto 2004, n. 15499) nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi (violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie formativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta) è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa.

E tale è proprio il caso di specie, nel quale le censure formulate dal ricorrente sono, piuttosto, riconducibili in via astratta al vizio di insufficiente motivazione di cui in appresso.

  1. Anche il secondo motivo di ricorso, concernente il vizio di omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., risulta infondato.

Richiamate le premesse argomentative sopra illustrate, va rilavato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio di insufficiente motivazione ove il giudice non indichi gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento, ovvero il criterio logico e la ratio decidendi che lo ha guidato. Il giudice deve delineare il percorso logico seguito, descrivendo il legame tra gli elementi interni determinanti che conducono necessariamente ed esclusivamente alla decisione adottata; mentre deve escludere attraverso adeguata critica, la rilevanza di ogni elemento esterno al percorso logico seguito di natura materiale, logica o processuale, ed astrattamente idoneo a delineare conseguenze divergenti dall’adottata decisione (cfr. Cass. Sez. L, 12.12.1997, n. 11198).

Ciò posto, va necessariamente aggiunto che, nella prova per presunzioni la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.

Da tali premesse consegue che, nella specie, la sentenza impugnata risulta essersi conformata ai descritti criteri nel concludere per la legittimità dell’accertamento in esame, costituendo dato assolutamente normale e corrispondente a canoni di ragionevole probabilità quello secondo cui, per ciascuna prestazione odontoiatrica, si adoperi tendenzialmente una certa quantità di materiale di consumo, onde tale elemento rappresenta un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero delle prestazioni effettuate ed i relativi ricavi.

Sul punto, la decisione valorizza in modo congruo e non censurabile sotto il profilo logico-formale l’attendibilità del calcolo del numero dei guanti (1215) utilizzati dal dott. B., sulla base degli acquisti complessivi effettua nel 2005, da cui sono stati detratti i guanti, di misura più piccola, impiegati dall’assistente del medico, ed un’ulteriore percentuale del 10% pari ai presunti scarti, nonché la coerenza di tale dato con gli acquisti degli altri prodotti in particolare, 1000 tovaglioli; 1250 aspira saliva), onde determinare in pari numero le prestazioni odontoiatriche effettuate nel 2005 ed i correlativi ricavi, avuto puntuale riguardo alle diverse tipologie di prestazioni eseguite ed a la loro il incidenza percentuale, anche sulla base delle indicazioni del contribuente, e con riferimento ai valori medi risultanti dalle tariffe A.n.d.i. per l’anno di accertamento.

In tale prospettiva, le doglianze del ricorrente concernono una gamma di elementi (ad esempio, il non aver considerato che il numero dei guanti utilizzati per ogni tipologia di prestazioni sarebbe superiore ad uno, secondo la “comune esperienza”; la contestazione del fatto, che la CTR ha presupposto, che tutto il materiale di consumo indicato fosse stato utilizzate nel corso dell’anno oggetto di accertamento; la coerenza dei dati afferenti l’acquisto dei guanti con quello degli altri prodotti) che attengono propriamente alle valutazioni relative al merito della controversia, come tali non sono rivalutabile in questa sede.

Il ricorso per cassazione, invero, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale avendo questo «solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge». (Cass. sez. 5, 16/12/2011, n. 27197).

Da ciò consegue che è del tutto estranea a l’ambito de vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa, non potendo il motivo di ricorso risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito. Il motivo, pertanto, va respinto in quanto, nella sostanza, diretto a rimettere in discussione la decisione di merito sotto il profilo della valutazione di fatto operata; il che non integra il denunciato vizio, in quanto la motivazione risulta coerentemente e conseguentemente sviluppata rispetto alle premesse fattuali e oggetto di considerazione da parte del giudice di merito.

Il ricorso deve essere, conclusivamente rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi Euro 5.500,00 oltre spese precitate a debito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

 

 

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