CASSAZIONE FISCALITA LAVORO SENTENZE

Società fra professionisti: l’applicazione della ritenuta va valutata caso per caso

Tributi – Società tra avvocati – Compensi – Reddito d’impresa – Reddito di lavoro autonomo – Applicazione ritenuta d’acconto – Legittimità

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7407 del 17 marzo 2021, intervenendo in tema di qualificazione del reddito prodotto da società tra

professionisti ha dovuto confermare l’applicabilità della ritenuta a titolo d’acconto, come richiesto dall’Agenzia delle entrate, sui compensi corrisposti a una società tra professionisti, poiché non è stata prodotta alcuna prova dell’attività svolta in maniera imprenditoriale. Pertanto si configura il reddito d’impresa solo quando sia provato che l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale. Solo in tali ipotesi, da accertarsi caso per caso, i compensi devono ritenersi esclusi dall’applicazione della ritenuta d’acconto: in caso contrario, la ritenuta deve essere operata.

Da notare che la Cassazione interviene così per la prima volta a colmare un vuoto sulla normativa relativa agli studi legali, reputando giusta la ritenuta d’acconto sulle attività stragiudiziali anche se i professionisti hanno costituito una società di capitali.In buona sostanza la Corte ha ritenuto che la società tra professionisti a responsabilità limitata produce reddito da lavoro autonomo e non reddito d’impresa, e sui compensi va quindiapplicata la ritenuta dacconto.

Più in generale è noto che il meccanismo della ritenuta d’acconto rientra nel più generale fenomeno della “sostituzione d’imposta”, una cui definizione è rinvenibile nell’art. 64, DPR 600/1973. In base a tale norma, è sostituto d’imposta “chi in forza di disposizioni di legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri, per fatti o situazioni a questi riferibili ed anche a titolo di acconto”.

La questione odierna però riguardava, fondamentalmente, la qualificazione del reddito prodotto dalle società tra professionisti, e in particolare se costituisca reddito d’impresa o di lavoro autonomo.

La Corte Suprema ha osservato che l’assenza di una espressa previsione normativa che qualifichi la natura, ai fini fiscali, del reddito prodotto dalle società tra professionisti, rende necessaria un’attività ermeneutica che, tuttavia, conduce a esiti diametralmente opposti, a seconda che si scelga di privilegiare il presupposto soggettivo o quello oggettivo, che ha riguardo, invece, ai caratteri dell’attività svolta da tali società.

Tale conclusione, che si discosta completamente dalle precedenti interpretazioni, ha richiesto un’analisi delle singole fattispecie che ha reso ancora più complessa e di difficile applicazione questa particolare disciplina.

Merito ai Supremi Giudici di aver francamente messo sotto esame il quadro generale di riferimento, che è risultato particolarmente confuso, probabilmente per una sovrapproduzione regolamentare fatta nel tempo dagli uffici finanziari, che oggi risulta sovente imperfetta e  contraddittoria, e come riportato dalla stessa Corte: “… che si riflette in un affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate”. La situazione di fatto obbliga di volta in volta a operazioni interpretative che spesso hanno esiti difformi.

Gli Ermellini hanno effettuato dunque, nella citata sentenza, un minuzioso esame delle prassi applicative dell’Amministrazione finanziaria, risalendo fino alla risoluzione 118/E/2003 con la quale fu qualificato come reddito di lavoro autonomo quello prodotto dalle società tra avvocati di cui agli articoli 16 e ss. D.lgs. 96/2001. Contestualmente viene posto l’accento sulle conclusioni, diametralmente opposte, in cui era giunta la stessa Agenzia con la successiva risoluzione 56/E/2006, che aveva qualificato come reddito d’impresa quello prodotto dalle società di ingegneria.

In conclusione è possibile ritenere che per il Fisco, stando agli orientamenti della prassi amministrativa, ai fini della qualificazione del reddito prodotto dalle società tra professionisti non assume alcuna rilevanza l’elemento oggettivo dello svolgimento di un’attività professionale, risultando viceversa predominante l’elemento soggettivo, cioè il fatto di operare in una veste giuridica societaria tipica del codice civile.

Di conseguenza, a dette società si applicherebbero le previsioni di cui agli articoli 6, comma 3, e 81 del TUIR, per effetto delle quali il reddito delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché delle società e degli enti commerciali di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 73 del TUIR, è considerato reddito d’impresa da qualsiasi fonte provenga il reddito dalle stesse prodotto.

Queste conclusioni trovarono conferma non solo nel parere del 18/10/2014 reso su sollecitazione dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, ma anche nell’ambito della risoluzione 35/E/2018, con riferimento alle società tra avvocati costituite ai sensi della L. 247/2012, nonché in altri numerosi documenti di prassi citati nella sentenza in esame.

Alla luce dell’analisi condotta la Corte di Cassazione ricorda quindi che, per quanto le circolari dell’Agenzia delle entrate “… non costituiscano fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da essere alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate”, le loro risultanze costituiscono un dato che non può essere ignorato. In buona sostanza gli Ermellini hanno ritenuto che è possibile raffigurare il reddito d’impresa solo quando sia provato che l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale.

La controversia trae origine dal decreto ingiuntivo con il quale lo studio legale operante nella forma di società tra professionisti, costituito come S.r.l., ingiungeva al proprio cliente il pagamento (rimborso) della somma trattenuta da quest’ultimo a titolo di ritenuta d’acconto sui compensi pagati.

Lo studio legale, pertanto, chiedeva e otteneva il decreto ingiuntivo richiamando, tra l’altro, le circolari dell’Agenzia delle entrate che qualificavano gli importi fatturati come reddito d’impresa e non come redditi di lavoro autonomo.

La società cliente proponeva però opposizione al decreto ingiuntivo, risultando vittoriosa.

La questione giungeva dinanzi alla Corte di Cassazione, che ponendo l’accento sulla grave lacuna normativa che caratterizza la disciplina delle società tra professionisti, ha poi concluso che: “…Orbene, per quanto “le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscano fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da esse alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate” (cfr., “ex multis”, Cass. Sez. 5, sent. 30 settembre 2009, n. 20819, Rv. 658996-02), le loro risultanze costituiscono un dato che, in questa sede, non può essere ignorato, e con il quale confrontarsi. Nondimeno, reputa questa Corte – secondo quanto si accennava in premessa – che la risoluzione della questione in esame debba ricercarsi, sulla scorta dell’impostazione dottrina sopra ricordata, prendendo atto sia dell’esistenza di attività caratterizzate, contestualmente, “da personalità della prestazione ed impersonalità della società”, sia della “tendenza alla «commistione» di categorie da sempre considerate
distinte”. Con la conseguenza, quindi, che la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, “capace di spersonalizzare l’attività svolta” – come osservato in dottrina – e “di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista”.  Siffatta impostazione muove dalla premessa  secondo cui, in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (ovvero, di primo grado), e ciò in quanto, ponendosi quella di cui al codice civile come normativa generale, che  normalmente “cede il passo alla normativa fiscale «speciale» che disciplina un determinato aspetto dell’istituto nell’ambito di una imposta, o di gruppo di imposte”, in assenza di quest’ultima è la prima che ritorna ad essere direttamente applicabile. In questa prospettiva, la norma chiave è costituita dall’art. 2238 cod. civ., la quale, se in linea generale nega – ancorché in modo indiretto – la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti, stabilisce, nel contempo, che a tali attività intellettuali e artistiche si applichino le disposizioni dettate in relazione all’impresa commerciale, allorché le prestazioni professionali costituiscono elemento di una attività organizzata in forma  d’impresa. In sostanza, quando l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il professionista – secondo questa impostazione dottrinaria, che questa Corte reputa di fare propria – acquista la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.  In altri termini, perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della personalità (art. 2232 cod. civ.), presupponendo quel profilo di autonoma organizzazione di cui agli artt. 2082 e 2238 cod. civ. D’altra parte, proprio l’elemento della organizzazione è il medesimo che consente di qualificare come produttivo di reddito d’impresa la prestazione di servizi, visto che ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 546, l’esigibilità dell’imposta regionale sulle attività produttive presuppone l’esercizio abituale di un’attività “autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”. Un riscontro di tali assunti è, del resto, offerto dalla sentenza 21 maggio 2001, n. 156, della Corte Costituzionale. Essa, nel ribadire che l’IRAP colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, ha anche affermato che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”. Così confermando che, “in presenza di svolgimento di attività professionale di lavoro autonomo”, ai fini della qualificazione del reddito dalla stessa prodotto, “occorre verificare se questa venga svolta in presenza o assenza di organizzazione”. Autonoma verifica, viceversa, non necessaria per l’attività “tout court” di impresa, visto che l’elemento dell’organizzazione ha carattere costitutivo delle nozioni di imprenditore e di azienda, poiché l’art. 2082 cod. civ. definisce l’imprenditore come colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi; mentre, l’art. 2555 cod. civ. definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa. In conclusione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della debenza dell’IRAP da parte dei liberi professionisti, da escludersi “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione”, risultando, in tal caso, “mancante il presupposto stesso” della pretesa impositiva (così, tra le prime, Cass. Sez. 5, sent. 2 aprile 2007, n. 8172, non massimata, in senso analogo, tra le più recenti, Cass. Sez. 5, ord. 2 aprile 2020, n. 7652, Rv. 657537-01), anche ai fini dell’applicazione della ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come reddito di impresa, del reddito dalle stesse prodotte, presuppone che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il capitale concorrano entrambi nella produzione del reddito, sicché quest’ultimo non potrà ritenersi derivante dal – solo lavoro, ma dall’intera struttura imprenditoriale. Nondimeno, proprio alla stregua di tale impostazione, deve pervenirsi al rigetto del ricorso, in difetto di dimostrazione della sussistenza di un’attività diversa e ulteriore, nel caso in esame, rispetto a quella professionale, che permetta di qualificare il reddito della società, nelle cui forme è costituito lo studio professionale odierno ricorrente, come reddito di impresa.Il Tribunale di Locri, infatti, a prescindere da ogni altra considerazione pure presente nella decisione adottata, è pervenuta al rigetto del gravame, sul presupposto della impossibilità di qualificare il
reddito dello studio professionale come di impresa, “non essendo stata fornita la prova da parte degli appellanti anche mediante la produzione dì visure societarie, del capitale investito e dell’attività in concreto esercitata per l’appunto in forma societaria e il suo estrinsecarsi diversamente rispetto all’attività esercitata da una associazione tra professionisti”. Tanto basta, dunque, per ritenere che sia stato compiuto – e con esito negativo – l’accertamento sopra indicato, ovvero se l’esercizio della professione costituisca, o meno, elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza del carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale”
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Corte di Cassazione – Sentenza 17 marzo 2021, n. 7407

sul ricorso 30416-2018 proposto da:

STUDIO LEGALE MS & PARTNERS STP RL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIUSEPPE MAZZINI, 73 SC. A, presso Io studio dell’Avvocato GRAZIANO RONDINELLI, rappresentato e difeso dall’Avvocato FRANCESCO MAIDA;

– ricorrente –

contro 

C. I. A. SPA, elettivamente 2052 domiciliata in ROMA, VIA MONTE ASOLONE 8, presso lo studio degli Avvocati MILENA e FABIOLA LIUZZI, che lo rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 832/2018 del TRIBUNALE di LOCRI, depositata il 11/06/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RITA SANLORENZO, che ha concluso per l’accoglimento dei ricorso;

udito altresì l’avvocato FABIOLA LIUZZI, che ha concluso per il rigetto.

Fatti di causa

1. Lo Studio Legale M.S. & Partners S.t.p.r.l. (d’ora in poi, “studio legale”) ricorre, sulla base di un unico
motivo, per la cassazione della sentenza n. 832/18, dell’11 giugno 2018, del Tribunale di Locri, che – respingendo il gravame da esso esperito avverso la Sentenza n. 124/17, del 18 febbraio 2017, dei Giudice di pace di Locri – ha confermato l’accoglimento dell’opposizione ex art. 645 cod. proc. civ., proposta dalla
società C.I. Assicurazioni S.p.a. (d’ora in poi, “C.I.”) avverso il provvedimento monitorio che le ingiungeva il pagamento, in favore dello studio legale, dell’importo di € 508,90, dalla prima trattenuto a titolo di ritenuta
d’acconto sulla maggior somma di € 3.626,97, corrisposta all’odierno ricorrente a titolo di onorario per la composizione bonaria di una controversia, pendente innanzi ad altra autorità giudiziaria.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver richiesto ed  ottenuto il summenzionato decreto ingiuntivo sul presupposto che la società C.I. avesse indebitamente operato la ritenuta d’acconto, non applicabile nel caso di specie, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con circolari dell’8 maggio e 16 ottobre 2014, essendo lo studio legale costituito nella forma della società di capitali e, dunque, dovendo considerarsi, per “attrazione”, quale reddito di impresa la somma dovutagli come onorario per l’avvenuta transazione.

Proposta, come detto, opposizione al decreto ingiuntivo dalla società C.I., lo stesso veniva accolto dal primo giudice, con decisione confermata da quello di appello, che rigettava il gravame esperito dall’odierno ricorrente, sul rilievo che al reddito prodotto dallo studio legale, ancorché lo stesso fosse costituito in forma societaria, si applichi la disciplina di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, recante “Testo Unico delle Imposte sui Redditi”.

3. Avverso la sentenza del Tribunale locrese ricorre per cassazione lo studio legale, sulla base – come detto – di un unico motivo.

3.1. Esso – proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 5, comma 3, 6, comma 53, 73 e 81 del suddetto d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917
(cd. “TUIR”), nonché dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Assume il ricorrente che la sentenza impugnata sarebbe incorsa in un vizio di sussunzione, che si profilerebbe “in relazione a due aspetti fondamentali”. La decisione, infatti, è censurata innanzitutto
nella parte in cui afferma che i redditi prodotti dalle s.r.l. tra professionisti rientrano, al pari di quanto previsto per le associazioni di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del TUIR, tra quelli di lavoro autonomo, ai
sensi del successivo art. 53, comma 1, del medesimo testo unico. La censura investe la sentenza, in particolare, nella parte in cui afferma che il lavoro autonomo si caratterizza per l’assenza di subordinazione, per la professionalità, l’abitualità e la non imprenditorialità, nel senso che “prevale l’aspetto personale rispetto al capitale”, di talché, nella specie, “la sola costituzione in forma societaria non dimostra il requisito
della imprenditorialità”, non essendo stata fornita la prova “del capitale investito e della attività in concreto esercitata per l’appunto in forma societaria”.

Errato sarebbe, poi, il riferimento all’art. 28 (in realtà, 27) del disegno di legge “Semplificazioni fiscali in materia societaria”, secondo cui alle società tra professionisti costituite per l’esercizio di attività professionali si applica il regime fiscale delle associazioni senza personalità giuridica, e ciò in quanto – sottolinea il ricorrente – il suddetto disegno di legge venne stralciato dal Parlamento, sicché la presente decisione si fonda su una norma inesistente.

Il Tribunale di Locri, inoltre, non ha considerato la disciplina generale degli artt. 73 e 81 del TUIR, dal momento che il secondo di tali articoli prevede che “i! reddito complessivo delle società degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 73, da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito di impresa”, mentre l’art.73, a propria volta, prescrive essere soggetti all’imposta sul reddito delle società “le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui ai regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato”.

Quanto, poi, all’attuale disciplina in materia di società tra professionisti, essa è recata dall’art. 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183, dal regolamento di attuazione emanato con decreto del Ministro della giustizia dell’8 febbraio 2013, n. 34, normativa che consente di costituire società, anche di capitale, tra professionisti, per l’esercizio di attività professionali regolamentate in un sistema ordinistico.

Per completezza, poi, il ricorrente segnala la nota del 19 dicembre 2017, n. 43619, della Direzione della legislazione tributaria e  federalismo fiscale del Dipartimento delle Finanze, secondo cui la società a
responsabilità limitata, costituita per lo svolgimento di attività forense, deve adottare il regime fiscale previsto per la società di capitali e deve assoggettare il proprio reddito ad IRES e il valore della produzione ad IRAP, giacché, in assenza di un’esplicita norma, “l’esercizio della professione forense svolta in forma societaria costituisce attività di impresa, in quanto risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria, piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale”.

Di analogo tenore è anche la risoluzione n. 35 del 7 maggio 2018 dell’Agenzia delle Entrate Errata, dunque, sarebbe stata la scelta del Tribunale di non tenere conto di tali circolari, motivata con loro natura dì atti interni, dal momento che con la disapplicazione delle stesse esso ha finito col porsi contro il dato
normativo. Quanto, poi, al secondo profilo, il ricorrente denuncia la mancata applicazione dell’art. 25 del d.P.R. n. 600 del 1973, secondo cui la ritenuta d’acconto non deve essere operata “per prestazioni effettuate nell’esercizio di imprese”.

4. Ha resistito la società C. I., con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità, ovvero, in subordine, di infondatezza. Quanto all’inammissibilità, essa è dedotta sul rilievo che, nella specie, più che un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, sarebbe stata dedotta l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, non idonea ad integrare il cd. “vizio di sussunzione”. In relazione, invece, al merito della censura, la controricorrente ritiene non condivisibile l’affermazione secondo cui l’ordinamento farebbe discendere, automaticamente, l’inquadramento del reddito come di impresa dalla semplice circostanza che sia stato prodotto in forma societaria. Sul punto, osserva, infatti, come le società tra avvocati, costituite ai sensi del d.lgs. 2 febbraio 2011, n. 96, malgrado la forma societaria non siano per ciò solo annoverabili tra le società commerciali, come anche precisato dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 31 marzo 2008, n. 118/E, dalla quale emerge, piuttosto, l’esigenza di valorizzare la prestazione professionale dei soci, sottolineandosi, inoltre, come il rinvio alle disposizioni che regolano il modello societario operi solo a fini civilistici, mentre a fini fiscali, per ragioni di coerenza del sistema impositivo, occorre dare risalto al reale contenuto professionale dell’attività svolta. D’altra parte, a sostegno della natura non imprenditoriale delle società tra professionisti, rileva anche la ritenuta non assoggettabilità delle stesse al fallimento.

5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, ex art. 378 cod. proc. civ., insistendo nelle proprie argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

Ragioni della decisione

6. Il ricorso va rigettato, per le ragioni di seguito precisate.

6.1. Nell’affrontare la questione oggetto dell’unico motivo di ricorso, occorre muovere da una duplice premessa.

Per un verso, infatti, va sottolineato come l’assenza di una espressa previsione normativa, che qualifichi la natura, ai fini fiscali, del reddito prodotto dalle società tra professionisti renda necessaria un’attività ermeneutica che, tuttavia, conduce ad esiti diametralmente opposti, a seconda che si scelga di privilegiare il presupposto soggettivo (vale a dire, la natura del soggetto che produce il reddito), ovvero quello oggettivo, che ha riguardo, invece, ai caratteri dell’attività svolta da tali società. Per altro verso, poi, deve sottolinearsi quello che è stato definito, in dottrina, come “un affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate”, e ciò proprio in ragione di questa “alternatività” di Angoli visuali dai quali affrontare la questione, sicché le posizioni “(quantomeno) ondivaghe” assunte – almeno inizialmente – dall’Amministrazione finanziaria, non hanno certo favorito lo scioglimento dei dubbi interpretativi.

Di qui, allora, la necessità – come si dirà più avanti – di una soluzione ermeneutica che, sulla scorta dei rilievi svolti dalla già indicata dottrina, superi lo stallo “determinato dall’inazione dei nostro legislatore”, ravvisando la soluzione nelle norme civilistiche, ed in particolare nell’art. 2238 cod. civ.

6.2. Per addivenire a tale esito, tuttavia, occorre procedere per ordine.

6.2.1. Come sopra premesso, la “dualità” di soluzioni ipotizzabili in relazione alla questione in esame dipende dal punto di vista da cui si muova. Invero, in un’ottica puramente “soggettiva”, siccome le società tra professionisti possono essere costituite secondo i modelli regolati dai Titoli V e VI del Libro V del codice
civile, dunque, anche nella forma delle società commerciali, il loro reddito, ai fini delle imposte relative, dovrebbe essere qualificato come di impresa. Invero, ai fini fiscali, le società in nome collettivo e in accomandita semplice (art. 6, comma 3, del Testo Unico delle imposte sui redditi – di seguito, “TUIR” – approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n.) generano redditi di impresa a prescindere dalla fonte
reddituale e dall’oggetto sociale, così come il reddito complessivo delle società e degli enti commerciali di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 73 del TUIR è sempre considerato reddito di impresa (art. 81,  comma 1, del medesimo Testo Unico) e determinato secondo le rispettive disposizioni. Tuttavia, sul piano oggettivo, il medesimo reddito andrebbe più correttamente qualificato come da lavoro autonomo.

Infatti, ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 12 novembre 2011, n. 183, le società tra professionisti sono espressamente costituite per l’esercizio di attività professionali regolamentate all’interno del sistema ordinistico. Inoltre, la qualifica di società tra professionisti può essere assunta unicamente da quelle
il cui atto costitutivo preveda l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci. Tale attività, ai sensi di quanto disposto dall’art. 53 del TUIR, genera, però, redditi di lavoro autonomo.  La discrasia tra natura commerciale del tipo societario eventualmente utilizzato e la natura
eminentemente professionale dell’attività svolta – discrasia che, peraltro, era ignota ai codice civile del 1865, nel quale, infatti, era presente una Sezione II, intitolata “Delle società particolari”, che all’art. 1706 legittimava espressamente l’esercizio in forma societaria della professione intellettuale – determina una situazione antinomica, che non ha trovato soluzione a livello normativo, anche in ragione della coesistenza di norme, persino all’interno di una stessa fonte legislativa (è il caso degli artt. 53, da un lato, e 73 e 81, dall’altro, del TUIR), che legittimano interpretazioni diverse.

6.2.2. Non è quindi un caso se analoghe incertezze interpretative si siano manifestate anche sul piano delle prassi applicative dell’amministrazione finanziaria. Invero, l’Agenzia delle Entrate, con la risoluzione
28 maggio 2003, n. 118/E, non sembrava nutrire dubbi sul fatto che, per le società tra avvocati di cui agli articoli 16 e ss. del d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 (le quali, ove non diversamente disposto, sono disciplinate dalle norme che regolano la società in nome collettivo), il reddito prodotto dovesse
intendersi come reddito di lavoro autonomo.

La citata risoluzione traeva spunto dalla relazione governativa al decreto legislativo “de quo”, la quale, dopo aver sottolineato in più occasioni il carattere professionale della società, afferma, altresì, che il richiamo alle norme sulla società in nome collettivo “non implica la qualificazione della società tra avvocati come società commerciale” e che l’esclusione della società in oggetto dal fallimento “conferma la specificità del tipo e la natura non commerciale dell’attività svolta”.

Impostazione che si indicava come coerente con le disposizioni dell’art. 2238 cod. civ., il quale nega, anche se in modo indiretto, la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti.

Sul punto si è, peraltro, osservato che lo “strumento societario non può comunque vanificare i requisiti della personalità e della professionalità del soggetto esercente”, volendosi esprimere, con tale affermazione, che l’attività di assistenza legale svolta nella forma societaria mantiene lo stesso contenuto che ne caratterizza l’esercizio in forma individuale. Il rinvio alle disposizioni in materia di società in nome collettivo opererebbe, pertanto, secondo la citata risoluzione, ai soli fini civilistici, in quanto consente di determinare le regole di funzionamento del modello organizzativo, mentre ai fini fiscali, per ragioni di coerenza del
sistema impositivo, occorrerebbe dare risalto al reale contenuto professionale dell’attività svolta.

In base a queste considerazioni, la risoluzione n. 118/E del 2003 ha concluso che i redditi prodotti dalla  società tra avvocati costituiscono redditi di lavoro autonomo, ai quali si applica la disciplina dettata per le associazioni senza personalità giuridica, costituite tra persone fisiche per l’esercizio, in forma comune, di arti e professioni, di cui all’art. 5, comma 3, lett. c), del TUIR.

Di diverso avviso, però, l’Agenzia delle Entrate si è mostrata per le società di ingegneria, visto che la risoluzione 4 maggio 2006, n. 56/E, dopo aver ribadito che dette società si costituiscono in forma di società di capitali e hanno come oggetto sociale l’esecuzione di studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnico economica o studi di impatto ambientale, ha affermato che nella qualificazione del reddito prodotto da dette società non assume alcuna rilevanza il presupposto oggettivo, essendo viceversa determinante il solo presupposto soggettivo. È stato, pertanto, ritenuto che la natura del reddito prodotto da dette società, sulla base del richiamato art. 81 del TUIR, rientri nella categoria del reddito di impresa per il solo fatto di essere realizzato da un soggetto costituito sotto forma di società di capitali.

Provando a trasporre siffatte conclusioni alle società tra professionisti, va osservato che le due fattispecie non sono perfettamente sovrapponibili. Infatti, sebbene entrambe svolgano un’attività professionale, nella società tra professionisti detta attività deve essere svolta in via esclusiva. Inoltre, esse possono essere costituite non solo come società di capitali ma anche sotto forma di società di persone, risultando, infine, soggette al regime disciplinare dell’ordine al quale risultano iscritte. La presenza di queste caratteristiche peculiari non consente, dunque, di estendere in via immediata alle società fra professionisti le conclusioni
raggiunte dalla prassi amministrativa con riferimento alle società di ingegneria. Nondimeno, l’Agenzia delle Entrate, rispondendo ad un interpello relativo proprio ad una società tra professionisti operante nelle
forme di una società a responsabilità limitata (si trattava, per l’esattezza, dì una società costituita per svolgere le attività di dottore commercialista, esperto contabile, revisore legale e consulente del lavoro), si è pronunciata, 1’8 maggio 2014, ribadendo che, ai fini dell’individuazione del regime fiscale, occorre dare rilevanza alla veste giuridica societaria con la quale il soggetto agisce, mentre non verrebbe in considerazione l’esercizio dell’attività professionale. Peraltro, il quesito era finalizzato ad ottenere chiarimenti in merito alla tipologia del reddito prodotto, alla sua determinazione nell’ambito dell’imposizione diretta e dell’IRAP, nonché all’eventuale assoggettamento dei compensi a ritenuta di acconto e del reddito a contribuzione previdenziale. Successivamente, su sollecitazione dello stesso Ordine dei dottori Commercialisti e degli esperti Contabili, l’Agenzia delle Entrate, con parere reso il 18 ottobre 2014, ha ribadito tale tesi, riaffermando che “dette società professionali non costituiscono un genere autonomo con causa propria ma appartengono alle società tipiche disciplinate dai Titoli V e VI del Libro V del codice civile e, pertanto, sono soggette integralmente alla disciplina legale del modello societario prescelto, salve le deroghe e le integrazioni previste dalla disciplina speciale contenuta nella legge n. 183 del 2011 e dal regolamento attuativo” e che “non assume alcuna rilevanza l’esercizio dell’attività professionale, risultando a tal fine determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria”.

Orbene, siffatta qualificazione del reddito delle società tra professionisti come reddito di impresa, è stata successivamente ribadita dall’Agenzia delle Entrate anche con riferimento alle società tra avvocati costituite ai sensi della legge 31 dicembre 2012, n. 247, come modificata dalla legge 4 agosto 2017, n. 124, che   consente l’esercizio della professione forense in forma societaria a società di persone, di capitali o
cooperative iscritte in apposita sezione dell’albo tenuto dall’ordine territoriale di riferimento.

Per tali società, la risoluzione 7 maggio 2018, n. 35/E ha, difatti, precisato che risulta prevalente la veste giuridica assunta secondo le forme tipiche del codice civile, piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale, con conseguente riconducibilità del reddito prodotto nella categoria dei redditi di impresa. La diversa soluzione adottata nella risoluzione n. 118 del 2003 per le società tra avvocati di cui al D.Igs. n. 96
del 2001 rimarrebbe, però, valida, ad avviso dell’Agenzia, considerata l’autonoma disciplina dì queste ultime società. L’interpretazione espressa nella risoluzione n. 35/E del 2018 era già stata adottata dalla Direzione legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle finanze che, a seguito di una richiesta di parere della stessa Agenzia, aveva fornito risposta, con nota del 19 dicembre 2017, n. 43619, in cui si evidenziava che per tali società, in mancanza di deroghe normative espresse, “sembra difficile valorizzare l’elemento oggettivo della professione forense esercitata a discapito dell’elemento soggettivo dello schermo societario”.

6.2.3. Ciò premesso, poiché il ricorrente, nel lamentare il dedotto vizio di sussunzione, censura anche il richiamo operato dalla sentenza impugnata ad una norma indicata, correttamente, come inesistente (nella specie, un articolo di un disegno di legge mai approvato), reputa questa Corte utile svolgere alcune considerazioni proprio su tale d.d.l., recante “misure di  semplificazione degli adempimenti per í cittadini e le imprese e di riordino normativo”, presentato al Senato il 23 luglio 2013 (A.S. 958), il quale aveva tentato di introdurre una specifica disciplina sul punto. In particolare, l’art. 27, comma 4, del citato disegno di legge prevedeva che “alle società costituite ai sensi dell’articolo 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183, indipendentemente dalla forma giuridica”, si applicasse, “anche ai finì dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, il regime fiscale delle associazioni senza personalità giuridica costituite tra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni di cui all’articolo 5, comma 3, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917”. Riconoscendo, dunque, alle società tra
professionisti il medesimo trattamento fiscale riservato alle associazioni professionali, il reddito da queste prodotto veniva, pertanto, qualificato come reddito di lavoro autonomo e attribuito per trasparenza ai soci; con l’unica eccezione di quei soci non professionisti che, avendo assunto – per altro verso – la qualifica di imprenditori, avessero considerato la partecipazione detenuta nella società tra i beni relativi all’impresa esercitata. In quest’ultimo caso, l’utile attribuito per trasparenza dalla società si sarebbe configurato, infatti, come un provento che, rinvenendo da un bene relativo all’impresa, restava irrimediabilmente attratto alla formazione del reddito di impresa, unitamente agli altri componenti positivi e negativi afferenti ai beni e alle
attività relative all’impresa stessa.

Tale disciplina non ha, però, trovato codificazione normativa, avendo il Governo successivamente rinunciato alla sua approvazione, su richiesta formulata in sede di parere delle Commissioni parlamentari (si tratta, esattamente, del parere rilasciato dalla Commissione Finanze della Camera dei deputati, il 7 agosto 2014, sull’art. 11 del decreto “Semplificazioni fiscali”), in quanto la medesima avrebbe reso “estremamente difficile” la possibilità di adottare questa tipologia di società. Secondo il citato parere, siffatto intervento non avrebbe costituito, infatti, una semplificazione per le società tra professionisti costituite come società di capitali o società cooperative, le quali avrebbero dovuto tenere una duplice contabilità e redigere un doppio bilancio: uno civilistico, basato sul principio di competenza economica, e uno fiscale, ispirato al criterio di cassa.

6.2.4. Da segnalare, infine, per completare questo quadro sull’evoluzione conosciuta dalle prassi interpretative dell’amministrazione finanziaria, due recenti risposte dell’Agenzia delle Entrate ad altrettanti interpelli, sempre in ordine alla corretta qualificazione del reddito prodotto dalle STP: la risposta del 12 dicembre 2018, n. 107 e quella del 27 dicembre 2018, n. 128. Nella prima risposta, essa, richiamando espressamente la soluzione interpretativa adottata per le società tra avvocati con la risoluzione 7 maggio 2018, n. 35/E, ha affermato che le società costituite nelle forme di società commerciali producono un reddito che, ai sensi di quanto disposto dagli articoli 6, comma 3 e 81 del TUIR, va qualificato come reddito d’impresa. L’Agenzia, tuttavia, ha precisato che “va da sé che per le prestazioni effettuate dalla S.a.s. nell’esercizio d’impresa non deve essere operata alcuna ritenuta sulla base di quanto disposto dall’articolo 25, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973”. Analoghe conclusioni sono state rassegnate nella risposta a interpello del 27 dicembre 2018, n. 128, nella quale l’Agenzia ha ulteriormente specificato che “sul piano fiscale, le società tra professionisti, costituite per l’esercizio di attività professionali per le quali è prevista l’iscrizione in appositi albi o elenchi regolamentati nel sistema ordinistico, producono reddito d’impresa in quanto non costituiscono un genere autonomo, appartenendo alle società tipiche disciplinate dal codice civile e, conseguentemente, sono soggette alla disciplina legale del modello societario prescelto, salvo deroghe o integrazioni espressamente
previste”. In sostanza, stando agli orientamenti della prassi amministrativa, ai fini della qualificazione del reddito prodotto dalle società tra professionisti, non assume alcuna rilevanza l’elemento oggettivo dello svolgimento di un’attività professionale, risultando viceversa predominante l’elemento soggettivo, cioè il fatto di operare in una veste giuridica societaria tipica del codice civile. Di conseguenza, a dette società si applicherebbero le previsioni di cui agli articoli 6, comma 3, e 81 del TUIR, per effetto delle quali il reddito delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché delle società e degli enti commerciali di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 73 del TUIR, è considerato reddito d’impresa da qualsiasi fonte provenga il reddito dalle stesse prodotto.

6.3. Orbene, per quanto “le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscano fonte di diritti ed
obblighi, non discendendo da esse alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate
” (cfr., “ex multis”, Cass. Sez. 5, sent. 30 settembre 2009, n. 20819, Rv. 658996-02), le loro risultanze costituiscono un dato che, in questa sede, non può essere ignorato, e con il quale confrontarsi.

Nondimeno, reputa questa Corte – secondo quanto si accennava in premessa – che la risoluzione della questione in esame debba ricercarsi, sulla scorta dell’impostazione dottrina sopra ricordata, prendendo
atto sia dell’esistenza di attività caratterizzate, contestualmente, “da personalità della prestazione ed impersonalità della società”, sia della “tendenza alla «commistione» di categorie da sempre considerate
distinte”. Con la conseguenza, quindi, che la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla
presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, “capace di spersonalizzare l’attività svolta” – come osservato in dottrina – e
“di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista”.

6.3.1. Siffatta impostazione muove dalla premessa  secondo cui, in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (ovvero, di primo grado), e ciò in quanto, ponendosi quella di cui al codice civile come normativa generale, che  normalmente “cede il passo alla normativa fiscale «speciale» che disciplina un determinato aspetto dell’istituto nell’ambito di una imposta, o di gruppo di imposte”, in assenza di quest’ultima è la prima che ritorna ad essere direttamente applicabile. In questa prospettiva, la norma chiave è costituita dall’art. 2238
cod. civ., la quale, se in linea generale nega – ancorché in modo indiretto – la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti, stabilisce, nel contempo, che a tali attività intellettuali e
artistiche si applichino le disposizioni dettate in relazione all’impresa commerciale, allorché le prestazioni professionali costituiscono elemento di una attività organizzata in forma  d’impresa. In sostanza, quando l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il professionista – secondo questa impostazione dottrinaria, che questa Corte reputa di fare propria – acquista la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.  In altri termini, perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della personalità (art. 2232 cod. civ.), presupponendo quel profilo di autonoma organizzazione di cui agli artt. 2082 e 2238 cod. civ.

D’altra parte, proprio l’elemento della organizzazione è il medesimo che consente di qualificare come produttivo di reddito d’impresa la prestazione di servizi, visto che ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 546, l’esigibilità dell’imposta regionale sulle attività produttive presuppone l’esercizio abituale di un’attività “autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”.

6.3.2. Un riscontro di tali assunti è, del resto, offerto dalla sentenza 21 maggio 2001, n. 156, della Corte Costituzionale.

Essa, nel ribadire che l’IRAP colpisce il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, ha anche affermato che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”. Così confermando che, “in presenza di svolgimento di attività professionale di lavoro autonomo”, ai fini della qualificazione del reddito dalla stessa prodotto, “occorre verificare se questa venga svolta in presenza o assenza di organizzazione”. Autonoma verifica, viceversa, non necessaria per
l’attività “tout court” di impresa, visto che l’elemento dell’organizzazione ha carattere costitutivo delle nozioni di imprenditore e di azienda, poiché l’art. 2082 cod. civ. definisce l’imprenditore come colui che
esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi; mentre, l’art. 2555 cod. civ. definisce l’azienda come il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa.

In conclusione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della debenza dell’IRAP da parte dei liberi professionisti, da escludersi “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione”, risultando, in tal caso, “mancante il presupposto stesso” della pretesa impositiva (così, tra le prime, Cass. Sez. 5, sent. 2 aprile 2007, n. 8172, non massimata, in senso analogo, tra le più recenti, Cass. Sez. 5, ord. 2 aprile 2020, n. 7652, Rv. 657537-01), anche ai fini dell’applicazione della ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come reddito di impresa, del reddito dalle
stesse prodotte, presuppone che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il capitale concorrano entrambi nella produzione
del reddito, sicché quest’ultimo non potrà ritenersi derivante dal – solo lavoro, ma dall’intera struttura imprenditoriale.

6.4. Nondimeno, proprio alla stregua di tale impostazione, deve pervenirsi al rigetto del ricorso, in difetto di
dimostrazione della sussistenza di un’attività diversa e ulteriore, nel caso in esame, rispetto a quella professionale, che permetta di qualificare il reddito della società, nelle cui forme è costituito lo studio professionale odierno ricorrente, come reddito di impresa.

Il Tribunale di Locri, infatti, a prescindere da ogni altra considerazione pure presente nella decisione adottata, è pervenuta al rigetto del gravame, sul presupposto della impossibilità di qualificare il
reddito dello studio professionale come di impresa, “non essendo stata fornita la prova da parte degli appellanti anche mediante la produzione dì visure societarie, del capitale investito e dell’attività in concreto
esercitata per l’appunto in forma societaria e il suo estrinsecarsi diversamente rispetto all’attività esercitata da una associazione tra professionisti”. Tanto basta, dunque, per ritenere che sia stato
compiuto – e con esito negativo – l’accertamento sopra indicato, ovvero se l’esercizio della professione costituisca, o meno, elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, con prevalenza del carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale.

7. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno integralmente compensate tra le parti ai sensi dell’art. 92, comma 1, cod. proc. civ., nel testo modificato dall’art. 13, comma 1, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162 (ed applicabile “ratione temporis” al presente giudizio, essendo stata l’opposizione ex art. 645 cod. proc. civ. proposta avverso
decreto ingiuntivo emesso il 29 marzo 2016).

L’assenza, infatti, di precedenti specifici, nella giurisprudenza di questa Corte, sulla questione oggetto del presente ricorso integra l’ipotesi della “assoluta novità della questione trattata”, idonea ad integrare giusto motivo di compensazione, ai sensi della norma sopra richiamata.

8. A carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per
il versamento da parte del ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, 1’11 novembre 2020.

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