CASSAZIONE

Sequestro preventivo giustificato con lo spesometro e con il mod.770

Reati tributari – IVA – Omessa dichiarazione –Accertamento –  Sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta o per equivalente – Limiti e condizioni – Spesometro – Mod. 770

La Corte di Cassazione, con la sentenza 36302 del 21 agosto 2019, intervenendo sul tema della configurabilità del reato di omessa dichiarazione, ha stabilito che lo strumento fiscale c.d. “spesometro integrato” e  il modello 770 sono sufficienti a far scattare il sequestro preventivo per omessa dichiarazione a carico della società.

Viene impropriamente chiamato spesometro una delle comunicazioni che i soggetti passivi IVA devono presentare ogni anno all’Agenzia delle Entrate e che ha lo scopo di limitare l’evasione fiscale. Introdotto con l’art. 21 del Dl 78/2010, prevedeva l’obbligo di comunicare solo le operazioni con importo maggiore di 3.600 euro (lordo IVA), se documentate da documento fiscale (scontrino o ricevuta), e 3.000 euro se soggette all’obbligo di fatturazione. A partire dal 2013 è ufficialmente denominato “comunicazione polivalente”, poiché il tracciato record da inviare all’Agenzia è stato unificato ad altre dichiarazioni. Infine, la trasmissione delle Comunicazioni Dati Fatture emesse e ricevute deve essere trasmessa telematicamente dal soggetto IVA entro le scadenze previste con le specifiche introdotte dall’art. 4 del Dl 193/2016; l’art. 1-ter del Dl 148/2017 ha inserito successive semplificazioni.

Ricordiamo brevemente anche che, nello specifico, il reato di omessa dichiarazione tutela il bene giuridico patrimoniale della percezione del tributo, ed è alla mancata percezione d’imposta, derivante dall’omessa presentazione di una delle dichiarazioni relative a dette imposte, che deve farsi riferimento per l’individuazione del profitto del reato, quando sia stata superata la soglia di punibilità prevista dalla fattispecie incriminatrice.

Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie hanno solitamente un valore sufficiente per disporre la misura cautelare reale: il fisco accerta l’imposta evasa con il metodo analitico-induttivo quando la società non produce scritture contabili e né l’indagato deposita i documenti che possano giustificare le fatture relative ai costi disconosciuti. La questione sottesa all’argomento è peraltro nota e viene sostanzialmente incentrata sul problematico rapporto, da sempre stridente, fra processo penale e accertamento (presuntivo) tributario. La vexata quaestio è stata ampiamente affrontata dalla giurisprudenza di legittimità, che è giunta a individuare due diversi regimi di efficacia delle presunzioni fiscali, a seconda che queste ultime incidano direttamente sul merito del procedimento o vengano invece a rilevare in sede cautelare.

Brevemente: è possibile riassumere che l’orientamento espresso dalla Suprema Corte (ex multis citiamo la pronunzia n. 44562 del 5/10/2018) è nella scia di chi ritiene che le presunzioni tributarie non sono automaticamente operanti nel giudizio penale di merito in quanto “gli accertamenti della guardia di finanza si fondano su un accertamento di esclusiva matrice tributaria, durante il quale la prova della responsabilità tributaria del soggetto si forma al termine di un processo esclusivamente presuntivo, in considerazione della circostanza che laddove il soggetto sottoposto a verifica non offra la prova contraria rispetto alla contestazione, si forma, a contrario, la prova della infrazione della normativa tributaria”.

La questione, ampia e con significativi risvolti pratici ha dato adito, sin dall’origine del “dualismo” fra sanzione tributaria e sanzione penale, a numerosi quanto spesso incoerenti soluzioni di “chiusura” dell’ordinamento giuridico, a partire dal tema della c.d. “pregiudizialità” tributaria, fino a giungere alla riflessione più ricca di significati che dovrebbe scaturire dall’attuale filone giurisprudenziale e che, in buona sostanza, ritiene l’assoluta insufficienza, nell’accertamento della responsabilità penale del contribuente-imputato, delle presunzioni legali tributarie quali elementi di prova del fatto di reato oltre ogni ragionevole dubbio di cui all’art. 533 c.p.p., inteso non solo quale regola di giudizio ma come regola probatoria effettiva.

Anche la recente riforma dei c.d. reati tributari, ad opera del D.lgs. 158/2015, del resto, pare aver confermato l’attuale sistema del “doppio binario” sanzionatorio. Sul punto, infatti, come già evidenziato da autorevoli voci della dottrina, “Il legislatore italiano non ha rinunciato al bis in idem sanzionatorio (rappresentato dalla comminatoria di sanzioni penali e amministrative), ma – sulla scia della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens – ha riscritto il sistema sanzionatorio amministrativo, così da riaffermare che le sanzioni amministrative tributarie non rappresentano affatto un deficit di tutela degli interessi finanziari UE, ma un diverso modo di sanzionare peraltro chiaramente consentito da Direttive comunitarie”. (v. Cass., Sez. V, sent. 16 luglio 2018, dep. 10 ottobre 2018, n. 45829).

In definitiva, le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur potendo avere valore indiziario, “non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato, assumendo esclusivamente il valore di dati di fatto, che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro che diano certezza dell’esistenza della condotta criminosa” (Cass., sez. III, 23 marzo 2013, n. 7078).

In altri termini, ai fini della prova del reato il giudice penale “può fare legittimamente ricorso agli accertamenti condotti dalla Guardia di finanza o dall’ufficio finanziario, anche ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, ma a condizione che detti elementi, quando determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori, e, siccome dette presunzioni hanno il valore di un indizio, esse, per assurgere a dignità di prova, devono trovare oggettivo riscontro o in distinti elementi di prova ovvero in altre presunzioni, purché siano gravi, precise e concordanti” (Cass., sez. III, 23 giugno 2015, n. 30890).

Tanto premesso e tornando al caso in esame, i supremi Giudici hanno respinto le tesi difensive  dell’imprenditore, legale rappresentante della società, a cui si imputa un’evasione fiscale di oltre 210mila euro, tenendo conto che gli agenti del fisco hanno accertato l’imposta evasa con il metodo analitico-induttivo poiché  sia la società, che non aveva prodotto scritture contabili, né l’indagato ha depositato quei documenti che potevano giustificare le fatture relative ai costi disconosciuti. Inoltre, dall’analisi del modello 770 e dello spesometro integrato, emergeva che nell’anno preso a riferimento l’azienda aveva 12 dipendenti ed emetteva 72 fatture di vendita.

Tutto ciò ha reso agevoli le operazioni  atte alla determinazione dell’imponibile IRES e IVA.

Tanto è bastato agli Ermellini per rigettare il ricorso.

La S.C. ha infine voluto anche ricordare che “… I1 diritto penale tributario non fornisce l’armamentario necessario a reprimere la violazione degli obblighi tributari altrove disciplinati.  Non v’è dubbio che il comune oggetto di tutela sia il dovere di concorrere alle spese pubbliche, previsto dall’art. 53, Cost. quale specifica articolazione del più generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2, Cost., ma tale tutela non viene penalmente perseguita in modo indiretto, sanzionando puramente e semplicemente gli obblighi tributari altrove disciplinati nell’an, nel quomodo e nel quando. Al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la rieducazione dell’autore della lesione del bene giuridico protetto, che costituisce lo scopo essenziale della sanzione penale (art. 27, Cost.). La funzione della pena, l’inviolabilità della libertà personale che viene in gioco, la ineliminabile valorizzazione degli elementi soggettivi della condotta che innervano e danno sostanza alla natura esclusivamente personale della responsabilità penale e alla funzione rieducativa della pena, impongono una lettura “autonoma” delle norme penali tributarie, secondo i canoni interpretativi che l’inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono (i soli “casi e modi previsti dalla legge” – scilicet penale – entrata in vigore prima del fatto commesso). Il disvalore espresso dalla condotta penalmente sanzionata, dunque, deve essere individuato esclusivamente all’interno della norma che la descrive che deve essere a sua volta applicata in conformità ai principi di stretta legalità, tassatività e determinatezza che governano l’interpretazione della legge penale, rifuggendo pertanto dalle sempre possibili suggestioni che il comune oggetto della materia trattata può comportare e che possono determinare il rischio sia di non ammesse interpretazioni analogiche che di scorciatoie probatorie volte ad attrarre nella fattispecie penale la pura e semplice constatazione dell’inadempimento dell’obbligo tributario che la norma stessa non ritiene sufficiente ai fini della punibilità dell’autore. La presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale. Gli elementi normativi della fattispecie sono parte integrante di una norma che ha ad oggetto, come detto, i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza.  La violazione dell’obbligo di presentare una delle dichiarazioni annuali non esaurisce l’indagine penale perché, come correttamente ricordato dal ricorrente, è necessario accertare anche che ne sia derivata un’evasione effettiva di imposta superiore alla soglia indicata dall’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000.  Ai fini del d.lgs. n. 74 del 2000 per «imposta evasa» si intende «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine» (art. 1, lett. f). Per l’accertamento dell’an e del quantum dell’imposta “dovuta” è giocoforza necessario far riferimento alla legislazione fiscale che si avvale, in buona misura, di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In questa delicata operazione ricostruttiva, di natura squisitamente fattuale, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, sopratutto, adottare il criterio di giudizio dell’oltre ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall’art. 27, comma secondo, Cost.). Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, nemmeno quando ricorrono i casi previsti dall’art. 39, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (così come non può direttamente stabilire l’imposta effettivamente dovuta in base agli studi di settore di cui all’art. 62-bis, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 e successive modificazioni e integrazioni, o alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche di cui all’art. 38, commi 4 e segg., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).  Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell’ambito delle attività di cui agli artt. 31-bis, 32 e 33, d.P.R. n. 600 del 1970, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, ì documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (art. 32, commi 3 e 4, d.P.R. n. 600 del 1973). In conformità a quanto prevede l’art. 220, disp. att. cod. proc. pen., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti) e le giustificazioni e i chiarimenti sollecitati in sede pre-contenziosa al contribuente ai sensi dell’art. 37-bis, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, purché tali atti siano stati redatti e assunti prima che emergano anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Rv. 220291; cfr. altresì Sez. 3, n. 1969 del 21/01/1997, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Rv. 242523; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599, che hanno ribadito il principio secondo il quale è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice dì procedura penale la cui osservanza, nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato). In conclusione, l’indagine che il giudice penale deve compiere deve essere volta all’accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale.  Sennonché, ai fini della cautela reale, come si è detto, è sufficiente la oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore (che potrebbe anche essere ignoto). La radicale diversità del criterio di giudizio legittima il ricorso alle presunzioni tributarie (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018, Rv. 273318, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé sole fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 , hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale; nello stesso senso, Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, Rv. 261928).  Nel caso di specie risulta, dalla lettura dell’ordinanza impugnata, che l’accertamento dell’imposta evasa è stato effettuato con metodo analitico- induttivo, non avendo la società del ricorrente prodotto alcuna documentazione (libri contabili e scritture obbligatorie). Dalle indagini svolte in sede amministrativa presso i clienti della società e dalla dichiarazione mod. 770/2015 era emerso che la società nel 2014 aveva emesso 62 fatture di vendita per il complessivo importo di C 509.028,00 ed aveva sostenuto costi per acquisti pari ad € 58.526,00 nonché costi per il personale dipendente pari ad € 93.222,59.  Sulla scorta di tali elementi, l’Agenzia delle Entrate ha calcolato l’imponibile ai fini delle imposte dirette e sul valore aggiunto determinando le rispettive imposte nella misura di € 98.252,00 (IRES) e di € 111.986,00 (IVA). Il Tribunale, inoltre, ha disconosciuto i maggiori costi che sono stati dedotti dal ricorrente mediante l’allegazione di fatture emesse da e a favore di varie società delle quali egli era l’amministratore di fatto e di diritto. Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, il Tribunale non si è limitato a prendere atto di questa situazione ma ha spiegato che la mera produzione di tali fatture, in assenza di ulteriori documenti giustificativi (contratti o altra documentazione in grado di attestare l’effettiva esecuzione delle prestazioni in esse descritte), non è idonea a provare l’effettiva sussistenza dei costi da esse documentati. Così ragionando, il Tribunale non ha fatto altro che applicare il criterio di giudizio tipico della fase cautelare reale secondo il quale, come detto, la natura polivalente dell’indizio può essere esclusa solo quando vi siano elementi tale da sterilizzare in radice la potenzialità evocativa del fatto tipica dell’indizio; non è insomma sufficiente opporre ad un indizio un altro indizio, perché il secondo non priva il primo della sua valenza accusatoria. Detto questo, è chiara, alla luce delle considerazioni che precedono, la manifesta infondatezza delle censure difensive, sia perché in alcun modo la motivazione del provvedimento impugnato può essere definita assente, inesistente o palesemente irrazionale, sia perché ciò che viene sollecitato in realtà è l’esame sulla congruità della motivazione e sul governo dei canoni di giudizio che presiedono alla fase cautelare e che, nei limiti sopra indicati, tollerano l’inversione dell’onere della prova”.

Corte di Cassazione – Sentenza 21 agosto 2019, n. 36302

La seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da:

D. P. nato a ROMA il 10/05/1955 SOCIETA COOP. SOC. U.I.V. avverso l’ordinanza del 25/09/2018 del TRIB. LIBERTA’ di SASSARI udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO;

sentite le conclusioni del PG ROBERTA MARIA BARBERINI che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, AVV. MATTEO BRODEVANI, sostituto processuale dell’AVV. NICOLA PISANI, che ha concluso riportandosi ai motivi e insistendo per il loro accoglimento.

RITENUTO IN FATTO

1.11 sig. P. D., in proprio e quale legale rappresentante della società U.I.V., ricorre per l’annullamento dell’ordinanza del 25/09/2018 del Tribunale di Sassari che, per quanto qui rileva, ha rigettato la richiesta di riesame del decreto del 19/03/2018 del G.I.P. del Tribunale di Tempio Pausania che, ritenuta la sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, a lui contestato quale legale rappresentante della società, ha ordinato, nei confronti di quest’ultima, il sequestro preventivo diretto del profitto del reato ovvero, in mancanza, dei beni di proprietà del D. in misura equivalente al valore del profitto quantificato nella misura di euro 210.238,00.

1.1.Con il primo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. c), cod. proc. pen., la nullità del decreto di sequestro in conseguenza della mancata consegna dell’informazione di garanzia. Deduce, al riguardo, che il decreto gli fu notificato dalla Guardia di Finanza che aveva contestualmente proceduto alla sua identificazione ma non alla consegna dell’informazione di garanzia.

Di qui la nullità “derivata” dell’ordinanza impugnata.

1.2.Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. c), cod. proc. pen., la nullità dell’ordinanza impugnata per vizio di omessa motivazione, ai sensi dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., e inosservanza dell’art. 192, cod. proc. pen. per errata applicazione dei criteri di valutazione indiziaria. Deduce che il Tribunale, nella verifica del superamento della soglia di punibilità del reato, si è basato esclusivamente sugli accertamenti effettuati in sede fiscale, ritenendo non condivisibile la diversa ricostruzione offerta dalla società, con palese violazione delle fondamentali garanzie sottese all’accertamento in sede penale. Sulla premessa che è compito esclusivo del giudice penale accertare in modo autonomo i fatti costitutivi del reato secondo le regole di giudizio proprie del codice di procedura penale, osserva che il Tribunale del riesame: – omette qualsiasi riferimento ad elementi di riscontro a supporto degli esiti degli accertamenti effettuati dall’Agenzia delle Entrate che, a sua volta, si è basata sul metodo del cd. “spesometro integrato”; – valorizza la circostanza che dal mod. 770/2015 risulta che la società nel 2014 aveva impiegato 12 dipendenti regolarmente retribuiti; – utilizza, di conseguenza, presunzioni legali tributarie; – non chiarisce i motivi per i quali ha ritenuto inattendibile la ricostruzione proposta dalla società secondo la quale l’evasione era inferiore alla soglia di punibilità, limitandosi ad osservare che molte delle fatture prodotte erano emesse da e a favore di società amministrate di fatto o di diritto dallo stesso ricorrente, senza dar conto dei concreti elementi sui quali si basa tale conclusione.

Il Giudice penale, in ultima analisi, non può recepire acriticamente le presunzioni tributarie che, sul piano penale, hanno la stessa valenza degli indizi di cui all’art. 192 cod. proc. pen. i quali, per poter essere posti a base dell’accertamento della responsabilità penale, devono essere gravi, precisi e concordanti. Tali principi devono valere anche in sede cautelare.

1.3.Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, quale conseguenza dell’indebita inversione dell’onere della prova a carico della persona sottoposta alle indagini conseguente alla applicazione delle presunzioni tributarie ai fini della determinazione dell’imponibile e, dunque, dell’imposta evasa.

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.11 ricorso è inammissibile.

3.11 primo motivo è generico e manifestamente infondato.

3.1.11 ricorrente deduce per la prima volta in sede di legittimità di non aver ricevuto l’informazione di garanzia «in occasione del sequestro preventivo disposto con il decreto poi confermato dal Tribunale del riesame», in quanto era stato convocato presso la Guardia di Finanza ove gli era era stata consegnata la copia del provvedimento e si era proceduto alla sua identificazione di persona sottoposta alle indagini.

3.2.Null’altro il ricorrente aggiunge se non che l’informazione di garanzia può ben essere contenuta nel decreto di sequestro, ma non specifica se il decreto notificato contenesse di per sé le informazioni tipiche dell’atto omesso, se in sede di identificazione sia stato altresì invitato a nominare un difensore di fiducia, se il decreto gli era stato notificato successivamente alla sua esecuzione (cfr., sul punto, Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Mariano, Rv. 215839, secondo cui il pubblico ministero ha l’obbligo, ove l’indagato sia presente, di provvedere all’informazione [di garanzia] contestualmente all’esecuzione degli atti medesimi, contemplando la legge in tali ipotesi una serie di adempimenti – notifica del decreto motivato, invito a nominare un difensore di fiducia ovvero, in mancanza, designazione di un difensore d’ufficio – di questa totalmente assorbenti e, nei concreto, sostitutivi).

3.3.E’ un dato di fatto che in sede di notifica del decreto di sequestro il ricorrente era stato invitato dalla polizia giudiziaria a nominare un difensore di fiducia, prontamente individuato nella persona dello stesso professionista che aveva provveduto a chiedere il riesame del decreto.

4.11 secondo ed il terzo motivo sono proposti al di fuori dei casi consentiti dalla legge ed in ogni caso sono manifestamente infondati.

 4.1.E’ innanzitutto necessario ribadire che avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322-bis e 324 cod. proc. pen., il ricorso per Cassazione è ammesso solo per violazione di legge.

4.2.Come più volte spiegato da questa Corte «in tema di riesame delle misure cautelari reali, nella nozione di “violazione di legge” per cui soltanto può essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’art. 325, comma 1, cod. proc. pen., rientrano la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali, ma non l’illogicità manifesta, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice» (Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004; si vedano anche, nello stesso senso, Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino, e Sez. U, n. 5 del 26/02/1991, Bruno, nonché, tra le più recenti, Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini; Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012, Chiesi; Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, Buonocore).

4.3 Motivazione assente è quella che manca fisicamente (Sez. 5, n. 4942 del 04/08/1998, Seana; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini) o che è graficamente indecifrabile (Sez. 3, n. 19636 del 19/01/2012, Buzi); motivazione apparente, invece è solo quella che «non risponda ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui si è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti» (Sez. 1, n. 4787 del 10/11/1993, Di Giorgio), come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa (Sez. 1, n. 1831 del 22/04/1994, Caldaras; Sez. 4, n. 520 del 18/02/1999, Reitano; Sez. 1, n. 43433 dell’8/11/2005, Costa; Sez. 3, n. 20843, del 28/04/2011, Saitta) o di ricorso a clausole di stile (Sez. 6, n. 7441 del 13/03/1992, Bonati; Sez. 6, n. 25361 del 24/05/2012, Piscopo) e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U., n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov; nello stesso senso anche Sez. 4, n. 43480 del 30/09/2014, Giovannini, Rv. 260314, secondo cui la motivazione dell’ordinanza confermativa del decreto di sequestro probatorio è meramente apparente – quindi censurabile con il ricorso per cassazione per violazione di legge – quando le argomentazioni in ordine al “fumus” del carattere di pertinenza ovvero di corpo del reato dei beni sottoposti a vincolo non risultano ancorate alle peculiarità del caso concreto).

4.4.Anche l’omesso esame di punti decisivi per l’accertamento del fatto, sui quali è stata fondata l’emissione del provvedimento di sequestro, si traduce in una violazione di legge per mancanza di motivazione, censurabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325, comma primo cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 28241 del 18/02/2015, Baronio, Rv. 264011; Sez. 1, n. 48253 del 12/09/2017, Serra, n.m.; Sez. 3, n. 38026 del 19/04/2017, De Cicco, n.m.; Sez. 3, n. 38025 del 19/04/2017, Monti, n.m.).

4.5.In tal caso, però, è onere del ricorrente: a) allegare al ricorso l’elemento indiziario dirimente di cui eccepisce l’omesso esame; b) dare prova della sua effettiva esistenza tra gli atti trasmessi al tribunale del riesame o comunque della sua acquisizione nel corso dell’udienza camerale; c) spiegarne la natura decisiva alla luce sia della limitata cognizione del giudice del riesame (cui non può essere demandato un giudizio anticipato sulla responsabilità di chi chiede il riesame del provvedimento cautelare reale) sia del fatto che ai fini del sequestro preventivo sono sufficienti gli indizi del reato, non i gravi indizi di colpevolezza, con la conseguenza che il provvedimento, sopratutto quando adottato per le finalità cautelari di cui all’art. 321, comma 1, cod. proc. pen., può riguardare anche beni di proprietà di terzi estranei al reato ipotizzato (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 14823 del 30/11/2016, dep. 2017, Lochi, n.m., secondo cui «poiché il c.d.”effetto devolutivo” del riesame deve essere inteso nel senso che il tribunale è tenuto a valutare, indipendentemente dalla prospettazione del ricorrente, ogni aspetto relativo ai presupposti della misura cautelare (“fumus commissi delicti” e, nel sequestro preventivo,” periculum in mora”) (Sez. 3, n. 35083 del 14/04/2016, Talano, Rv. 267508), il vizio denunciabile come violazione di legge deve riguardare l’omessa motivazione su questioni decisive sottoposte al Tribunale del riesame ed evincibili dagli atti ad esso trasmessi o dalle produzioni difensive (atti, compresi quelli investigativi, la cui esistenza il ricorrente ha comunque l’onere di provare nella loro fisica collocazione tra quelli a disposizione del Tribunale e allegare al ricorso)»).

4.6.E’ stato autorevolmente ricordato che «nella valutazione del “fumus commissi delicti”, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice del riesame non può avere riguardo alla sola astratta configurabilità del reato, ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pur sommariamente, le ragioni che rendono sostenibile l’impostazione accusatoria, e plausibile un giudizio prognostico negativo per l’indagato, pur senza sindacare !a fondatezza dell’accusa (così, da ultimo, Sez. 5, n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677). Pur essendo precluso al Tribunale del riesame sia l’accertamento del merito dell’azione penale sia il sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, il giudice deve comunque operare un attento controllo sulla base fattuale del singolo caso concreto, secondo il parametro del fumus, tenendo conto delle concrete risultanze processuali e della effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti (Sez. 5, n. 18078 del 26/01/2010, De Stefani, Rv. 247134; Sez. 6 n. 35786 del 21/06/2012, Buttini, Rv. 254394; Sez. 3, n. 37851 del 04/06/2014, Parrelli, Rv. 260945; Sez. 6, n. 49478 del 21/10/2015, Macchione, Rv. 265443).

Il controllo non può, quindi, limitarsi ad una verifica meramente burocratica della riconducibilità in astratto del fatto indicato dall’accusa alla fattispecie criminosa, ma deve essere svolto attraverso la valutazione dell’antigiuridicità penale del fatto come contestato, tenendo conto, nell’accertamento del fumus commissi delicti e del periculum in mora, degli elementi dedotti dall’accusa risultanti dagli atti processuali e delle relative contestazioni difensive» (così in motivazione, Sez. U, n. 15453 del 29/01/2016).

4.7.Ciò tuttavia non legittima l’ampliamento dei motivi di ricorso ai casi non consentiti dall’art. 625, cod. proc. pen. Il ricorso per cassazione proposto avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322-bis e 324 cod. proc. pen. non può mai trasmodare nella critica del modo con cui il Tribunale ha valutato gli indizi di reato perché, in questo modo, il vizio realmente eccepito riguarda la motivazione, non la sua fisica esistenza o la sua palese irrazionalità.

4.8.Ai fini della adozione del sequestro preventivo sono sufficienti, come detto, gli indizi di reato, indipendentemente dall’accertamento della presenza dei gravi indizi di colpevolezza o dell’elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all’adozione della misura cautelare reale (Sez. 6, n. 45908 del 16/10/2013, Orsi, Rv. 257383; Sez. 6, n. 10618 del 23/02/2010, Olivieri, Rv. 246415; Sez. 1, n. 15298 del 04/04/2006, Bonura, Rv. 234212).

4.9.Orbene, il fatto indiziante è di per sé normalmente significativo di una pluralità di fatti non noti, per cui in tal caso si può pervenire al superamento della relativa ambiguità indicativa dei singoli indizi solo applicando la regola metodologica fissata nell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen. (così Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191230). Ma tale operazione, sostanzialmente sollecitata dal ricorrente che denunzia proprio il malgoverno dell’art. 192 cod. proc. pen., determina la trasformazione dell’indizio in prova e comporta l’adozione di una regola di giudizio diversa da quella richiesta in sede cautelare reale. Poiché l’indizio ha valenza indicativa – sia pure di portata possibilistica e non univoca – del reato per il quale è stato adottato il sequestro preventivo, quello di segno contrario deve essere di natura tale da privare l’indizio accusatorio, con immediata evidenza, persino di tale portata possibilistica, così che si possa giungere alla conclusione che il sequestro è stato adottato in assenza, appunto, di indizi.

Non è perciò coerente con il tipo di giudizio tipico della fase cautelare reale opporre all’indizio accusatorio uno uguale e di segno contrario che comunque non priva il primo della sua astratta attitudine a ricondurre il fatto nell’ambito della fattispecie di reato ipotizzata.

4.10. In questo contesto deve essere valutato l’apprezzamento, in sede cautelare reale, delle cd. presunzioni tributarie.

4.11.Prima, però, sono necessarie le seguenti precisazioni.

4.12. Il diritto penale tributario si caratterizza per la sua specialità che gli deriva dalla particolare materia che ne costituisce l’oggetto, ma resta pur sempre diritto penale, diritto cioè dei comportamenti ritenuti lesivi di beni giuridici o di valori ad essi preesistenti, non diritto degli atti o degli interessi regolati dalle norme tributarie e certamente non dell’obbligazione tributaria.

4.13.In quanto “diritto penale”, esso si caratterizza per la sua natura autonoma e costitutiva rispetto alle altre branche del diritto, essendo stata da tempo ripudiata, per l’incandescenza del suo oggetto (la libertà personale), la teoria della funzione meramente sanzionatoria di istituti di altri rami del diritto.

4.14.I1 diritto penale tributario non fornisce l’armamentario necessario a reprimere la vidazione degli obblighi tributari altrove disciplinati.

Non v’è dubbio che il comune oggetto di tutela sia il dovere di concorrere alle spese pubbliche, previsto dall’art. 53, Cost. quale specifica articolazione del più generale dovere di solidarietà di cui all’art. 2, Cost., ma tale tutela non viene penalmente perseguita in modo indiretto, sanzionando puramente e semplicemente gli obblighi tributari altrove disciplinati nell’an, nel quomodo e nel quando. Al legislatore penale tributario non sta a cuore il recupero del gettito fiscale evaso, né il corretto adempimento dell’obbligazione tributaria, ma esclusivamente la rieducazione dell’autore della lesione del bene giuridico protetto, che costituisce lo scopo essenziale della sanzione penale (art. 27, Cost.).

4.15.La funzione della pena, l’inviolabilità della libertà personale che viene in gioco, la ineliminabile valorizzazione degli elementi soggettivi della condotta che innervano e danno sostanza alla natura esclusivamente personale della responsabilità penale e alla funzione rieducativa della pena, impongono una lettura “autonoma” delle norme penali tributarie, secondo i canoni interpretativi che l’inviolabilità del bene potenzialmente a rischio impongono (i soli “casi e modi previsti dalla legge” – scilicet penale – entrata in vigore prima del fatto commesso)

4.16.11 disvalore espresso dalla condotta penalmente sanzionata, dunque, deve essere individuato esclusivamente all’interno della norma che la descrive che deve essere a sua volta applicata in conformità ai principi di stretta legalità, tassatività e determinatezza che governano l’interpretazione della legge penale, rifuggendo pertanto dalle sempre possibili suggestioni che il comune oggetto della materia trattata può comportare e che possono determinare il rischio sia di non ammesse interpretazioni analogiche che di scorciatoie probatorie volte ad attrarre nella fattispecie penale la pura e semplice constatazione dell’inadempimento dell’obbligo tributario che la norma stessa non ritiene sufficiente ai fini della punibilità dell’autore.

4.17.La presenza nella fattispecie penale di elementi normativi altrove disciplinati non può rappresentare la falla attraverso la quale il travaso di istituti giuridici di altri rami del diritto possa geneticamente mutare la norma penale. Gli elementi normativi della fattispecie sono parte integrante di una norma che ha ad oggetto, come detto, i comportamenti e dunque la persona prima di tutto e persegue interessi diversi da quelli disciplinati dalla fonte di appartenenza.

4.18.La violazione dell’obbligo di presentare una delle dichiarazioni annuali non esaurisce l’indagine penale perché, come correttamente ricordato dal ricorrente, è necessario accertare anche che ne sia derivata un’evasione effettiva di imposta superiore alla soglia indicata dall’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000.

4.19.Ai fini del d.lgs. n. 74 del 2000 per «imposta evasa» si intende «la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine» (art. 1, lett. f). Per l’accertamento dell’an e del quantum dell’imposta “dovuta” è giocoforza necessario far riferimento alla legislazione fiscale che si avvale, in buona misura, di presunzioni (non sempre gravi, precise e concordanti). In questa delicata operazione ricostruttiva, di natura squisitamente fattuale, il giudice penale deve utilizzare gli strumenti posti a sua disposizione dal codice di rito e, sopratutto, adottare il criterio di giudizio dell’oltre ragionevole dubbio che costituisce il corollario della presunzione di innocenza costituzionalmente imposto dall’art. 27, comma secondo, Cost.). Il giudice non può, di conseguenza, far ricorso alle presunzioni tributarie semplici che, comportando l’inversione dell’onere della prova, sovvertono alla radice il principio della presunzione di innocenza dell’imputato, nemmeno quando ricorrono i casi previsti dall’art. 39, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (così come non può direttamente stabilire l’imposta effettivamente dovuta in base agli studi di settore di cui all’art. 62-bis, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427 e successive modificazioni e integrazioni, o alla determinazione sintetica del reddito delle persone fisiche di cui all’art. 38, commi 4 e segg., d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

Il giudice penale può utilizzare le informazioni e i dati acquisiti dagli uffici finanziari nell’ambito delle attività di cui agli artt. 31-bis, 32 e 33, d.P.R. n. 600 del 1970, ma non può avvalersi degli stessi criteri di giudizio ivi previsti per l’accertamento presuntivo dell’imposta dovuta giustificato, sul piano fiscale, dal comportamento non collaborativo del contribuente, né gli è preclusa la possibilità di acquisire e utilizzare, a fini di accertamento del reato, gli atti, ì documenti, i libri e i registri non esibiti o non trasmessi dal contribuente che quest’ultimo può utilizzare in sede tributaria solo se dimostri di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici finanziari per cause a lui non imputabili (art. 32, commi 3 e 4, d.P.R. n. 600 del 1973). In conformità a quanto prevede l’art. 220, disp. att. cod. proc. pen., può utilizzare, a fini di ricostruzione del fatto, il processo verbale di accertamento o di constatazione (ma non le valutazioni e i giudizi in essi contenuti) e le giustificazioni e i chiarimenti sollecitati in sede pre-contenziosa al contribuente ai sensi dell’art. 37-bis, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, purché tali atti siano stati redatti e assunti prima che emergano anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001, Rv. 220291; cfr. altresì Sez. 3, n. 1969 del 21/01/1997, Rv. 206944; Sez. 3, n. 6881 del 18/11/2008, Rv. 242523; Sez. 3, n. 15372 del 10/02/2010, Rv. 246599, che hanno ribadito il principio secondo il quale è causa di inutilizzabilità dei risultati probatori la violazione delle disposizioni del codice dì procedura penale la cui osservanza, nell’ambito di attività ispettive o di vigilanza, è prevista per assicurare le fonti di prova in presenza di indizi di reato).

In conclusione, l’indagine che il giudice penale deve compiere deve essere volta all’accertamento autonomo e diretto degli elementi costitutivi del reato secondo i canoni propri del processo penale.

4.20.Sennonché, ai fini della cautela reale, come si è detto, è sufficiente la oggettiva sussistenza indiziaria del reato, a prescindere da qualsiasi profilo che riguardi la colpevolezza del suo autore (che potrebbe anche essere ignoto). La radicale diversità del criterio di giudizio legittima il ricorso alle presunzioni tributarie (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 26274 del 10/05/2018, Rv. 273318, secondo cui le presunzioni legali previste dalle norme tributarie, pur non potendo costituire di per sé sole fonte di prova della commissione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 , hanno un valore indiziario sufficiente ad integrare il “fumus commissi delicti” idoneo, in assenza di elementi di segno contrario, a giustificare l’applicazione di una misura cautelare reale; nello stesso senso, Sez. 3, n. 2006 del 02/10/2014, Rv. 261928).

5.Nel caso di specie risulta, dalla lettura dell’ordinanza impugnata, che l’accertamento dell’imposta evasa è stato effettuato con metodo analitico- induttivo, non avendo la società del ricorrente prodotto alcuna documentazione (libri contabili e scritture obbligatorie).

Dalle indagini svolte in sede amministrativa presso i clienti della società e dalla dichiarazione mod. 770/2015 era emerso che la società nel 2014 aveva emesso 62 fatture di vendita per il complessivo importo di C 509.028,00 ed aveva sostenuto costi per acquisti pari ad € 58.526,00 nonché costi per il personale dipendente pari ad € 93.222,59.

Sulla scorta di tali elementi, l’Agenzia delle Entrate ha calcolato l’imponibile ai fini delle imposte dirette e sul valore aggiunto determinando le rispettive imposte nella misura di € 98.252,00 (IRES) e di € 111.986,00 (IVA).

Il Tribunale, inoltre, ha disconosciuto i maggiori costi che sono stati dedotti dal ricorrente mediante l’allegazione di fatture emesse da e a favore di varie società delle quali egli era l’amministratore di fatto e di diritto. Diversamente da quanto sostiene il ricorrente, il Tribunale non si è limitato a prendere atto di questa situazione ma ha spiegato che la mera produzione di tali fatture, in assenza di ulteriori documenti giustificativi (contratti o altra documentazione in grado di attestare l’effettiva esecuzione delle prestazioni in esse descritte), non è idonea a provare l’effettiva sussistenza dei costi da esse documentati.

Così ragionando, il Tribunale non ha fatto altro che applicare il criterio di giudizio tipico della fase cautelare reale secondo il quale, come detto, la natura polivalente dell’indizio può essere esclusa solo quando vi siano elementi tale da sterilizzare in radice la potenzialità evocativa del fatto tipica dell’indizio; non è insomma sufficiente opporre ad un indizio un altro indizio, perché il secondo non priva il primo della sua valenza accusatoria.

5.1.Detto questo, è chiara, alla luce delle considerazioni che precedono, la manifesta infondatezza delle censure difensive, sia perché in alcun modo la motivazione del provvedimento impugnato può essere definita assente, inesistente o palesemente irrazionale, sia perché ciò che viene sollecitato in realtà è l’esame sulla congruità della motivazione e sul governo dei canoni di giudizio che presiedono alla fase cautelare e che, nei limiti sopra indicati, tollerano l’inversione dell’onere della prova.

6.Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (C. Cost. sent. 7-13 giugno 2000, n. 186), l’onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende,

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 15/03/2019

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