CASSAZIONE FISCALITA

Sempre condannabili gli omessi versamenti con l’indebito utilizzo dei crediti

Reati tributari – IVA – Articolo 10-quater del D.Lgs. 74/2000 – Indebito utilizzo di crediti – compensazione tributaria – Limiti

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5934 del 7 febbraio 2019, intervenendo sul fenomeno delle indebite compensazioni dei crediti d’imposta ha stabilito che commette il reato chi utilizza un credito IVA fittizio in detrazione delle liquidazioni periodiche successive. Il reato di indebita compensazione, introdotto nel 2006 con l’art. 10-quater del D.Lgs. 74/2000 (poi ulteriormente modificato dal D.Lgs. 158/2015), attribuisce rilevanza penale a una serie di comportamenti che utilizzando indebitamente il meccanismo della compensazione tributaria si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta.

L’intento del legislatore è quello di sanzionare la condotta omissiva supportata dalla redazione di un documento ideologicamente falso, idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto aver luogo. Del resto la norma, infatti, non circoscrive il delitto alla sola presentazione del modello F24, tanto meno alla sola compensazione orizzontale, ma punisce tutte le condotte volte all’omesso versamento di imposte attraverso l’indebito utilizzo di crediti.

Sul versante penal-tributario, l’interesse dello Stato a una tempestiva ed efficace riscossione delle imposte, dei contributi e degli altri crediti è stato assicurato dalla previsione del reato di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater del D.Lgs. 74/2000, a cui la Legge di bilancio 2018 (art. 1, comma 990, legge 205/2017) ha aggiunto, al fine di contrastare le indebite compensazioni, la possibilità per l’Amministrazione finanziaria, in presenza di deleghe di pagamento contenenti compensazioni che hanno profili di rischio, di sospendere fino a 30 giorni l’esecuzione delle deleghe per verificare un eventuale indebito utilizzo dei crediti erariali. Anche l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 36/E dell’8 maggio 2018, ha chiarito quali siano le sanzioni dovute in caso di utilizzo in compensazione di un credito inesistente, già recuperato in ambito accertativo e sanzionato quale infedele dichiarazione ed illegittima detrazione.

Per rendere più efficace lo strumento di contrasto a questo tipo di reato, ricordiamo che anche la recente possibilità di versare le imposte con l’uso del modello F24 in compensazione di crediti fiscali è stata oggetto di importanti novità, a seguito dell’entrata in vigore del DL 50/2017 e del blocco preventivo delle compensazioni previsto dalla Legge di bilancio 2018, dove all’articolo 3 sono previste nuove disposizioni di contrasto alle indebite compensazioni.

In particolare viene abbassato da 15.000 a 5.000 euro il limite della compensazione libera dei crediti IVA; in altre parole, per compensazioni IVA in F24 superiori a 5.000 euro sarà necessario utilizzare il visto di conformità. Contemporaneamente è stato introdotto l’obbligo di inviare telematicamente tramite Entratel/Fisconline i modelli F24 contenenti compensazione con crediti derivanti da qualsiasi imposta sui redditi o addizionale, ritenuta alla fonte, imposta sostitutiva sul reddito, IRAP e crediti d’imposta di cui al quadro RU della dichiarazione dei redditi.

Tornando al caso di specie, il fatto traeva origine da un cospicuo credito IVA, ritenuto però inesistente dal Fisco, inserito nella dichiarazione del 2002 e riportato negli anni successivi, che veniva utilizzato in detrazione dai debiti IVA delle diverse liquidazioni. Era di conseguenza contestata l’indebita compensazione prevista proprio dall’articolo 10-quater del D.Lgs. 74/2000.

Gli imputati, condannati in appello, ricorrevano in Cassazione lamentando che il comportamento adottato riguardasse la detrazione IVA e non un’indebita compensazione, in quanto nessun modello F24 era stato presentato. I giudici di legittimità non hanno riconosciuto valide le ragioni addotte e ricordato che il reato in questione è configurabile in caso di compensazione sia orizzontale sia verticale, affermando nella corposa e ben motivata sentenza che: “… Non appare in ogni caso rilevante il fatto che gli anni di imposta 2002 e 2009 non siano stato oggetto di una specifica verifica fiscale, posto che l’inesistenza del credito iva asseritamente maturato in quel periodo è stata ampiamente comprovata dagli accertamenti sulla mancata operatività della società in quegli anni e sull’assenza di valide giustificazioni commerciali per l’insorgenza di quel credito, non essendo altresì dubitabile che il credito trascinato dal 2003 in poi fosse proprio quello evidenziato per la prima volta nella dichiarazione del 2002, posto che il credito utilizzato in compensazione corrisponde, anno per anno, al residuo del credito risultante dopo le compensazioni dell’anno precedente, partendo proprio dalla cifra iniziale di 146 milioni di euro di cui all’Unico 2003.

Né le risultanze probatorie acquisite sono state smentite dalla difesa, avendo i giudici di merito osservato, con motivazione non illogica, che i ricorrenti non hanno esibito documentazione fiscale utile allo scopo, aggiungendo come non fosse significativa la circostanza che l’oggetto sociale della D. ricomprendesse anche la vendita di rottami ferrosi, assumendo rilievo ai fini fiscali solo il codice di attività che viene comunicato all’Agenzia delle Entrate e non quanto risulta dallo statuto societario, per cui, con specifico riferimento all’operazione imponibile di 730 milioni di euro, da cui sarebbe maturato il credito iva di 146 milioni, il dato saliente era che la società aveva fatto riferimento a un codice esclusivo inerente la vendita di beni immobili, il che, unitamente agli accertamenti svolti circa l’assenza all’epoca di una struttura societaria, eliminava ogni dubbio circa la natura fittizia dell’operazione posta a base del credito.

Non può invece in alcun modo condividersi l’affermazione difensiva secondo cui “l’esistenza del credito è correlata alla sua esposizione in dichiarazione, pur derivando da una operazione che si assume fittizia” (motivo quinto del ricorso della I.), correlandosi l’esistenza di un credito tributario non certo alla sua mera ed eventualmente falsa rappresentazione esteriore, ma piuttosto alla sua intrinseca configurabilità per effetto di una lecita operazione economica.

In quest’ottica, deve ritenersi invece corretto il rilievo della sentenza resa da questa Corte nella fase incidentale (e ripreso nella sentenza impugnata), in forza del quale l’effetto di “inveramento” del credito e la conseguente legittimazione delle successive operazioni di “trascinamento” negli anni successivi, con le relative operazioni di detrazione/compensazione, avrebbero potuto scaturire solo dall’effettivo pagamento all’Agenzia delle Entrate della somma di 146 milioni di euro corrispondente all’ammontare originario del credito inesistente, il che nel caso di specie non è mai avvenuto, nonostante le iniziative formali dell’Agenzia.

Stante la conclamata inesistenza del credito iva, “trascinato” nelle dichiarazioni successive al 2002 e di volta in volta decurtato con l’iva a debito, fino a raggiungere l’importo di € 27.798.643,00 nella dichiarazione 2010, è stata dunque ritenuta sussistente a carico degli odierni imputati la fattispecie di cui all’art. 10 quater del D.Lgs. 74/2000, naturalmente a partire dall’Unico 2007, ovvero dall’entrata in vigore della norma incriminatrice, introdotta dal decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006. 2.2. Il giudizio sulla configurabilità del reato è stato invero già formulato in sede cautelare da questa Sezione della Corte con la sentenza n. 42462 dell’Il novembre 2010, peraltro massimata (Rv. 248754), sentenza che è stata ripresa e condivisa sia dal Tribunale di Nola che dalla Corte di appello di Napoli.

Con tale pronuncia è stato affermato, per quanto in questa sede rileva, che il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti è configurabile sia in caso di compensazione orizzontale (ossia riguardante crediti e debiti di imposta di natura diversa), sia nel caso di compensazione verticale (ossia riguardante crediti e debiti afferenti la medesima imposta). Al riguardo è stata infatti richiamata la struttura della norma incriminatrice, nella versione ovviamente all’epoca vigente («la disposizione di cui all’articolo 10 bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti»), osservandosi che l’art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, menzionato dall’art. 10 quater, non limita in alcun modo la facoltà del contribuente di procedere alla compensazione di postazioni di debito o credito afferenti alla medesima imposta (cd. compensazione verticale), essendo l’innovazione introdotta dalla disposizione citata costituita proprio dal superamento del concetto di compensazione tradizionale tra debiti e crediti di imposta della stessa natura (compensazione cd. verticale), mediante l’estensione della facoltà di compensazione anche a debiti e crediti di natura diversa, nonché alle somme dovute agli enti previdenziali, dovendosi cioè ritenere che l’art. 17 ha solo allargato le ipotesi di compensazione già previste dalle norme tributarie, senza prevedere che l’istituto possa trovare applicazione solo relativamente a tributi della stessa specie o di specie diversa. Peraltro, con la pronuncia resa nella fase incidentale, la Corte ha escluso che nel caso di specie si vertesse in materia di detrazione “legittima” ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, osservando che l’istituto della detrazione dell’iva, che peraltro ha anche esso natura sostanzialmente compensativa (verticale), trova la sua ratio nella necessità di realizzare la sterilizzazione dell’imposta sul valore aggiunto, attraverso un meccanismo semplificato, in modo da farne ricadere gli effetti esclusivamente sul consumatore finale. Proprio in ragione di tale funzione, si è quindi ritenuto che la detrazione è destinata a operare “sul breve periodo”, facendo recuperare al venditore immediatamente l’imposta versata sia da questi che dall’acquirente. In quest’ottica è stato infatti sottolineato che l’art. 19 comma 1 del d.P.R. n. 633 del 1972 stabilisce espressamente che “il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto e alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo”.

Pertanto, ha concluso la sentenza sopra richiamata, allorché il credito della predetta imposta venga ulteriormente utilizzato nel corso degli anni successivi per soddisfare posizioni debitorie nei confronti dell’Erario riguardanti la medesima imposta, come avvenuto nella vicenda in esame, non si può neppure parlare di detrazione dell’iva, trattandosi a tutti gli effetti di una compensazione ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241/97, tra l’imposta dovuta e il credito residuo di imposta che il contribuente assumeva di vantare nei confronti dell’Erario, con conseguente configurabilità della fattispecie di cui all’art. 10 quater. Orbene, tale opzione ermeneutica, fatta propria dai giudici di merito, è stata fortemente criticata non solo dai ricorrenti, ma anche e prima ancora dalla Dottrina, come ampiamente documentato dalla difesa anche in questo giudizio. Gli argomenti di critica sono quelli esposti in precedenza: l’utilizzo dilazionato in dichiarazione negli anni del credito iva, derivante da precedente dichiarazione annuale, non potrebbe essere incluso nella nozione di compensazione fiscale di cui all’art. 17 del D.Lgs. 241/1997, che si riferisce, secondo il modello della legislazione casistica, a specifici crediti e debiti tributari e previdenziali, tra cui non rientra la detrazione di cui all’art. 30 del d.P.R. 633/1972; l’art. 17 comma 1 contemplerebbe quindi la sola compensazione con crediti dello stesso periodo, mentre, nel caso di utilizzo dell’eccedenza Iva da dichiarazione annuale, il credito può appartenere allo stesso periodo di imposta del debito compensato solo nel primo anno di evidenziazione del credito stesso, cioè quando il credito viene utilizzato per abbattere un debito di imposta dell’anno a cui si riferisce la dichiarazione da cui emerge anche il credito; quando invece l’eccedenza viene utilizzata ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 633/72 per abbattere debiti relativi a esercizi successivi, essa risulta utilizzata per un debito formatosi in un periodo diverso e successivo, per cui si sarebbe al di fuori del perimetro dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997, unica norma richiamata espressamente dall’art. 10 quater. In definitiva, l’art. 10 quater del D.Lgs. 74/2000 sanzionerebbe solo le operazioni di compensazione “orizzontale” ex art. 17 del D.Lgs. 241/97, effettuate mediante presentazione di delega bancaria, cd. modello F24, per estinguere debiti tributari relativi a imposte diverse e non anche le operazioni di detrazione di cui all’art. 19 del d.P.R. 633/72, effettuate in contabilità e poi trasposte nella dichiarazione, tanto più che l’utilizzo dell’eccedenza non ha alcun limite temporale, valendo il limite dei due anni solo per la registrazione della fattura passiva generante il credito, essendo assoggettabile a termine perentorio solo la compensazione”.

Corte di Cassazione Sentenza 7 febbraio 2019, n. 5934

 

Sui ricorsi proposti da G. E., nato a Napoli il 03-08-1972, I. Am., nata a Ottaviano il 12-05-1968, R. F., nato a San Giuseppe Vesuviano il 14-01-1969, avverso la sentenza del 03-07-2017 della Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere Fabio Zunica;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dott. Francesco Salzano, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

udito per il ricorrente G. l’avvocato Mario Papa, anche in sostituzione dell’avv. Felice Carbone, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito per la ricorrente I. l’avvocato Lucio Majorano, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

udito per il ricorrente R. l’avvocato Tullio Padovani, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Con sentenza dell’Il novembre 2014, il Tribunale di Nola condannava F. R., E. G. e Am. I. alla pena di anni 5 e mesi 6 di reclusione ciascuno, in ordine ai reati di cui agli art. 10 e 10 quater del d.lgs. 74/2000, contestati nell’ambito di due procedimenti penali riuniti, mentre, rispetto all’ulteriore imputazione avente ad oggetto il delitto di cui all’art. 3 del d.lgs. 74/2000, interveniva assoluzione perché il fatto non sussiste. Con la predetta sentenza veniva inoltre ordinata la confisca per equivalente di quanto in sequestro, fino alla concorrenza del valore di euro 36.112.785,00. Con sentenza del 3 luglio 2017, la Corte di appello di Napoli, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava estinto per prescrizione sia il delitto di cui all’art. 10 del d.lgs. 74/2000, sia il delitto ex art. 10 quater del medesimo decreto in ordine a una delle due contestazioni ad esso relativa, ovvero quella di cui al capo B del decreto che dispone il giudizio del 9 maggio 2011 e, per l’effetto, rideterminava la pena in anni 1 e mesi 8 di reclusione per ciascun imputato, rimodulando di conseguenza la durata delle pene accessorie e riducendo altresì la confisca per equivalente di quanto in sequestro fino alla concorrenza del valore di euro 15.459.705,00, con conferma nel resto.
  2. Avverso la sentenza della Corte di appello partenopea, G., la I. e R., tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione. 2.1 F. R. e Anna Maria I., nel loro comune ricorso (a firma dell’avvocato Mario Papa), hanno sollevato undici motivi. Con il primo, viene dedotta la violazione degli art. 571 e 178 lett. C cod. proc. pen., oltre che dell’art. 6 della C.E.D.U., dolendosi la difesa dell’illegittimità dell’ordinanza con cui la Corte di appello, all’udienza del 21 dicembre 2016, non ha rimesso in termini R. affinchè potesse reiterare l’atto di impugnazione proposto personalmente, che non risultava acquisito al fascicolo processuale e per il quale, nonostante la tempestività del deposito del gravame presso il Giudice di Pace di Ischia, non era stato fissato il giudizio di appello. Con il secondo motivo, viene lamentata la violazione degli art. 23 e 24 cod. proc. pen. e 10 e 18 del d. Igs. 74/2000, deducendosi l’illegittimità della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva confermato l’ordinanza con cui il Tribunale di Nola aveva rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale rispetto al delitto di cui all’art. 10 del d.lgs. 74/2000, che si era consumato a Casoria, sede della D., ovvero in un Comune all’epoca rientrante nella giurisdizione del Tribunale di Napoli, non potendosi ritenere che la successiva riunione dei procedimenti penali avesse superato la doglianza difensiva, posto che l’ordinanza di rigetto dell’eccezione è stata emessa prima della predetta riunione.

Con il terzo motivo, viene eccepita la violazione degli art. 420 bis cod. proc. pen. e 178 lett. C cod. proc. pen., dolendosi la difesa del rigetto del motivo di appello con cui era stato dedotto che l’imputato R., presente alle prime udienze, non era stato avvisato dei rinvii che il Tribunale aveva adottato nel corso di udienze alle quali l’imputato non aveva potuto partecipare perché attinto da misura custodiale domestica disposta per altra causa, non essendogli stato notificato il provvedimento con cui il giudice della cautela l’aveva autorizzato a comparire dinanzi al Giudice monocratico di Nola libero e senza scorta.

Con il quarto motivo, la difesa eccepisce la violazione dell’art. 10 quater del d.lgs. 74/2000, sostenendo l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui, rigettando immotivatamente le censure difensive illustrate nell’atto di appello, ha ritenuto che sia non spettante l’utilizzo per trascinamento del riporto del credito iva perché inesistente, in quanto generato da un costo fittizio registrato nell’annualità 2002, sebbene la rispettiva dichiarazione sia stata rettificata dall’Agenzia delle Entrate con avviso di accertamento del 2008. Con il quinto motivo, il ricorrente contesta la violazione dell’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, avendo la Corte territoriale ritenuto che la sanzione penale prevista dalla norma concorra con quella amministrativa, ciò in contrasto con il principio di specialità previsto dall’art. 19 del d. Igs. 74/2000, violando altresì la duplicazione sanzionatoria del fatto il principio del ne bis in idem tributario stabilito dalla sentenza della Corte europea nel caso cd. “Grande Stevens”.

Con il sesto motivo, oggetto di critica è l’affermazione della Corte di appello secondo cui l’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000 copra sia le operazioni di compensazione ex art. 17 del d. Igs. 241/97, effettuate mediante presentazione di delega bancaria, cd. mod. F24, per estinguere debiti tributari, sia le operazioni di detrazione ex art. 19 del d.P.R. 633/72, effettuate in contabilità e poi trasposte nella dichiarazione; al riguardo si contesta che la Corte di appello, al pari del Tribunale, si è limitata acriticamente a recepire la sentenza di questa Corte n. 42462/2010 resa nella fase incidentale di questo procedimento, senza tener conto che l’utilizzo dell’eccedenza non ha alcun limite temporale, per cui il limite dei due anni vale solo per la registrazione della fattura passiva generante il credito, essendo assoggettabile a termine perentorio solo la compensazione. Peraltro, non solo le risultanze delle consulenze tecniche della difesa, ma anche numerosi articoli di dottrina, richiamati nel ricorso, hanno evidenziato che l’art. 10 quater si applica esclusivamente ai casi di compensazione indebita effettuata ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997, e non anche alle detrazioni operate in contabilità ai sensi degli art. 19 e 30 del d.P.R. 633/1972. Si precisa peraltro che l’accoglimento di questo motivo si riverbera non solo sull’entità della pena, ma anche sull’ammontare della confisca, posto che la D. nel 2009 ha utilizzato il riporto dell’iva nella misura di 15.459.705 euro, utilizzando 15.282.456 euro di quell’eccedenza iva in detrazione, riducendo del corrispondente importo l’iva a debito e utilizzando 177.249,99 euro di quell’eccedenza iva in compensazione ai sensi dell’art. 18 del d.lgs. 241/1997.

La difesa in ogni caso reitera la richiesta, già rivolta alla Corte territoriale, di adire pregiudizialmente la Corte di giustizia, nell’ipotesi in cui dovesse essere ribadito il principio affermato da questa Corte nella fase incidentale, per chiarire se il combinato disposto degli art. 30 e 19 del d.P.R. 633/72 deve essere interpretato nel senso che l’eccedenza iva può essere utilizzata in detrazione sino al secondo anno successivo e, oltre tale anno, possa essere utilizzata solo in compensazione; in definitiva, si chiede che sia valutata la compatibilità delle norme del diritto penale interno con l’art. 183 della direttiva 2006/112/CE, secondo cui “qualora per un periodo di imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’iva dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo o procedere al rimborso secondo le modalità da esso stabilite. Tuttavia, gli Stati membri possono rifiutare il rimborso o il riporto se l’eccedenza è insignificante”; l’art. 183 andrebbe in ogni caso letto insieme all’art. 168 della direttiva 2006/112, che afferma in termini categorici il diritto del soggetto passivo alla detrazione, per cui, come ribadito dalla Corte di Giustizia UE, sussisterebbe l’obbligo degli Stati membri di consentire sempre la detrazione.

Con il settimo motivo, si censura l’illegittimità della sentenza di appello nella parte in cui ha rigettato, senza adeguata motivazione, le doglianze di appello, ritenendo che il credito esposto nella dichiarazione del 2009 fosse stato generato da un costo fittizio appostato nella dichiarazione relativa al 2002, sebbene per l’annualità in questione non sia stata mai eseguita alcuna verifica fiscale.

Con l’ottavo motivo, la difesa contesta il giudizio sulla sussistenza del dolo, rilevando che l’assenza di fraudolenza dell’operazione, oltre a far difettare l’elemento oggettivo del reato contestato, ne inficia anche l’elemento soggettivo.

Con il nono motivo, il ricorrente si duole dell’attribuzione, a sé e alla moglie I., della veste di amministratori di fatto operata nella sentenza impugnata, non avendo i giudici di appello indicato quale fosse l’apporto materiale morale fornito dai coniugi R. all’autore del reato proprio, non essendovi alcuna prova che il dr. G. sia stato esautorato nelle proprie funzioni gestorie.

Con il decimo motivo, viene dedotta la violazione degli art. 81, 132 e 133 cod. pen., evidenziandosi che il giudice di primo grado aveva stimato la gravità delle condotte integranti l’art. 10 quater in mesi 3 di reclusione, aumentando cioè la pena base di anni 4 e 6 mesi fissata in ordine al delitto ex art. 10 di ulteriori tre mesi per ogni annualità in cui è stata effettuata la compensazione, dal 2006 al 2009; il Tribunale aveva quindi individuato, quale parametro di aumento per la continuazione, la misura di un sesto della pena massima contemplata; orbene, secondo la difesa, se il giudice di appello avesse applicato il medesimo parametro del primo giudice, avrebbe dovuto irrogare una pena non superiore a mesi 4, mentre, applicando un parametro pari a 5/3 della pena massima prevista, pari ad anni 2 di reclusione, è pervenuto a una illegittima reformatio in peius rispetto al trattamento della sentenza di primo grado.

Con l’undicesimo motivo, la difesa deduce l’erronea applicazione dell’art. 322 ter cod. proc. pen. e il vizio di motivazione in ordine alla statuizione avente ad oggetto la confisca per equivalente, quale pena accessoria: si rileva in particolare che la misura non poteva essere eseguita sul controvalore né dei beni personali degli imputati, né a maggior ragione dei beni di una società terza, perché partecipata dagli imputati, senza una propedeutica ricerca dell’esistenza del profitto diretto nella società che si era avvantaggiata del reato fiscale e che, oltre che operativa, era perfettamente capiente, essendo rimasto nelle sue casse il presunto risparmio di imposta derivante dall’utilizzo del credito iva. In ogni caso, conclude la difesa, l’accoglimento del sesto motivo comporterebbe la limitazione della confisca alla somma effettivamente compensata nei modelli F24, ammontante, nel 2009, ad euro 177.249, con restituzione delle somme solo detratte, ammontanti, nel 2009, ad euro 15.282.456,00. 2.1.1. In data 26 giugno 2018, il nuovo difensore di R. ha depositato due motivi nuovi.

Con il primo, eccepisce l’intervenuta prescrizione del reato, osservando che l’ultimo pagamento rilevante è individuabile nell’ultima compensazione ex art. 17 del d.lgs. 241/1997 operata nel 2009, unico anno cui si riferiscono i pagamenti contestati, non potendo concorrere nella consumazione del reato le compensazioni operate con il modello F24 nel 2010, perché non contestate. Individuato dunque il dies a quo nella data del 30 dicembre 2009, tria:03 alla luce dei periodi di sospensione susseguitisi, la prescrizione risulta maturata il 22 gennaio 2018; inoltre, nel richiamare il sesto motivo di ricorso, la difesa contesta l’impostazione della sentenza impugnata, scaturita dalla pronuncia di questa Corte relativa alla fase incidentale (Sez. 3, n. 42462 dell’Il novembre 2010) secondo cui devono essere considerate compensazioni penalmente rilevanti non solo quelle del credito Iva con tributi diversi dall’Iva, ma anche le detrazioni dell’Iva dovuta a debito del detto credito Iva, cioè l’utilizzo dilazionato in dichiarazione negli anni del credito Iva derivante da precedente dichiarazione annuale; orbene, secondo la prospettazione difensiva, non può essere condivisa l’inclusione di tutte le ipotesi di compensazione fiscale (compresa la cd. detrazione di imposta da imposta) nell’alveo della previsione di cui all’art. 17 del d. Igs. 241/1997, ostandovi sia la tecnica di formulazione di tale norma, che risponde al modello della legislazione casistica, riferendosi a specifici crediti e debiti tributari e previdenziali, tra cui non rientra la detrazione di cui all’art. 30 del d.P.R. 633/1972, sia il fatto che l’art. 17 comma 1 si riferisce alla compensazione con crediti dello stesso periodo, mentre, nel caso di utilizzo dell’eccedenza Iva da dichiarazione annuale, il credito può appartenere allo stesso periodo di imposta del debito compensato solo nel primo anno di evidenziazione del credito stesso, cioè quando il credito viene utilizzato per abbattere un debito di imposta dell’anno a cui si riferisce la dichiarazione da cui emerge anche il credito; quando invece l’eccedenza viene utilizzata, come nel caso di specie, ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 633/72 per abbattere debiti relativi a esercizi successivi, essa risulta utilizzata per un debito formatosi in un periodo diverso e successivo, per cui si è al di fuori del perimetro dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997, unica norma richiamata espressamente dall’art. 10 quater. Invero, il meccanismo di recupero nelle dichiarazioni successive dell’eccedenza Iva, previsto dall’art. 30 del d.P.R. 633/72, attiene più propriamente all’ambito della dichiarazione dell’imposta dovuta, e non al suo pagamento, per cui la collocazione dell’utilizzo di un credito inesistente ripreso in dichiarazione da un anno di imposta precedente per abbattere l’iva annuale, mediante il meccanismo della detrazione, può astrattamente integrare gli estremi di una dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3) o inF. (art. 4) e non dell’indebita compensazione, tanto più alla luce del fatto che, con la sentenza n. 35 del 21 febbraio 2018, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 quater, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d. Igs. 158/2015, nella parte in cui indica il limite di punibilità in € 50.000 anziché €150.000, ha altresì chiarito, dopo una puntuale esegesi della norma, che la condotta di utilizzo in dichiarazione di un credito di imposta inesistente, nel cui ambito rientra l’utilizzo dell’eccedenza Iva di precedenti annualità), costituisce fatto diverso da quello di indebita compensazione, astrattamente rilevante quale delitto in materia di dichiarazione (art. 3 e 4 del d. Igs. 74/2000) solo a partire dalle modifiche apportate dal d. Igs. 158/2015; dunque, nella denegata ipotesi in cui il reato non dovesse essere considerato estinto, la difesa insiste nell’accoglimento del sesto motivo di ricorso, con annullamento della sentenza impugnata al fine di operare una riduzione della pena, parametrata a una somma evasa pari a oltre il decuplo di quella compensata nei modelli F24 e della somma in sequestro, posto che dei 15.459.705 euro sequestrati, 15.282.456 sono stati utilizzati in detrazione.

Con il secondo motivo nuovo, la difesa di R. eccepisce la nullità della sentenza impugnata, per l’omessa citazione in grado di appello dell’imputato.

2.2. Anna Maria I., nel ricorso a firma dell’avv. Lucio Majorano, ha sollevato nove motivi.

Con il primo, la difesa lamenta la formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputata rispetto al delitto di cui all’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, evidenziando che la Corte aveva omesso di motivare sulle specifiche censure difensive, con cui era stato rilevato come non fosse in alcun modo provato che la I., dismessa la carica di amministratore formale della D. nell’ottobre 2003, abbia di fatto esercitato i poteri propri della funzione, non ricollegandosi per il resto compiti gestori alla veste di socia in seguito ricoperta dalla ricorrente.

Con il secondo motivo, la ricorrente eccepisce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., in quanto, a fronte di una contestazione di concorso materiale nel reato nella qualità di amministratrice di fatto ovvero di socia, la sentenza impugnata ha individuato per la ricorrente un diverso profilo di concorso morale per istigazione, per aver agito da istigatrice e mandante di coloro che avevano la rappresentanza formale e la gestione degli Enti. Con il terzo motivo, la difesa deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 569 cod. proc. pen., evidenziando che, alla prima difesa utile innanzi alla Corte di appello, era stato eccepito che la I. aveva presentato ricorso per saltum, per cui se ne imponeva la notifica alle altre parti processuali, a nulla rilevando la presenza dei soli difensori al dibattimento, risultando l’ordinanza di rigetto dell’eccezione difensiva, oltre che illogica, anche contraddittoria, nella parte in cui aveva comunque disposto lo stralcio della posizione di G., al fine di consentire la rinnovazione della notifica dell’estratto contumaciale.

Con il quarto e il quinto motivo, esposti congiuntamente, ad essere censurato è il giudizio di colpevolezza rispetto al delitto di cui all’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000; si osserva innanzitutto che la Corte territoriale non aveva affrontato le doglianze proposte nel ricorso immediato, convertito in appello, con il quale si era posta l’esigenza di valutare se la condotta contestata rientrasse nelle fattispecie elusive elencate dall’art. 37 bis del d.P.R. 600/73 e potesse essere sussunta nello schema degli art. 4 o 5 del d. Igs. 74/2000, dovendosi comunque escludere che potesse integrare la fattispecie di cui all’art. 10 quater.

Non affrontando la tematica dell’abuso del diritto, non sollevata negli altri appelli, la Corte aveva quindi omesso di considerare la puntuale critica difensiva. Si ribadisce al riguardo che la D. non aveva eseguito compensazione di iva con iva mediante modello F24, ma aveva consumato il proprio credito mediante detrazioni, secondo uno schema estraneo alla previsione di cui all’art. 10 quater. A differenza di quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, la compensazione verticale non sarebbe inoltre punibile ai sensi dell’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, punendo la norma solo i casi di compensazione orizzontale.

La difesa rileva inoltre che i crediti utilizzati dalla D. in detrazione erano conformi alle dichiarazioni e dunque sia esistenti che spettanti, precisando che l’esistenza del credito è correlata alla sua esposizione in dichiarazione, pur quando il credito medesimo derivi da una operazione che si assume fittizia.

Con il sesto motivo, viene eccepita la nullità della sentenza in ragione della nullità della notifica dell’estratto contumaciale, in quanto il tentativo di notifica era stato eseguito non presso il domicilio dichiarato nel corso del processo di primo grado, cioè Discesa Coroglio n. 2, ma in via Marechiaro sempre in Napoli, per cui era illegittimo il successivo deposito presso la Casa comunale.

Con il settimo motivo, la ricorrente contesta il diniego delle attenuanti generiche, nonostante il carattere assolutamente marginale del suo contributo causale e nonostante la sua condizione di incensurata senza carichi pendenti.

Con l’ottavo motivo, la ricorrente critica il trattamento sanzionatorio, rilevando che la Corte le aveva applicato una pena vicina al massimo edittale, senza considerare le deduzioni difensive in ordine al ruolo svolto nella vicenda. Con il nono motivo, viene infine censurata la superficiale valutazione della Corte di appello in ordine all’elemento soggettivo del reato, non essendosi i giudici di secondo grado confrontati con l’obiezione difensiva secondo cui il dolo generico richiesto dalla norma incriminatrice deve essere sorretto dalla necessaria consapevolezza che il credito dedotto in compensazione sia inesistente o non spettante, il che doveva essere escluso nel caso di specie, in considerazione della distanza della I. dalla gestione sociale, dalla non particolare rilevanza delle somme oggetto di restituzione all’imputata rispetto agli importi dedotti in compensazione e delle condizioni di incertezza normativa.

2.2.1. In data 31 luglio 2018, la difesa della I. (avv. Papa) ha depositato quattro motivi nuovi:

con il primo, viene invocata la prescrizione del reato contestato, maturata il 22 gennaio 2018, come indicato dalla stessa Corte di appello di Napoli, mentre, con i tre restanti motivi, si insiste nell’accoglimento del ricorso principale, richiamando, a sostegno delle deduzioni difensive circa l’insussistenza del reato di indebita compensazione e l’inapplicabilità della confisca per equivalente, la circolare n. 1/2017 del Comando generale della Guardia di Finanza, la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 36/E dell’8 maggio 2018 e soprattutto la sentenza n. 35 del 21 febbraio 2018, con cui la Corte costituzionale avrebbe confermato la tesi propugnata dalla difesa sin dalla fase incidentale (e ingiustamente respinta da questa Corte), secondo cui le compensazioni effettuate ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997 possono essere eseguite solo a mezzo di delega bancaria (mod. F24), per cui il reato non potrebbe ritenersi configurabile rispetto alle detrazioni effettuate in contabilità ex art. 19 del d.P.R. 633/1972, fermo restando che comunque la detrazione effettuata in contabilità non è soggetta a scadenza e non può trasformarsi in compensazione se effettuata oltre il secondo anno dalla maturazione del credito.

2.2.2. In data 27 agosto 2018, il codifensore della I. (avv. Majorano) ha depositato altri due motivi nuovi, con il primo dei quali sollecita l’annullamento senza rinvio della sentenza per essere il reato estinto per prescrizione, osservando che la Corte di appello ha affermato che il tempus commisi delicti va determinato nella data indicata nell’imputazione e vada fissato nell’ultimo giorno dell’anno riportato nella contestazione; essendosi formato il giudicato parziale sul punto della decisione inerente la data di consumazione dei reati, deve pertanto pervenirsi alla conclusione che, pur a voler tener conto dei 206 giorni di sospensione, il reato residuo si è estinto per prescrizione il 22 gennaio 2018.

Con il secondo motivo nuovo, la difesa insiste nell’accoglimento del ricorso principale, ribadendo che la Corte di appello si era riportata integralmente alla sentenza resa da questa Corte nella fase incidentale, che tuttavia aveva confuso il termine di due anni entro il quale il contribuente deve registrare la fattura passiva per far sorgere il diritto alla detrazione, in alternativa al rimborso, con il riporto a nuovo dell’eccedenza iva da un anno a quello successivo (cd. trascinamento) che non è soggetto ad alcuna scadenza, perché l’iva deve essere sterilizzata fino alla neutralità, come ampiamente chiarito nei giudizi di merito.

2.3. E. G. ha sollevato tredici motivi. Con il primo, viene eccepita la violazione degli art. 548, 171 lett. D e 178 lett. C cod. proc. pen., evidenziandosi che, stante l’omessa notifica dell’estratto contumaciale all’imputato, era necessaria la trasmissione del fascicolo al Tribunale in luogo della rinnovazione della notifica operata dalla Corte di appello. Omettendo di trasmettere il fascicolo al Giudice monocratico, la Corte aveva dunque compromesso l’esercizio del diritto di impugnazione personale dell’imputato, non disponendo peraltro la rinnovazione della notifica del decreto di fissazione dell’appello, oltre che nei confronti di G., anche ai difensori.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli art. 137, 142 e 50 disp. att. cod. proc. pen., rilevando che i verbali stenotipici non erano stati sottoscritti in alcuna pagina né dal giudice, né dal cancelliere, né dall’ausiliario.

Con il terzo motivo, la difesa deduce la violazione degli art. 431 e 491 cod. proc. pen., dolendosi dell’utilizzo da parte del primo giudice dei verbali di constatazione della Guardia di Finanza, nonostante l’eccezione difensiva.

Con il quarto motivo, viene censurata la violazione degli art. 23 e 24 cod. proc. pen. e 10 e 18 del d. Igs. 74/2000, deducendosi l’illegittimità della sentenza impugnata, nella parte in cui aveva confermato l’ordinanza con cui il Tribunale di Nola aveva rigettato l’eccezione di incompetenza territoriale rispetto al delitto di cui all’art. 10 del d.lgs. 74/2000, che si era consumato a Casoria, sede della D., ovvero in un Comune all’epoca rientrante nella giurisdizione del Tribunale di Napoli, non potendosi ritenere che la successiva riunione dei procedimenti penali abbia superato l’eccezione difensiva, posto che l’ordinanza di rigetto dell’eccezione è stata emessa prima della riunione dei due procedimenti.

Con il quinto motivo, oggetto di censura è la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., non avendo la Corte territoriale operato alcuna valutazione del materiale probatorio, ritenendo apoditticamente esaustiva la motivazione della prima sentenza, nonostante la stessa si sia esaurita nel recepire acriticamente le sentenze emesse dalla Suprema Corte nell’ambito della vicenda cautelare reale.

Con il sesto motivo, il ricorrente contesta la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in base al rilievo secondo cui ciò che il Tribunale aveva stabilito assolvendo gli imputati dal reato di cui all’art. 3 del d. Igs. 74/2000, cioè che l’ordinamento non contempla quale reato l’appostazione in dichiarazione del credito iva generato da un costo fittizio, valeva in realtà per l’intera e inscindibile operazione di trascinamento del riporto, dunque anche per l’utilizzo del credito, che il Tribunale aveva invece sussunto nel reato previsto dall’art. 10 quater del d.lgs. 74/2000.

Con il settimo motivo, sono dedotti il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 10 quater del d.lgs. 74/2000, asserendosi l’illegittimità della sentenza di appello nella parte in cui, omettendo di valutare le doglianze difensive, aveva ritenuto che il reato di indebita compensazione inerisce sia le operazioni di detrazioni che quelle di compensazione, non avendo la Corte territoriale tenuto conto del fatto che il delitto contestato non sussiste, se la compensazione è effettuata mediante l’utilizzo di un credito iva proveniente da riporto regolarmente indicato nella dichiarazione e scevro da qualsivoglia fraudolenza, fermo restando che la fittizietà del costo che ha generato il credito non rende punibile anche l’utilizzo del riporto, in quanto la prima condotta, punita ai sensi dell’art. 2 del d. Igs. 74/2000 assorbe per consunzione la seconda, per cui nel caso di specie si imponeva una pronuncia di ne bis in idem, essendovi prova che si era proceduto separatamente per la fittizia apposizione del costo.

Con l’ottavo motivo, la difesa censura l’illegittimità della sentenza di appello, nella parte in cui aveva rigettato la doglianza difensiva, secondo cui la sanzione penale concorre con quella amministrativa, ciò in violazione dell’art. 19 del d. Igs. n. 74 del 2000 e della sentenza cd. “Grande Stevens” della C.E.D.U.;

Con il nono motivo, oggetto di doglianza sono il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 10 quater del d.lgs. 74/2000, asserendosi l’illegittimità della sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che il reato di indebita compensazione “copre” sia le operazioni di detrazione ex art. 19 del d.P.R. 633/1972, sia quelle di compensazione ex art. 17 del d. Igs. 241/1997, essendosi ripiegata la motivazione dei giudici di appello sull’erronea impostazione della pronuncia resa da questa Corte in sede incidentale.

Con il decimo motivo, la difesa lamenta il vizio motivazionale della sentenza della Corte di appello, nella parte in cui ha affermato che il credito esposto nella dichiarazione relativa al 2009 fosse stato generato da un costo fittizio appostato nella dichiarazione relativa al 2002, sebbene per l’annualità 2009 non sia stata eseguita alcuna verifica fiscale, avendo la Guardia di Finanza verificato le sole annualità comprese dal 2002 al 2006.

Con l’undicesimo motivo, ad essere censurato è il giudizio sulla sussistenza del dolo, non avendo la sentenza impugnata tenuto conto della distinzione tra la registrazione di un costo fittizio, nella specie condonata, e la trasparente appostazione del credito e il suo F. riporto per “trascinamento” nelle dichiarazioni successive, elementi che confermavano la buona fede dei ricorrenti.

Che l’utilizzo del credito fosse sorretto dalla convinzione degli imputati di agire in buona fede, era del resto comprovato anche dal fatto che gli amministratori giudiziari hanno in seguito continuato a loro volta a utilizzare quel credito iva. Con il dodicesimo motivo, sono dedotti il vizio di motivazione e la violazione dell’art. 15 del d.lgs. 74/2000, non condividendosi l’affermazione della Corte di appello secondo cui non vi sarebbe incertezza nella presente vicenda tributaria, mentre in realtà l’originario credito si era cristallizzato iva in forza dell’adesione al condono, il credito non era più contestabile stante il suo consolidamento per lo spirare dei termini massimi di accertamento e peraltro l’Agenzia aveva proceduto alla sola rettifica del credito, ricalcolandone l’importo mediante avvisi bonari.

Con il tredicesimo motivo, infine, la difesa si duole del trattamento sanzionatorio, contestando in particolare il diniego delle attenuanti generiche e l’eccessività della pena irrogata.

CONSIDERATO IN DIRITTO

I ricorsi sono infondati, ma la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il residuo reato è estinto per prescrizione.

  1. Devono essere affrontate in primo luogo le doglianze di tipo processuale, che invero sono accomunate dall’essere tutte manifestamente infondate.

1.1 Iniziando da quelle proposte nell’interesse di R. e partendo dall’eccezione relativa alla mancata citazione dell’imputato per il processo di secondo grado, occorre rilevare che, a differenza di quanto dedotto dalla difesa, l’appellante ha ritualmente ricevuto la notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, come risulta dalla relata di notifica a mani proprie redatta dai Carabinieri della Stazione di Napoli Posillipo il 18 maggio 2016, alle ore 20.58.

Di qui la manifesta infondatezza dell’eccezione difensiva.

1.1.1. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi rispetto all’eccezione relativa alla mancata rimessione in termini dell’imputato ai fini della reiterazione dell’atto di impugnazione proposto personalmente avverso la sentenza di primo grado. Dalla disamina del fascicolo processuale, consentita anche in tal caso dalla natura dell’eccezione sollevata, emerge infatti che, nel corso del giudizio di appello, all’udienza del 31 ottobre 2016, la difesa di R. rappresentava che l’imputato aveva presentato personalmente un atto di appello presso l’Ufficio del Giudice di Pace di Ischia, senza che tale impugnazione sia stata considerata dalla Corte territoriale, non essendovene traccia nel fascicolo processuale. Preso atto che alla successiva udienza del 7 novembre 2016 la difesa integrava la propria istanza depositando, oltre alla copia del frontespizio del gravame, anche copia del registro di passaggio dell’Ufficio del Giudice di Pace di Ischia, attestante la spedizione dell’impugnazione in data 28 gennaio 2015, la Corte di appello onerava la Cancelleria di verificare se presso il Tribunale di Nola sia mai pervenuto l’atto di appello presentato personalmente da R.. All’udienza del 23 novembre 2016, la Corte territoriale dava atto della nota trasmessa dalla Cancelleria del Tribunale di Nola, da cui si evinceva che tutti gli atti di appello ivi pervenuti erano stati trasmessi alla Corte di appello, figurando tra questi quello presentato dai difensori di fiducia di R., mentre di quello depositato dall’imputato personalmente continuava a non esservi traccia. A questo punto, la Corte territoriale, per superare lo stallo, invitava i difensori di R. a produrre, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. pen., la copia autentica dell’atto di appello dell’imputato e, preso atto della dichiarazione di indisponibilità da parte del difensore di R., sollecitava i difensore a produrre, ex art. 113 cod. proc. pen., anche un’eventuale copia non autentica dell’impugnazione. A seguito di tale sollecitazione, il difensore si impegnava a produrre tale atto depositandolo nella Cancelleria della Corte di appello entro il 15 dicembre 2016.

Si perveniva così all’udienza del 21 dicembre 2016, nel corso della quale il difensore di R. rappresentava che il suo assistito non gli aveva fornito. alcun atto di appello e che pertanto non era in grado di poter consentire la ricostituzione del fascicolo secondo quanto prescritto dalla Corte di appello. Preso atto di ciò, il Presidente della Corte disponeva procedersi oltre, dando la parola al Sostituto Procuratore generale per la sua requisitoria, essendo stata già svolta in precedenza la relazione della causa.

Orbene, così ricostruito l’iter processuale, la doglianza difensiva relativa alla mancata rimessione in termini dell’imputato risulta inammissibile, in quanto dalla lettura del verbale di udienza, la cui falsità non è stata denunciata, non emerge affatto che vi sia stata una richiesta in tal senso da parte della difesa di R., che si è limitata a dare atto della indisponibilità della copia dell’atto di appello e, di conseguenza, dell’impossibilità di consentire, ai sensi dell’art. 113 cod. proc. pen., la ricostituzione dell’atto di impugnazione personale di R.

La richiesta difensiva di remissione in termini, in definitiva, compare solo nell’odierno motivo di ricorso, ma non trova alcun riscontro negli atti processuali, per cui la censura è palesemente infondata, tanto più ove si consideri che, a fronte dell’eccezione difensiva, la Corte di appello di Napoli ha attivato tutti i rimedi esperibili per recuperare l’atto di impugnazione presentato personalmente da R. presso l’Ufficio di Pace di Ischia, fermandosi solo dinanzi alla presa d’atto dell’oggettiva impossibilità, anche per la mancanza di elementi utili forniti in tal senso dalla difesa, di procedere alla ricostituzione dell’atto di gravame.

1.1.2. Quanto all’ulteriore eccezione relativa all’asserita violazione degli art.420 bis cod. proc. pen. e 178 lett. C cod. proc. pen. per l’omessa notifica all’imputato del provvedimento che lo autorizzava a comparire dinanzi al Tribunale di Nola libero e senza scorta, risulta corretta la risposta della Corte di appello, la quale ha richiamato la condivisa affermazione di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 28620 del 23/06/2015, Rv. 264044 e Sez. 5, n. 13184 del 02/02/2001, Rv. 218391), secondo cui l’autorizzazione concessa all’imputato agli arresti domiciliari di recarsi, senza scorta, in udienza non richiede alcuna comunicazione formale a quest’ultimo, dal momento che, da un lato, costituisce onere dell’interessato attivarsi per richiedere detta autorizzazione, dall’altro, una volta che detta autorizzazione sia stata rilasciata, spetta comunque all’imputato richiedere copia del provvedimento, ove ritenga utile disporne.

Dunque, premesso che R., una volta sottoposto agli arresti domiciliari per altra causa, è stato autorizzato, su sua richiesta, a recarsi in udienza libero e senza scorta per le udienze del 9 dicembre 2013 e del 13 gennaio 2014, deve ritenersi irrilevante la circostanza che l’imputato non abbia ricevuto una formale comunicazione di tale autorizzazione, in quanto lo stesso, peraltro assistito da due difensori di fiducia, aveva l’onere di attivarsi per ottenere, se lo avesse ritenuto necessario, una copia del provvedimento autorizzatorio rilasciatogli. La doglianza è dunque manifestamente infondata, risultando non pertinente il richiamo difensivo alla giurisprudenza di questa Corte che ha trattato la diversa questione del dovere del giudice di differire la trattazione del processo laddove abbia contezza, pur in assenza di un’istanza formale dell’imputato, dell’eventuale status detentionis di quest’ultimo, tema questo estraneo al presente giudizio, in quanto la sopravvenuta condizione detentiva di R. era stata formalmente rappresentata al Giudice, il quale ha poi accolto la successiva richiesta difensiva di autorizzare l’imputato a comparire libero e senza scorta in udienza. Da questo momento alcun ulteriore onere era ravvisabile a carico del Giudice, per cui deve escludersi che vi sia stata una lesione delle prerogative difensive.

1.1.3. Anche la doglianza riguardante il rigetto dell’eccezione di incompetenza territoriale è manifestamente infondata. La Corte di appello ha infatti correttamente rilevato che le distinte eccezioni di incompetenza sollevate nei procedimenti penali poi riuniti non potevano che essere valutate alla luce della successiva riunione, legittimamente disposta ex art. 12 comma 1 lett. b cod. proc. pen., per evidenti ragioni di connessione. Orbene, una volta operata la riunione dei due procedimenti penali instaurati autonomamente, il reato più grave tra quelli in contestazione (art. 3, 10 e 10 quater del d. Igs. 74/2000) è risultato essere quello di cui all’art. 3, in considerazione del più elevato limite edittale della pena massima, per cui la competenza per territorio è stata individuata, ai sensi dell’art. 18 comma 2 del d. Igs. n. 74 del 2000, con riferimento al giudice del luogo in cui la società D. aveva il domicilio fiscale al momento della presentazione della prima dichiarazione, ovvero San Giuseppe Vesuviano, dovendosi ritenere quindi legittimamente radicata la competenza territoriale presso il Tribunale di Nola.

Ciò posto, alcun rilievo presenta la circostanza che, all’esito del giudizio di merito, sia intervenuta l’assoluzione degli imputati (peraltro irrevocabile) dal più grave reato di cui all’art. 3, avendo la Corte di appello richiamato in modo pertinente l’orientamento della giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 3662 del 21/01/2016, Rv. 265783), secondo cui, in tema di competenza, il vincolo tra i reati, determinato dalla connessione, costituisce criterio originario e autonomo di attribuzione di competenza indipendentemente dalle successive vicende relative ai procedimenti riuniti: ne deriva che la competenza così radicatasi resta invariata per tutto il corso del processo, per il principio della “perpetuatio iunsdictionis”, anche in caso di assoluzione dell’imputato dal reato più grave che aveva determinato la competenza anche per gli altri reati.

1.2 Manifestamente infondate sono anche le eccezioni processuali sollevate dalla difesa di I. Am..

1.2.1 Partendo dall’eccezione relativa all’asserita violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 cod. proc. pen., deve rilevarsi che, nel caso di specie, non è configurabile alcuna eterogeneità tra il fatto contestato all’imputata e quello per cui la stessa è stata condannata.

La I. è stata infatti accusata di aver concorso con il marito R., ai sensi dell’art. 110 cod. pen., nel delitto di indebita compensazione commesso da G., agendo sia la I. che R. nella qualità di soci e amministratori di fatto della Sagar s.r.I., di cui G. era legale rappresentante. La condanna del Tribunale, confermata dalla Corte di appello, risulta coerente con l’impostazione accusatoria, non avendo i giudici di merito modificato né il titolo di reato, né la veste operativa in cui hanno agito i ricorrenti, di cui è stato unicamente puntualizzato il ruolo assunto nella dinamica delle condotte illecite, alla stregua delle risultanze acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale.

In definitiva, la responsabilità a titolo concorsuale dell’imputata rispetto al delitto tributario contestato non ha conosciuto nell’impostazione argomentativa della sentenza alcuna significativa modifica rispetto al tenore dell’imputazione, non risultando affatto incompatibile con la struttura della contestazione l’indicazione degli imputati I. e R. quali beneficiari dell’operazione illecita, essendo tale veste pienamente sovrapponibile a quella di concorrenti esterni del reato.

Deve senz’altro escludersi pertanto la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., dovendosi richiamare la reiterata affermazione di questa Corte (Sez. 5, n. 18770 del 22/12/2014, Rv. 264073), secondo cui, per aversi violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, occorre che il fatto ritenuto dal giudice sia mutato, rispetto a quello contestato nella imputazione, nei suoi elementi essenziali, in modo tanto determinante da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa, il che nel caso di specie non può ritenersi affatto avvenuto.

1.2.2. La doglianza inerente la nullità della notifica all’imputata dell’estratto contumaciale della sentenza impugnata è inammissibile, innanzitutto perché il ricorso sconta evidenti limiti di autosufficienza, non essendo prodotto alcuno degli atti processuali richiamati, che era onere della difesa allegare al ricorso. In ogni caso, al di là del fatto che la ricorrente non ha specificato quale sia il suo interesse a far valere in questa sede la presente eccezione, posto che, all’epoca della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza impugnata (novembre 2017), era già inibito alla parte di proporre ricorso personale per cassazione, non può sottacersi che la notifica dell’estratto contumaciale è stata ritualmente tentata presso l’indirizzo di residenza dell’imputata, dove è stata validamente eseguita la notifica del decreto di citazione per il giudizio di appello, risultando dagli atti processuali disponibili che la I., all’epoca del processo di secondo grado, coabitava con il marito R. non alla discesa Coroglio n. 2, ma in via Marechiaro 2L, cioè proprio nel luogo dove, il 3 e il 7 novembre 2017, sono stati esperiti i due tentativi di notifica dell’estratto, prima del deposito del plico nella casa comunale e della spedizione dell’avviso all’imputata tramite raccomandata.

1.2.3. Manifestamente infondata è anche l’eccezione relativa alla presunta inosservanza dell’art. 569 cod. proc. pen., rispetto all’omessa notifica alle altre parti del ricorso per saltum presentato dalla ‘ovino, avendo la Corte di appello correttamente richiamato il principio espresso dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un. n. 12878 del 29/01/2003, Rv. 223724 e in seguito Sez. 5, n. 31408 del 04/06/2004, Rv. 229276), secondo cui l’omessa notificazione alla parte privata dell’impugnazione proposta da altra parte non dà luogo all’inammissibilità del gravame, ma solo all’obbligo della cancelleria di provvedere alla notifica non eseguita, salvo che risulti altrimenti, in capo al destinatario di essa, la conoscenza dell’atto di impugnazione, conoscenza nel caso di specie desunta, ragionevolmente, dal contraddittorio instauratosi nel processo di appello attraverso la qualificata presenza dei difensori di fiducia delle altre parti private, fermo restando che, anche in tal caso, a seguito della conversione del ricorso in appello, alcun reale pregiudizio risulta concretizzatosi in danno della ricorrente.

1.3 Le doglianze di natura processuale sollevate da G. sono parimenti inammissibili per manifesta infondatezza.

1.3.1. Quanto al primo profilo, riguardante la presunta violazione degli art. 171 lett. d, 178 lett. c e 548 cod. proc. pen., occorre evidenziare che, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, la Corte di appello, all’udienza del 31 ottobre 2016, preso atto dell’omessa notifica dell’estratto contumaciale all’imputato, ha disposto la separazione della sua posizione processuale, disponendo la notifica dell’estratto contumaciale e attendendo di conseguenza il decorso dei termini per proporre eventualmente appello, mentre all’udienza del 5 giugno 2017, il nuovo procedimento di secondo grado a carico di G. veniva riunito al principale.

Da tale scansione processuale emerge dunque che alcuna lesione del diritto di difesa è ravvisabile in danno del ricorrente, il quale, ricevuta la notifica dell’estratto contumaciale, aveva la facoltà di proporre appello personalmente, non risultando affatto dirimente, anche perché non presidiata da alcuna sanzione processuale, la circostanza che alla notifica dell’estratto contumaciale abbia materialmente provveduto non il Tribunale, ma direttamente la Corte territoriale.

Del tutto generica e dunque inammissibile è poi l’ulteriore doglianza, relativa a questo tema, secondo cui la Corte di appello avrebbe dovuto rinnovare il decreto di citazione sia nei confronti dell’imputato che dei difensori, non avendo neanche la difesa illustrato le ragioni poste a fondamento di tale affermazione.

1.3.2. Passando al secondo motivo del ricorso di G., concernente la dedotta nullità della sentenza di primo grado per la mancata sottoscrizione dei verbali stenotipici, è sufficiente in questa sede richiamare l’ormai consolidato indirizzo interpretativo della Suprema Corte, fatto proprio dalla Corte di appello partenopea, secondo cui, in tema di documentazione degli atti, bisogna distinguere il verbale riassuntivo, che deve necessariamente essere sottoscritto a pena di nullità ai sensi dell’art. 142 cod. proc. pen dall’ausiliario del giudice, dalla trascrizione stenotipica delle udienze o dal testo delle relative registrazioni, i quali costituiscono documenti che devono essere uniti agli atti del processo insieme ai nastri; in questo ultimo caso, l’omessa sottoscrizione da parte del tecnico non è prevista a pena di nullità, anche perché è sempre possibile procedere a una rilettura o trascrizione dei nastri allegati agli atti. (cfr. ex multis Sez. 4, n. 19487 del 05/11/2013, dep. 2014, Rv. 262349, Sez. 5, n. 6785 del 16/01/2015, Rv. 262689 e Sez. 6, n. 26018 del 10/03/2008, Rv. 241043).

A ciò va solo aggiunto che il motivo di ricorso è palesemente contraddittorio, perché prima ci si duole dell’omessa sottoscrizione dei verbali stenotipici e subito dopo si deduce che i verbali non sottoscritti sarebbero in realtà quelli di udienza, tema questo che tuttavia non è stato dedotto in sede di appello, posto che in quella sede la censura difensiva riguardava soltanto i verbali stenotipici.

La rilevata incoerenza del motivo, al di là dei suoi pur evidenti limiti di autosufficienza, costituisce un ulteriore profilo di inammissibilità della doglianza.

1.3.3. Anche il terzo motivo di ricorso di G., con cui è stata contestata la violazione degli art. 431 e 491 cod. proc. pen., è palesemente infondato. Ed invero vale anche in questa sede il rilievo operato già dalla Corte territoriale circa l’assoluta genericità della doglianza, non avendo la difesa specificato quali sarebbero i singoli documenti della cui acquisizione ci si duole e in che modo avrebbero influito sulla decisione del giudice di primo grado, avendo in tal senso osservato la Corte di appello, in relazione all’analoga e ben più specifica sollevata dalla difesa di R., che, pur a fronte dell’ingresso materiale nel fascicolo per il dibattimento dei verbali di constatazione redatti nella fase investigativa, in realtà gli elementi di prova posti a fondamento del giudizio di colpevolezza degli imputati sono stati raccolti ex novo in dibattimento, nel contraddittorio delle parti, mediante molteplici acquisizioni sia documentali che dichiarative, per cui, al di là di ogni approfondimento circa l’utilizzabilità in astratto dei predetti verbali, in concreto alcuna lesione delle prerogative difensive si è realizzata.

1.3.4. In ordine alla dedotta violazione degli art. 23 e 24 cod. proc. pen. e 10 e 18 del d. Igs. 74/2000, devono richiamarsi le considerazioni già espresse al punto 1.1.3, essendo stata formulata la censura relativa alla competenza per territorio in termini analoghi alla doglianza sollevata dalla difesa di R..

1.3.5. Completamente infondata e dunque inammissibile è anche l’ulteriore doglianza relativa all’asserita apparenza della motivazione della sentenza di primo grado che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, nelle sue 110 pagine, lungi dal recepire acriticamente il contenuto della pronuncia resa da questa Corte nel giudizio cautelare, ha operato una puntuale disamina delle risultanze istruttorie, affrontando in maniera critica, per ciascuna delle tre fattispecie contestate, una pluralità di questioni processuali e sostanziali e pervenendo, sia in punto di ricostruzione dei fatti che di qualificazione giuridica degli stessi, a conclusioni coerenti e (come si vedrà più avanti) pienamente condivisibili, all’esito di un solido percorso argomentativo tutt’altro che apparente e apodittico, per cui la doglianza difensiva, formulata peraltro in termini vaghi e assertivi, risulta assolutamente destituita di fondamento.

  1. Esaurita la disamina delle questioni processuali, è ora possibile affrontare i motivi di ricorso concernenti le censure dei ricorrenti, invero tra loro sovrapponibili, relative alla configurabilità del reato di indebita compensazione.

Prima di soffermarsi sul merito delle doglianze, si ritiene tuttavia utile un breve richiamo alla ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito, ricostruzione che invero, almeno nella sua dimensione fattuale, non è oggetto di contestazione, essendo controversa soprattutto la qualificazione giuridica della condotta e, secondariamente, la sua ascrivibilità agli odierni ricorrenti.

2.1. Orbene, circoscrivendo i fatti alla sola vicenda riguardante l’indebita compensazione, occorre evidenziare che, come risulta dalle due conformi decisioni di merito, la D. s.r.I., con sede in San Giuseppe Vesuviano, società di cui era legale rappresentante E. G. fu oggetto nel 2007 di una segnalazione da parte del Centro Operativo dell’Agenzia delle Entrate di Venezia alla sede di Nola dell’Agenzia delle Entrate, in quanto figurava tra le società che vantavano nei confronti dello Stato crediti iva per importi elevatissimi. Dalla verifica svolta dall’Agenzia delle Entrate di Nola risulta in effetti che la D., nella dichiarazione ai fini iva e imposte dirette relativa all’anno di imposta 2002, aveva indicato un credito iva di 146 milioni di euro, scaturente da una base imponibile di 730 milioni di euro; tale credito veniva poi “trascinato” nelle successive dichiarazioni relative agli anni di imposta dal 2003 al 2009.

L’istruttoria dibattimentale ha consentito di accertare l’inesistenza di tale credito, posto che la D. s.r.l. non è stata attiva fino al 2004, iniziando a operare solo nel 2005, interponendosi con altre società del gruppo per l’acquisto da rivenditori extra UE di acciaio finalizzato alla produzione di cemento armato.

La D. aveva dunque intrapreso la sua attività con una riserva di credito iva verso lo Stato, che aveva poi compensato con l’iva a debito negli anni successivi, fino al 2009, mentre le operazioni commerciali intercorse a partire dal 2005 con le società facenti parti del medesimo gruppo dirigente dovevano essere considerate fittizie, essendosi interposta la D., priva di un’adeguata struttura operativa, negli acquisti di merci extra UE in assenza di alcuna giustificazione imprenditoriale e di vantaggi economici, se non quelli concernenti il risparmio di imposta che ne era derivato per sé e le altre società del gruppo.

Non appare in ogni caso rilevante il fatto che gli anni di imposta 2002 e 2009 non siano stato oggetto di una specifica verifica fiscale, posto che l’inesistenza del credito iva asseritamente maturato in quel periodo è stata ampiamente comprovata dagli accertamenti sulla mancata operatività della società in quegli anni e sull’assenza di valide giustificazioni commerciali per l’insorgenza di quel credito, non essendo altresì dubitabile che il credito trascinato dal 2003 in poi fosse proprio quello evidenziato per la prima volta nella dichiarazione del 2002, posto che il credito utilizzato in compensazione corrisponde, anno per anno, al residuo del credito risultante dopo le compensazioni dell’anno precedente, partendo proprio dalla cifra iniziale di 146 milioni di euro di cui all’Unico 2003.

Né le risultanze probatorie acquisite sono state smentite dalla difesa, avendo i giudici di merito osservato, con motivazione non illogica, che i ricorrenti non hanno esibito documentazione fiscale utile allo scopo, aggiungendo come non fosse significativa la circostanza che l’oggetto sociale della D. ricomprendesse anche la vendita di rottami ferrosi, assumendo rilievo ai fini fiscali solo il codice di attività che viene comunicato all’Agenzia delle Entrate e non quanto risulta dallo statuto societario, per cui, con specifico riferimento all’operazione imponibile di 730 milioni di euro, da cui sarebbe maturato il credito iva di 146 milioni, il dato saliente era che la società aveva fatto riferimento a un codice esclusivo inerente la vendita di beni immobili, il che, unitamente agli accertamenti svolti circa l’assenza all’epoca di una struttura societaria, eliminava ogni dubbio circa la natura fittizia dell’operazione posta a base del credito.

Non può invece in alcun modo condividersi l’affermazione difensiva secondo cui “l’esistenza del credito è correlata alla sua esposizione in dichiarazione, pur derivando da una operazione che si assume fittizia” (motivo quinto del ricorso della I.), correlandosi l’esistenza di un credito tributario non certo alla sua mera ed eventualmente falsa rappresentazione esteriore, ma piuttosto alla sua intrinseca configurabilità per effetto di una lecita operazione economica.

In quest’ottica, deve ritenersi invece corretto il rilievo della sentenza resa da questa Corte nella fase incidentale (e ripreso nella sentenza impugnata), in forza del quale l’effetto di “inveramento” del credito e la conseguente legittimazione delle successive operazioni di “trascinamento” negli anni successivi, con le relative operazioni di detrazione/compensazione, avrebbero potuto scaturire solo dall’effettivo pagamento all’Agenzia delle Entrate della somma di 146 milioni di euro corrispondente all’ammontare originario del credito inesistente, il che nel caso di specie non è mai avvenuto, nonostante le iniziative formali dell’Agenzia.

Stante la conclamata inesistenza del credito iva, “trascinato” nelle dichiarazioni successive al 2002 e di volta in volta decurtato con l’iva a debito, fino a raggiungere l’importo di € 27.798.643,00 nella dichiarazione 2010, è stata dunque ritenuta sussistente a carico degli odierni imputati la fattispecie di cui all’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, naturalmente a partire dall’Unico 2007, ovvero dall’entrata in vigore della norma incriminatrice, introdotta dal decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006, convertito dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006. 2.2. Il giudizio sulla configurabilità del reato è stato invero già formulato in sede cautelare da questa Sezione della Corte con la sentenza n. 42462 dell’Il novembre 2010, peraltro massimata (Rv. 248754), sentenza che è stata ripresa e condivisa sia dal Tribunale di Nola che dalla Corte di appello di Napoli.

Con tale pronuncia è stato affermato, per quanto in questa sede rileva, che il reato di indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti è configurabile sia in caso di compensazione orizzontale (ossia riguardante crediti e debiti di imposta di natura diversa), sia nel caso di compensazione verticale (ossia riguardante crediti e debiti afferenti la medesima imposta). Al riguardo è stata infatti richiamata la struttura della norma incriminatrice, nella versione ovviamente all’epoca vigente («la disposizione di cui all’articolo 10 bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti»), osservandosi che l’art. 17 del d. Igs. 9 luglio 1997, n. 241, menzionato dall’art. 10 quater, non limita in alcun modo la facoltà del contribuente di procedere alla compensazione di postazioni di debito o credito afferenti alla medesima imposta (cd. compensazione verticale), essendo l’innovazione introdotta dalla disposizione citata costituita proprio dal superamento del concetto di compensazione tradizionale tra debiti e crediti di imposta della stessa natura (compensazione cd. verticale), mediante l’estensione della facoltà di compensazione anche a debiti e crediti di natura diversa, nonché alle somme dovute agli enti previdenziali, dovendosi cioè ritenere che l’art. 17 ha solo allargato le ipotesi di compensazione già previste dalle norme tributarie, senza prevedere che l’istituto possa trovare applicazione solo relativamente a tributi della stessa specie o di specie diversa.

Peraltro, con la pronuncia resa nella fase incidentale, la Corte ha escluso che nel caso di specie si vertesse in materia di detrazione “legittima” ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, osservando che l’istituto della detrazione dell’iva, che peraltro ha anche esso natura sostanzialmente compensativa (verticale), trova la sua ratio nella necessità di realizzare la sterilizzazione dell’imposta sul valore aggiunto, attraverso un meccanismo semplificato, in modo da farne ricadere gli effetti esclusivamente sul consumatore finale. Proprio in ragione di tale funzione, si è quindi ritenuto che la detrazione è destinata a operare “sul breve periodo”, facendo recuperare al venditore immediatamente l’imposta versata sia da questi che dall’acquirente. In quest’ottica è stato infatti sottolineato che l’art. 19 comma 1 del d.P.R. n. 633 del 1972 stabilisce espressamente che “il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto alla detrazione è sorto e alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo”.

Pertanto, ha concluso la sentenza sopra richiamata, allorché il credito della predetta imposta venga ulteriormente utilizzato nel corso degli anni successivi per soddisfare posizioni debitorie nei confronti dell’Erario riguardanti la medesima imposta, come avvenuto nella vicenda in esame, non si può neppure parlare di detrazione dell’iva, trattandosi a tutti gli effetti di una compensazione ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241/97, tra l’imposta dovuta e il credito residuo di imposta che il contribuente assumeva di vantare nei confronti dell’Erario, con conseguente configurabilità della fattispecie di cui all’art. 10 quater. Orbene, tale opzione ermeneutica, fatta propria dai giudici di merito, è stata fortemente criticata non solo dai ricorrenti, ma anche e prima ancora dalla Dottrina, come ampiamente documentato dalla difesa anche in questo giudizio. Gli argomenti di critica sono quelli esposti in precedenza: l’utilizzo dilazionato in dichiarazione negli anni del credito iva, derivante da precedente dichiarazione annuale, non potrebbe essere incluso nella nozione di compensazione fiscale di cui all’art. 17 del d. Igs. 241/1997, che si riferisce, secondo il modello della legislazione casistica, a specifici crediti e debiti tributari e previdenziali, tra cui non rientra la detrazione di cui all’art. 30 del d.P.R. 633/1972; l’art. 17 comma 1 contemplerebbe quindi la sola compensazione con crediti dello stesso periodo, mentre, nel caso di utilizzo dell’eccedenza Iva da dichiarazione annuale, il credito può appartenere allo stesso periodo di imposta del debito compensato solo nel primo anno di evidenziazione del credito stesso, cioè quando il credito viene utilizzato per abbattere un debito di imposta dell’anno a cui si riferisce la dichiarazione da cui emerge anche il credito; quando invece l’eccedenza viene utilizzata ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. 633/72 per abbattere debiti relativi a esercizi successivi, essa risulta utilizzata per un debito formatosi in un periodo diverso e successivo, per cui si sarebbe al di fuori del perimetro dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997, unica norma richiamata espressamente dall’art. 10 quater. In definitiva, l’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000 sanzionerebbe solo le operazioni di compensazione “orizzontale” ex art. 17 del d. Igs. 241/97, effettuate mediante presentazione di delega bancaria, cd. modello F24, per estinguere debiti tributari relativi a imposte diverse e non anche le operazioni di detrazione di cui all’art. 19 del d.P.R. 633/72, effettuate in contabilità e poi trasposte nella dichiarazione, tanto più che l’utilizzo dell’eccedenza non ha alcun limite temporale, valendo il limite dei due anni solo per la registrazione della fattura passiva generante il credito, essendo assoggettabile a termine perentorio solo la compensazione. Al più, nel caso di specie, avrebbe potuto contestarsi altro tipo di reato, ovvero quello di dichiarazione fraudolenta o inF., ma non quello ex art. 10 quater.

2.3 Ora, premesso che ogni sentenza resa da questa Corte nella fase cautelare è certamente suscettibile di essere rimessa in discussione nella successiva evoluzione del procedimento penale, sia in ragione degli eventuali sviluppi probatori, sia alla luce del mutamento del quadro normativo, sia per una diversa considerazione della fattispecie, ritiene tuttavia il Collegio che nel caso di specie non vi sono motivi per superare l’interpretazione resa in sede incidentale.

Ed invero occorre in primo luogo evidenziare che significativi sviluppi probatori nel caso di specie non ve ne sono stati, essendo rimasti immutati gli elementi essenziali della vicenda già delineatisi nella fase investigativa, cioè l’inesistenza del credito iva di 146 milioni riferito al 2002 e il “trascinamento” dello stesso negli anni di imposta successivi, con la conseguente decurtazione dei debiti iva. Se il fatto è rimasto sostanzialmente il medesimo, al di là delle differenti valutazioni giuridiche proposte dalle parti, lo stesso può affermarsi per il quadro normativo, posto che la modifica operata dall’art. 9 del d. Igs. n. 158 del 2015 ha sì riscritto la norma incriminatrice, ma senza incidere sulla struttura della fattispecie già esistente al momento di realizzazione della condotta illecita, essendo stata operata una scissione tra l’indebita compensazione dei crediti non spettanti (comma 1) e quella avente ad oggetto i crediti inesistenti (comma 2), quest’ultima punita più severamente, essendo identica la soglia di punibilità (€ 50.000, nel caso di specie ampiamente superata) ed essendo rimasto immutato il richiamo all’istituto della compensazione ex art. 17 del d. Igs. n. 241 del 1997.

Al di là della nuova tecnica di formulazione della norma, oggi articolata in due ipotesi distinte a seconda che vengano in rilievo “crediti inesistenti” o “non spettanti” e dell’inasprimento del trattamento sanzionatorio rispetto all’indebita compensazione dei primi, non sono intervenute dunque modifiche sostanziali che impongano un ripensamento del precedente approccio ermeneutico.

Ciò posto, deve ritenersi che le obiezioni difensive con cui si propone una diversa lettura della latitudine applicativa della fattispecie contestata, per quanto ben argomentate, non possono tuttavia trovare accoglimento, risultando le stesse accomunate dal tentativo di far dire all’art. 10 quater ciò che la norma non dice. Ed invero l’art. 10 quater non circoscrive affatto la rilevanza penale ai soli casi di compensazione orizzontale, relativa cioè a imposte diverse, né esclude dal suo campo applicativo le ipotesi in cui la compensazione si manifesti, come avvenuto nel •caso di specie, mediante il “trascinamento” del credito inesistente da una dichiarazione all’altra; ancora, la norma incriminatrice non dispone che sono penalmente rilevanti le sole compensazioni effettuate con delega bancaria a mezzo modello F24, nè vieta eventualmente di considerare, ai fini della sussistenza del reato, anche le detrazioni di imposta ex art. 19 e 30 del d.P.R. n. 633/1972, qualora le stesse si rivelino in realtà prive dei requisiti di validità e siano state effettuate solo operare un indebita compensazione con l’iva a debito. In realtà, ciò che l’art. 10 quater fa, nell’ottica di colpire i comportamenti illeciti commessi nella fase successiva a quella di determinazione della base imponibile, cioè in relazione al versamento dell’imposta, è solo attribuire rilevanza penale a una serie di comportamenti che, utilizzando indebitamente il meccanismo della compensazione tributaria, si concretizzano in realtà nell’omesso versamento del dovuto e nel conseguimento di un indebito risparmio di imposta. L’intento perseguito dal legislatore del 2006 è stato dunque quello di sanzionare la condotta omissiva supportata dalla redazione di un documento ideologicamente falso, idoneo a prospettare una compensazione che non avrebbe potuto avere luogo, per l’inesistenza o la non spettanza del credito, dovendosi quindi incentrare la verifica giudiziaria non tanto sull’astratta regolarità formale della procedura compensativa, ma piuttosto sulla tipologia degli strumenti adoperati in concreto dal contribuente per fornire all’Erario la falsa rappresentazione dei presupposti idonei a legittimare l’effetto compensativo.

L’essenza della condotta contestata, dunque, non è l’utilizzo o meno del modello F24, l’omogeneità o eterogeneità delle imposte compensate o il rispetto del limite temporale della detraibilità del credito, ma il ricorso proditorio a un istituto applicato nonostante l’assenza di un valido titolo, dovendosi sottolineare che la stessa denominazione del reato suggerisce di ritenere che la compensazione è “indebita” proprio qualora, per come messa in atto, si riveli estranea al modello legale dell’istituto delineato dalla legislazione tributaria e venga attuata attraverso una distorta rappresentazione della realtà, per cui a rilevare, più che la dimensione formale, è la natura sostanziale dell’operazione realizzata. E nel caso di specie non c’è dubbio che il “trascinamento” del falso credito iva di anno in anno, al di là del modo in cui è avvenuto, ha costituito l’espediente mediante il quale la società D. ha potuto compensare imposte senza averne alcun titolo, per cui alcun dubbio si pone sulla configurabilità del reato, al di là del mero dato formale costituito dall’utilizzo o meno del modello F24, che peraltro non è di per sé elemento essenziale ai fini della sussistenza del reato.

Né può ritenersi significativa, nella prospettiva di operare una lettura restrittiva della norma incriminatrice, la circostanza che l’art. 10 quater richiami l’art. 17 del d.lgs. 241/1997 e non l’art. 8 dello Statuto del Contribuente che ha sancito la possibilità della compensazione in ambito tributario in termini generali, posto che, rispetto al citato art. 8 della I. 212 del 2000, l’art. 17 ha un contenuto più specifico e tecnico, per cui non appare anomalo che la norma incriminatrice abbia richiamato non il principio generale, ma la normativa di settore in tema di compensazione, dovendosi rilevare peraltro che l’art. 17, al comma 2, contiene anche casi di compensazione verticale e presenta un ambito operativo ampio, che ben può essere riferito a tutte le operazioni che, al di là del nomen iuris attribuito dal ricorrente, producono nella sostanza l’effetto compensativo. In questo senso, non può che essere quindi ribadita l’affermazione della sentenza resa nella fase cautelare, secondo cui anche una detrazione Iva effettuata oltre i limiti temporali previsti dalla legge (cioè dall’art. 19 del d.P.R. 633/1972) diviene a sua volta sostanzialmente un’operazione di compensazione, non perché i due istituti della detrazione e della compensazione siano omogenei, ma perché non c’è dubbio che, allorchè il credito venga utilizzato nel corso degli anni successivi per soddisfare posizioni debitorie nei confronti dell’Erario rispetto alla medesima imposta, si verte di fatto nell’ambito della compensazione, al di là della mancata compilazione del modello F24, perché il risultato conseguito è quello tipico dell’istituto di cui all’art. 17 del d. Igs. 241/1997, cioè quello di consentire al contribuente di evitare di pagare imposte qualora vanti una pretesa creditoria di natura tributaria verso lo Stato, per cui, in definitiva, in sintonia con il richiamo testuale dell’art. 10 quater, occorre fare riferimento, per completare il contenuto del precetto penale, non alle norme in tema di detrazione (art. 19 e 30 del d.P.R. 633/72), ma unicamente alla disposizione del citato art. 17 e al significato sostanziale assunto dalla predetta norma nell’ambito della legislazione tributaria.

Non può sottacersi infatti che l’introduzione della compensazione in materia fiscale, peraltro strutturalmente diversa dalla nozione di compensazione civilistica, è stata ispirata dalla duplice finalità di semplificare la riscossione e di favorire il contribuente, svincolandolo dalla logica del “solve et repete”, che in passato lo costringeva a pagare l’importo dovuto per poi conseguire il rimborso del suo credito tributario; un tale meccanismo presuppone quindi che il contribuente si astenga dal far valere poste attive fittizie, valendo l’art. 10 quater proprio a sanzionare eventuali abusi nell’utilizzo dello schema compensativo, che dunque non può che essere inteso in senso sostanziale, avendo cioè riguardo alla natura dell’operazione e non alla sua cornice formale.

Peraltro, come correttamente rilevato dal Tribunale di Nola, occorre evidenziare che, mentre il contribuente perde il diritto alla detrazione se non lo esercita entro il termine stabilito dall’art. 19 comma 1 del d.P.R. 633/1972, la compensazione ha un ambito operativo più ampio, potendo essere applicata fino a quando il credito vantato non venga azzerato nel rapporto con le posizioni di debito. In quest’ottica, non appare pertinente il rilievo difensivo secondo cui nel caso di specie si esulerebbe dalla latitudine applicativa della norma incriminatrice perché i crediti tributari non sarebbero “dello stesso periodo”, come richiesto dal citato art. 17, non solo perché che il “trascinamento” del credito iva anno per anno faceva riferire la posta attiva al medesimo periodo di imposta cui si riferivano di volta in volta i debiti iva, ma anche perché, a monte, rimane la considerazione che la condotta illecita deve essere esaminata rispetto allo schema tracciato dalla norma incriminatrice, che, attraverso il richiamo all’art. 17 del d. Igs. 241/1997, sanziona il ricorso indebito all’istituto della compensazione, nella misura in cui esso si concretizzi nel mancato versamento delle somme dovute, attraverso la fallace prospettazione, a fronte di debiti tributari, di poste creditorie non spettanti o inesistenti, oltre la soglia di punibilità di 50.000 euro.

Le doglianze difensive, in definitiva, concentrandosi esclusivamente sugli aspetti formali della procedura seguita dalla società contribuente, perdono di vista il valore sostanziale del precetto penale, che punisce la compensazione non irregolare ma illecita, in quanto compiuta attraverso una rappresentazione consapevolmente mendace della posizione creditoria del contribuente.

Né la condotta contestata appare suscettibile di essere inquadrata in altre fattispecie criminose del d. Igs. 74/2000, come ad esempio quelle di cui agli 3 e 4 del d. Igs. 74/2000, stante l’assenza dei relativi presupposti costitutivi, sanzionando i predetti reati un determinato tipo di dichiarazione (fraudolenta in un caso, inF. nell’altro) non riscontrabile nel caso di specie, mentre il tratto distintivo del reato ex art. 10 quater del d. Igs. 74/2000 (come più avanti, al par. 2.4.2., sarà più diffusamente precisato), è l’omesso versamento delle imposte dovute per effetto dell’indebito ricorso alla compensazione, per cui in tal caso l’elemento decettivo della falsa rappresentazione degli elementi dell’istituto invocato assume un rilievo accessorio rispetto alla condotta omissiva, il che spiega anche il motivo per cui l’assoluzione degli imputati dall’art. 3, contestato in relazione alla medesima vicenda, non dispiega alcun effetto in ordine al giudizio sulla sussistenza dell’autonoma fattispecie ex art. 10 quater. Oltre che dal punto di vista oggettivo, il reato di indebita compensazione deve ritenersi configurabile nel caso di specie anche sotto il profilo soggettivo, dovendo a tal proposito osservarsi che, nel caso in cui, come nella vicenda in esame, siano prospettati crediti inesistenti, l’indagine sull’elemento soggettivo del reato presenta minori complessità, posto che l’inesistenza del credito, soprattutto qualora lo stesso assuma una consistenza significativa (come nella vicenda in esame, dove era pari a 146 milioni di euro), costituisce, salvo ovviamente prova contraria, un indice rivelatore della coscienza e volontà del contribuente di “bilanciare” la propria posizione debitoria verso l’Erario con una postazione creditoria artificiosamente creata, ingannando in tal modo il Fisco, mentre, nel caso in cui vengano dedotti crediti “non spettanti”, è necessario provare la consapevolezza dell’agente che il credito dedotto in compensazione, sebbene certo nella sua esistenza ed esatto ammontare, fosse, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario.

Il dolo è stato dunque ritenuto ragionevolmente sussistente nella vicenda in esame dai giudici di merito, i quali hanno rimarcato il fatto che la strada di ricorrere alla procedura della compensazione cd. verticale innanzitutto non poneva limiti sull’importo del credito compensabile, posto che, mentre rispetto alla compensazione cd. orizzontale esisteva il limite di € 516.456,90 per ciascun anno solare, elevato a € 700.000 dall’art. 9 comma 2 del d. I. n. 35 del 2013, convertito dalla I. n. 64 del 2013, la compensazione verticale non incontra limiti. Inoltre, appare significativo che, nonostante l’elevatissimo importo del credito iva (146 milioni di euro), la D. s.r.I., amministrata da G. e gestita di fatto dai coniugi R.-I., non abbia mai optato per la richiesta di rimborso del credito, che l’avrebbe esposta nell’immediato a penetranti controlli, preferendo ricorrere ogni anno alla compensazione, attraverso un più sottile meccanismo illecito che ha richiesto maggiori sforzi investigativi per essere disvelato.

Quanto alla presunta buona fede degli imputati, che avrebbero confidato sulla possibilità di cristallizzazione del credito in seguito all’accesso al cd. condono tombale, è stato correttamente replicato, sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, che alcun margine di equivoco interpretativo poteva ravvisarsi nel caso di specie, posto che l’istituto del condono concerne le posizioni debitorie e non certo i crediti, come peraltro stabilito anche dalla Sezione Tributaria di questa Corte (cfr. Sez. 5 civ., n. 11429 del 03/06/2015, Rv. 635678), fermo restando che l’accesso al condono, con il pagamento della somma a titolo di oblazione di quasi un milione e mezzo di euro, era un comportamento quantomeno contraddittorio con la condotta di chi, in quello stesso periodo di imposta (2002), dichiarava di essere creditore dello Stato per 146 milioni di euro.

Parimenti razionali, e dunque immuni da censure, sono le argomentazioni della sentenza impugnata con cui è stata rimarcata l’irrilevanza del fatto che, in occasione degli iniziali controlli fiscali, la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate non abbia mosso contestazioni sul credito iva del 2002, potendo tale circostanza aver solo generato negli imputati la soddisfazione di essere sfuggiti indebitamente alle conseguenze sanzionatorie a loro carico, e non certo la convinzione della legittimità del loro operato, che alcun elemento giustificava. Allo stesso modo, non presta il fianco alle obiezioni difensive il rilievo della Corte di appello secondo cui era scarsamente significativo il comportamento tenuto dagli amministratori giudiziari che hanno continuato ad applicare il credito iva inesistente, spiegandosi tale condotta con il fatto che, fino a quel momento, l’inesistenza del credito e quo non era stata ancora definitivamente accertata.

In definitiva, avuto l’entità così elevata del falso credito iva “trascinato” per anni nelle dichiarazioni fiscali al fine di conseguire consistenti risparmi di imposta e alle dinamiche illecite relative ai rapporti tra le tre società facenti parte del medesimo gruppo economico, deve ritenersi tutt’altro che illogica l’affermazione del Tribunale, secondo cui alcuna condizione di incertezza eventualmente rilevante ai sensi dell’art. 15 del d. Igs. 74/2000 era ravvisabile nel caso di specie, risultando anzi la condotta degli imputati, concretizzatasi peraltro anche nell’occultamento e nella sottrazione delle scritture contabili (reato dichiarato estinto per prescrizione in appello) sorretta da “un colossale dolo di evasione”.

2.4. A sostegno delle proprie argomentazioni volte a contestare la configurabilità del caso di specie del reato di indebita compensazione, le difese hanno richiamato sia il “Manuale operativo in materia di contrasto all’evasione e alle frodi fiscali” redatto dal Comando generale della Guardia di Finanza, sia la risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 36/E dell’8 maggio 2018, sia infine la recente sentenza della Corte costituzionale n. 35 del 21 febbraio 2018. Non si tratta tuttavia di richiami decisivi.

2.4.1. Rispetto al Manuale operativo della Guardia di Finanza e alla Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate, è sufficiente osservare che si è in presenza di istruzioni interne che affrontano una pluralità di aspetti, senza peraltro porsi in formale dissenso rispetto alle pronunce della Corte di legittimità. Le indicazioni operative contenute nel Manuale operativo e nella Risoluzione, anche laddove si rivelino non omogenee rispetto ai principi formulati dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, non possono ritenersi comunque vincolanti in sede interpretativa, tanto più ove si consideri, da un lato, che il Manuale operativo della Guardia di Finanza riguarda dichiaratamente l’attività di Polizia Giudiziaria e gli strumenti investigativi da adottare nel contrasto all’evasione e alle frodi fiscali, dall’altro che la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate si occupa espressamente degli aspetti connessi agli accertamenti tributari rilevanti in ambito amministrativo e non del sistema repressivo penale. Né il Manuale né la Risoluzione, quindi, stante il loro ristretto ambito operativo, risultano idonei a superare l’impostazione ermeneutica in precedenza illustrata.

2.4.2. In relazione alla recente pronuncia della Consulta, deve ritenersi che, a differenza di quanto affermato dalle difese, la Corte costituzionale non ha affatto smentito i principi affermati da questa Corte rispetto al reato contestato. Occorre premettere che la Consulta è stata chiamata a occuparsi della questione sollevata dal Tribunale di Busto Arsizio, che dubitava della legittimità costituzionale dell’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000 (nella formulazione originaria della norma incriminatrice, vigente alla data di commissione del fatto per cui si procedeva nel giudizio principale, concernente l’omesso versamento di somme dovute a titolo di imposte sui redditi per l’anno 2009), nella parte in cui indica il limite di punibilità in 50.000 euro annui anziché in 150.000 euro. Il giudice remittente osservava che il d.lgs. n. 158 del 2015, nel quadro di un’ampia revisione del sistema sanzionatorio tributario, pur scindendo la figura dell’indebita compensazione, in precedenza unitaria, in due ipotesi delittuose distinte, ha lasciato fermo l’ammontare della soglia di punibilità, con riguardo a entrambe le ipotesi di indebita compensazione, nella somma di euro 50.000 (sia pure intesa quale «importo annuo» dei crediti indebitamente utilizzati, e non più ragguagliata al «periodo d’imposta»), diversamente da quanto è avvenuto per gli altri delitti di omesso versamento, il cui limite quantitativo di rilevanza penale è stato notevolmente innalzato dalla novella del 2015.

Ciò posto, il giudice a quo ha richiamato, quale premessa delle sue censure, la sentenza n. 80 del 2014, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000, nella versione antecedente alla modifica introdotta dall’art. 2, comma 36 vicies semel, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, aggiunto dalla legge di conversione 14 settembre 2011, n. 148, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, puniva l’omesso versamento dell’IVA, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori ad euro 50.000 per ciascun periodo di imposta, anziché ad euro 103.291,38, stante la sperequazione di trattamento, palesemente irragionevole, rispetto ai delitti di inF. e omessa dichiarazione, di cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del 2000, delitti attinenti anche alla dichiarazione annuale IVA, per i quali erano previste soglie di punibilità, riferite all’imposta evasa, di ammontare più elevato (rispettivamente, euro 103.291,38 ed euro 77.468,53), per cui, nel caso in cui l’iva dovuta dal contribuente si collocasse nell’intervallo tra l’una e le altre soglie (risultasse, cioè, superiore a 50.000 euro, ma non, rispettivamente, a 103.291,38 o a 77.468,53 euro), veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato una dichiarazione veritiera, senza versare l’imposta dovuta in base ad essa, rispetto a chi avesse presentato una dichiarazione inF., o non avesse presentato affatto la dichiarazione, evadendo del pari l’imposta: condotte, queste, certamente più “insidiose” per l’amministrazione finanziaria, in quanto idonee, diversamente dall’altra, ad ostacolare l’accertamento dell’evasione.

La Corte costituzionale, al fine di rimuovere nella sua interezza la distonia, aveva quindi allineato la soglia di punibilità dell’omesso versamento dell’iva, quanto ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, alla più alta fra le soglie di punibilità delle violazioni in rapporto alle quali si manifestava l’irragionevole disparità di trattamento: quella, cioè, della dichiarazione inF. (euro 103.291,38).

Orbene, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 35 del 6 dicembre 2017, depositata il 21 febbraio 2018, ha dichiarato non fondata la questione sollevata dal Tribunale lombardo, rilevando, all’esito di un’articolata esegesi della norma incriminatrice, che il ragionamento posto a base della sentenza n. 80 del 2014 non poteva essere esteso sic et simpliciter al delitto di indebita compensazione. Ed invero, al di là dalla comune matrice politico-criminale, ravvisabile nell’avvertita necessità di non focalizzare più l’intervento repressivo nel sistema penale tributario solo nella fase dell’ “autoaccertamento” del debito di imposta, come nell’originaria impostazione del d.lgs. n. 74 del 2000, ma di colpire gli illeciti commessi nella fase del versamento dell’imposta, la fattispecie di cui all’art. 10 quater presenta un evidente tratto differenziale rispetto agli altri delitti in materia di omesso versamento delle imposte (art. 10 bis, omesso versamento delle ritenute alla fonte e art. 10 ter, omesso versamento dell’IVA).

Nelle ipotesi previste dagli art. 10 bis e 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000, infatti, l’omesso versamento riguarda somme di cui lo stesso contribuente si è riconosciuto debitore in documenti fiscalmente rilevanti (le certificazioni delle ritenute rilasciate ai sostituiti e, attualmente, anche la dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, da un lato; la dichiarazione relativa all’iva, dall’altro), per cui la condotta è priva di connotati di “insidiosità”, essendo l’inadempienza tributaria palese e prontamente riscontrabile dall’Amministrazione finanziaria.

Viceversa, l’ipotesi disciplinata dall’art. 10 quater abbina al disvalore di evento (omesso versamento di somme dovute) uno specifico disvalore di azione, consistente nell’abusiva utilizzazione dell’istituto della compensazione in materia tributaria, quale disciplinato dall’art. 17 del d. Igs. 9 luglio 1997, n. 241 Il comportamento sanzionato dall’art. 10 quater è in definitiva contraddistinto anche da una componente decettiva, nel senso che l’indebita compensazione non è in genere immediatamente percepibile da parte dell’Amministrazione finanziaria, ma emerge solo qualora gli organi accertatori appurino l’insussistenza o la non spettanza del credito portato in compensazione.

Nel soffermarsi poi sulla struttura della fattispecie, la Consulta ha osservato che in passato l’istituto civilistico della compensazione era ritenuto inapplicabile ai crediti di natura tributaria, fatta eccezione (a talune condizioni) per la cosiddetta compensazione “verticale”, avente ad oggetto, cioè, crediti e debiti relativi alla stessa imposta, mentre, con il citato art. 17, il legislatore ha superato tale impostazione restrittiva, consentendo al contribuente di effettuare, tramite la compilazione di un apposito modello, denominato «modello F24», un versamento unitario «delle imposte, dei contributi dovuti all’INPS e delle altre somme a favore dello Stato, delle regioni e degli enti previdenziali», analiticamente elencati nella norma stessa: versamento in occasione del quale è possibile compensare le somme a debito con quelle a credito, per cui il contribuente non è più costretto a corrispondere la somma dovuta e ad avviare contestualmente la procedura per il rimborso del suo credito, ma può servirsi direttamente di quest’ultimo per evitare di effettuare il pagamento. E lo può fare persino oltre gli stessi limiti dell’istituto civilistico: in deroga al requisito dell’identità dei soggetti titolari delle reciproche posizioni debitorie e creditorie, previsto dal codice civile (art. 1241), la compensazione è, infatti, ammessa anche tra crediti e debiti del contribuente nei confronti di enti diversi (Stato, Regioni, Enti previdenziali). Il Giudice delle leggi ha osservato che il meccanismo delineato dall’art. 17 implica un elevato grado di affidamento nella correttezza del protagonista del versamento, chiamato ad effettuare lui stesso, tramite la compilazione del modello, l’operazione di calcolo del dovuto e, in quest’ottica, la norma incriminatrice di cui all’art. 10 quater mira specificamente a contrastare gli abusi cui il meccanismo si presta, tramite l’artificio di esporre nel modello e, così, di utilizzare in compensazione, crediti «non spettanti» o «inesistenti».

È chiaro, quindi, che con riguardo all’indebita compensazione non si potrebbe parlare, comunque sia, di un trattamento deteriore del contribuente il quale, pur senza versare il dovuto, abbia tenuto un comportamento “trasparente”, rispetto a quello riservato al contribuente che, presentando una dichiarazione inF., abbia invece evaso le imposte tramite una condotta ingannevole. Allo stesso modo, è stata evidenziata dalla Corte costituzionale l’eterogeneità della fattispecie dell’indebita compensazione rispetto a quella di dichiarazione inF. ex art. 4 del d. Igs. 74/2000, per la cui rilevanza penale è richiesta un’evasione di imposta addirittura tripla rispetto a quella della prima fattispecie. Se è vero infatti che le due figure criminose presentano tratti di comunanza sul piano del disvalore, venendo in entrambi i casi represse condotte commissive a carattere decettivo, che implicano una rappresentazione documentale non veritiera della realtà, è tuttavia innegabile la diversità dell’oggetto materiale e della condotta tipica, posto che, nell’ipotesi di cui all’art. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000, il mendacio del contribuente si esprime nella dichiarazione annuale • • relativa alle imposte sui redditi o all’iva, per cui la sola compensazione ammessa in sede di presentazione della dichiarazione annuale relativa alle imposte sui redditi o all’iva è quella “verticale”, mentre nel caso dell’art. 10 quater, rileva la Consulta, «può procedersi anche (o, secondo una corrente interpretativa, soltanto) alla compensazione “orizzontale”, ossia tra imposte diverse».

Orbene, da questo passaggio motivazionale che, al pari di quelli segnalati dalla difesa va comunque letto nell’intero contesto argomentativo della sentenza, si desume che la Corte costituzionale non ha preso posizione sulla specifica questione dell’ammissibilità o meno della compensazione “verticale” ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 10 quater, trattandosi peraltro di una questione del tutto estranea all’ambito valutativo della vicenda sottoposta allo scrutinio della Consulta, che in ogni caso ha ribadito il principio espresso da questa Corte, secondo cui l’art. 10 quater del d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione del suo tenore letterale, si presta a reprimere l’omesso versamento di somme attinenti a tutti i debiti, sia tributari, sia di altra natura, per il cui pagamento deve essere utilizzato il modello di versamento unitario, dovendosi altresì considerare che, nell’ottica dell’indebita compensazione, il superamento della soglia di punibilità va determinato tenendo conto della somma complessiva non versata dal contribuente, senza distinguere tra i diversi titoli debitori. In definitiva, deve ribadirsi che dalla sentenza della Corte costituzionale non si trae alcuna smentite delle premesse ermeneutiche elaborate da questa Corte nell’esegesi dell’art. 10 quater, risultando piuttosto confermata l’esigenza di dover tenere conto del fatto che la nozione di compensazione introdotta dalla legislazione tributaria presenta peculiarità tali da richiedere una verifica ancorata non solo ai presupposti formali di validità dell’operazione, ma anche all’obiettivo preso di mira dal contribuente attraverso il ricorso a tale strumento di riequilibrio interno delle posizioni debitorie e creditorie nei confronti del Fisco, risultando cioè configurabile la fattispecie, alla luce della ratio e della struttura della norma incriminatrice, laddove sia conseguito lo scopo del contribuente di ottenere un risparmio di imposta attraverso l’uso artificioso di un peculiare istituto giuridico, di cui venga operato un utilizzo indebito, attraverso la mendace deduzione di crediti non spettanti o inesistenti, a fronte di posizioni debitorie contrapposte.

  1. Dalle considerazioni svolte discende che non è accoglibile la richiesta difensiva di adire pregiudizialmente la Corte di giustizia per valutare la compatibilità delle norme del diritto penale interno con la direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, posto che gli art. 168 e 183 invocati dalla difesa non hanno attinenza con la fattispecie di indebita compensazione, riguardando il diritto alla detrazione iva, ma nell’ovvio presupposto della sua legittima insorgenza, nel caso di specie non configurabile stante l’inesistenza del credito iva evidenziato nella dichiarazione del 2002 e riportato indebitamente nelle dichiarazioni successive, per cui va esclusa la fondatezza della questione, non ravvisandosi in ogni caso alcun contrasto tra il diritto dell’Unione Europea e le norme interne relative alla detrazione dell’iva e alla compensazione indebita in materia tributaria.

Peraltro, la Corte di giustizia europea (cfr. sent. 22 ottobre 2015, causa C- 277/14, “PPUH Stehcemp”) è da tempo orientata ad affermare, in tema di frodi iva, che il limite del diritto alla detrazione è costituito dalla buona fede del destinatario della fattura relativa a un’operazione eventualmente inesistente, per cui rimane fermo che il sistema delle detrazioni e delle agevolazioni in tema di iva deve essere esaminato nell’ottica della liceità delle operazioni sottostanti. E ciò senza considerare che, come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, la direttiva comunitaria prevede la possibilità e non l’obbligo degli Stati membri di introdurre nelle loro legislazioni il riporto dell’eccedenza al periodo di imposta successivo, senza imporre che tale possibilità di riporto debba essere prevista senza limiti temporali, lasciando autonomia sul punto agli Stati membri.

  1. Parimenti infondate, nell’ambito delle valutazioni sulla configurabilità del reato contestato, sono le doglianze relative all’asserita violazione del principio di specialità, essendo stata già correttamente esclusa da questa Corte, nella citata pronuncia resa in sede cautelare, la specialità dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 27 comma 18 del d.l. n. 185/2008, convertito dalla I. n. 2/2009, rispetto al reato di cui all’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, che prevede la soglia di punibilità di 50.000 euro, non prevista dalla fattispecie amministrativa.

Peraltro, anche con una pronuncia successiva (Sez. 3, n. 30267 del 08/05/2014, Rv. 260260), questa Corte ha ribadito che, in materia di reati tributari, non è applicabile il principio di specialità di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000 tra il delitto di indebita compensazione e l’illecito amministrativo introdotto dall’art. 27, comma 18, del d.l. n. 185 del 2008 convertito dalla I. n. 2 del 2009, che punisce l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute, in quanto la fattispecie penale ha riguardo alla condotta, diversa e ulteriore, consistente nell’omesso versamento dell’imposta dovuta.

Quanto poi al richiamo difensivo alla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 4 marzo 2014, definitiva il 7 luglio 2014, nota come “Grande Stevens contro Italia”, la Corte di appello ne ha ragionevolmente rimarcato l’infondatezza, in base al dirimente rilievo secondo cui, al momento della decisione di secondo grado, la sanzione amministrativa non era stata irrogata con provvedimento irrevocabile, ciò in base all’orientamento giurisprudenziale secondo cui è preclusa la deducibilità della violazione del divieto di “bis in idem” in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura; “sostanzialmente penale”, quando, come nel caso di specie, manchi qualsiasi prova della definitività dell’irrogazione della sanzione amministrativa medesima.

Né appare decisiva la circostanza che, nelle more, il provvedimento sanzionatorio amministrativo sia divenuto irrevocabile, posto che, a prescindere da ogni approfondimento circa la natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata, rimane il dato che l’avvio del presente procedimento penale è avvenuto in epoca prossima all’inizio del procedimento amministrativo (2008), dovendosi sul punto ribadire l’ulteriore affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 6993 del 22/09/2017, Rv. 272588), secondo cui non sussiste comunque la violazione del “ne bis in idem” convenzionale nel caso della irrogazione definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, della quale venga riconosciuta la natura sostanzialmente penale (tema questo come detto non adeguatamente esplorato nella presente vicenda), ai sensi dell’art. 4 Protocollo n. 7 C.E.D.U., come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014, e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, per il medesimo fatto per il quale vi sia stata condanna a sanzione penale, quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta, tale che le due sanzioni siano parte di un unico sistema, secondo il criterio dettato dalla suddetta Corte nella decisione “A. e B. contro Norvegia” del 15 novembre 2016.

  1. Ribadita l’infondatezza delle censure difensive inerenti il giudizio sulla configurabilità del reato, la sentenza impugnata deve ritenersi altresì immune da censure, sia rispetto all’ascrivibilità delle condotte ai singoli imputati, che in ordine alla determinazione del trattamento sanzionatorio.

5.1 Quanto al primo aspetto, alle considerazioni già espresse circa la sussistenza del dolo, occorre solo aggiungere che le due conformi sentenze di merito, con argomentazioni razionali e coerenti, hanno rimarcato la veste di legale rappresentante della D. di G., evidenziato che i coniugi R. e I., quali unici soci titolari delle tre società (D., Imi Sud e Far Sud) coinvolte nel meccanismo fraudolento che ha prodotto rilevantissimi risparmi di spesa, sono stati gli unici beneficiari delle operazioni illecite accertate, essendo stati peraltro documentati vari passaggi di somme di denaro dai conti della D. a quelli personali dei coniugi R., per importi tutt’altro che trascurabili, fermo restando che la I. era stata legale rappresentante della D. nel 2002, ovvero proprio nell’anno in cui si è generato il falso credito iva, per cui, anche in considerazione del fatto che gli imputati hanno rinunciato nel corso del procedimento penale a fornire una versione alternativa dei fatti a loro contestati, deve concludersi che l’affermazione della responsabilità dei ricorrenti a titolo concorsuale nel reato contestato resiste senz’altro alle censure difensive, prospettate peraltro in termini non adeguatamente specifici, senza un effettivo confronto con le pertinenti considerazioni formulate dai giudici di merito.

5.2 Le doglianze sul trattamento sanzionatorio risultano parimenti generiche e assertive, rispetto a un apparato motivazionale che, in maniera non illogica e dunque non censurabile in questa sede, ha rimarcato, al fine di giustificare il diniego delle attenuanti generiche e il discostamento dal minimo edittale, l’oggettiva gravità dei fatti di cui i ricorrenti si sono resi autori, per come desumile dalla rilevantissima entità degli importi evasi e dalla pluralità delle operazioni caratterizzanti il meccanismo fraudolento riconducibile agli imputati, ciò in assenza di seri e concreti elementi suscettibili di positiva considerazione.

  1. Devono ritenersi fondate, invece, le doglianze difensive sul decorso del termine di prescrizione del reato. Al riguardo occorre premettere che, con la sentenza impugnata, la Corte di appello ha già dichiarato estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 10 quater del d. Igs. 74/2000, limitatamente ai fatti contestati “da agosto 2006 fino all’anno 2008”, circoscrivendo il giudizio di responsabilità penale degli imputati all’imputazione relativa alle indebite compensazioni riferite all’anno 2009, ovvero quella contestata al capo A del decreto di citazione diretta del 5 settembre 2011. Concentrando l’attenzione su quest’ultima fattispecie, l’unica residuata, la Corte territoriale ha preso • atto che l’imputazione ha cristallizzato l’epoca del fatto “nell’anno 2009”, pur rilevando che in realtà il reato si era consumato il 27 dicembre 2010, cioè nella data in cui era avvenuta la presentazione dell’Unico 2010, momento in cui era sorto il diritto alla detrazione per gli anni precedenti. Come già argomentato per le annualità precedenti, la Corte di appello ha fissato la data di consumazione del reato nel 31 dicembre 2009, rispettando l’errata datazione contenuta nel capo di imputazione, in un’ottica di favor rei, ma al contempo dando contenuto alla genericità del limite temporale contestato, individuando cioè la data di consumazione nell’ultimo giorno dell’anno indicato. Di qui la conclusione che la prescrizione del reato sarebbe maturata il 22 gennaio 2018, dovendosi aggiungere al termine ordinario di anni 7 e mesi 6 l’ulteriore periodo per i 206 giorni di sospensione intervenuti tra primo e secondo grado.

Orbene, senza entrare nel merito della valutazione espressa dalla Corte di appello in ordine all’individuazione della data di consumazione del reato, deve prendersi atto che, rispetto a tale determinazione, non è intervenuta alcuna impugnativa da parte del Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli, per cui il giudizio sul punto della sentenza impugnata non può essere rimesso in discussione in questa sede, dovendosi unicamente rilevare che la necessità di una presa di posizione da parte della Corte territoriale, giusta o sbagliata che fosse, era imposta non solo dalla specifica sollecitazione difensiva, ma prima ancora dal tenore dell’imputazione, formulata, rispetto all’indicazione del tempus commisi delicti, in termini obiettivamente generici, senza che nel corso del giudizio siano intervenute rettifiche o integrazioni da parte del P.M., anche eventualmente rispetto al contenuto descrittivo della condotta e alla sua conseguente collocazione in un più circoscritto contesto temporale.

Dunque, la delimitazione cronologica dei fatti compiuta con ampia motivazione dalla Corte di appello, in assenza di censure formali sul punto, costituisce un argine non superabile in questa sede, per cui, stante la correttezza del computo dei periodi di sospensione, deve prendersi atto che il residuo reato si è prescritto il 22 gennaio 2018, dovendosi precisare che, mentre le doglianze processuali si sono rivelate inammissibili perché manifestamente infondate, quelle relative alla configurabilità del reato devono essere ritenete infondate ma non inammissibili, stante comunque l’oggettivo spessore delle argomentazioni giuridiche addotte.

  1. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, essendo estinto per prescrizione il residuo reato di cui all’art. 10 quater del d. Igs. n. 74 del 2000 (capo A del decreto di citazione diretta emesso in data 5 settembre 2011). Alla declaratoria di estinzione del reato consegue infine la revoca della confisca per equivalente disposta in sede di merito, restando assorbite in tale statuizione le censure difensive sollevate sul punto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il residuo reato è estinto per prescrizione e revoca la confisca.

Così deciso il 12/09/2018

 

 

 

 

 

 

 

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