CASSAZIONE

Scuole paritarie, IMU dovuta se le attività didattiche sono svolte con modalità “commerciali”

IMU – Ente non commerciale – Scuola paritaria – Esenzione – Requisiti oggettivi e soggettivi

La Corte di Cassazione, Sezione VI Civile, con l’ordinanza n. 14317 del 25

maggio 2021 ha fatto il punto sull’esenzione IMU degli immobili adibiti ad attività scolastica, decretando che sono esenti dall’imposta, per il periodo dell’anno durante il quale sussistono le condizioni prescritte, gli immobili posseduti e utilizzati dai soggetti di cui alla lettera i) del comma 1 dell’articolo 7 del D.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali delle attività previste nella medesima lettera i); si applicano, altresì, le disposizioni di cui all’articolo 91-bis del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.

L’importanza di tale questione ha sollevato nel tempo molta attenzione nell’opinione pubblica ed è stato argomento di discussione nella stessa giurisprudenza di merito, in considerazione proprio del fatto che normalmente si ritiene che  lo Stato è obbligato a istituire “scuole statali per tutti gli ordini e gradi” (art. 33, Cost.) e le paritarie no, con il corollario d’interpretazioni che definiscono come  lo Stato sia indotto a finanziare la concorrenza a se stesso, mentre le paritarie potrebbero erogare il servizio legalmente, ex comma 5, legge 62, fino al 25% del personale, pagandolo meno o usando prestazioni gratuite “volontarie” di suore e altri religiosi.

In base alla legge 62/2000, per scuola si fa riferimento alle istituzioni che appartengono al Servizio Nazionale di Istruzione, che comprende le scuole pubbliche che erogano un servizio pubblico, cioè aperto a tutti. Le scuole pubbliche si suddividono in statali e paritarie, che non sono necessariamente private, e si suddividono in scuola paritaria materna (oggi infanzia), scuola primaria e scuola secondaria. Dopo aver conosciuto il significato della scuola paritaria possiamo analizzare le differenze con la scuola pubblica e la scuola privata.

Le scuole paritarie svolgono un servizio pubblico e sono inserite nel Sistema Nazionale di Istruzione. Per gli alunni la regolare frequenza della scuola paritaria costituisce assolvimento dell’obbligo di istruzione. Il riconoscimento della parità garantisce l’equiparazione dei diritti e dei doveri degli studenti, le medesime modalità di svolgimento degli esami di Stato e l’abilitazione a rilasciare titoli di studio con lo stesso valore legale delle scuole statali. Comunque, per “scuola pubblica” nel linguaggio comune si intende solitamente “scuola dipendente direttamente dallo Stato o da atri enti pubblici territoriali”. La scuola pubblica appartiene, è gestita, finanziata e organizzata dallo Stato ed è gratuita, o quasi, mentre le scuole paritarie appartengono e sono gestite da privati, come sono gli ordini religiosi che fanno capo alla Cei e allo Stato e richiedono una retta di frequenza.

Ricordiamo, per quel che oggi interessa, che a monte della questione, la citata legge n. 62 stabiliva che le scuole paritarie effettivamente svolgono un servizio pubblico e quindi, in quanto tale, non dovrebbero pagare l’IMU esattamente come le scuole statali. Alcuni giuristi ritengono però che il trattamento scolastico inteso come equipollente offerto dagli istituti parificati si riferisce evidentemente solo agli aspetti scolastici, non toccando quelli economici.

Almeno, così è stato interpretato da parte della giurisprudenza (v. Cass. n. 4066/ 2019; Cass. n. 18831/2020).

Anche i requisiti dettati dalla Ue sono stati recepiti dall’art. 4, comma 3, del DM n. 200/2012 (Regolamento IMU per enti non commerciali), dove si legge che “… Lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se: a) l’attività è paritaria rispetto a quella statale e la scuola adotta un regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; b) sono comunque osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, di applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, di adeguatezza delle strutture agli standard previsti, di pubblicità del bilancio; c) l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso”.

Occorre evidenziare che in materia di esenzioni la disciplina dell’IMU ha tracciato il quadro normativo di riferimento applicabile al tributo stesso, delineato in maniera espressa dalle disposizioni recate dall’art. 13 del DL 6 dicembre 2011 n. 201, dagli artt. 8 e 9 del D.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, dall’art. 91-bis del DL 24 gennaio 2012, n. 1, e del DL 2 marzo 2012, n.16.

Le ricordate disposizioni richiamano specificatamente solo alcune delle agevolazioni già previste per l’ICI, tra le quali rientra quella di cui al citato art. 7, comma 1, lettera i) del D.lgs. n. 504 del 1992, il quale stabilisce che sono esenti dal tributo locale gli immobili utilizzati dagli enti non commerciali destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’art. 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222.

La citata lettera i), come precisato nella circolare n. 2 del Dipartimento Finanze del 26 gennaio 2009 richiede, per l’applicazione dell’esenzione, che vengano rispettati entrambi i requisiti:

– uno di carattere soggettivo, rappresentato dal fatto che l’immobile deve essere utilizzato da un ente non commerciale di cui all’art. 73, comma 1, lettera c), del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR);

– uno di carattere oggettivo, in base al quale gli immobili utilizzati devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente elencate dalla norma.

Inoltre, in base alla modifica apportata dall’art. 91-bis del decreto legge n. 1/2012, dette attività devono essere svolte con modalità non commerciali. Con tale intervento il legislatore ha voluto chiarire in modo più preciso l’ambito di applicazione della disposizione di esenzione a seguito dell’abrogazione, ad opera del comma 3 dell’art. 91-bis, dell’art. 7, comma 2-bis del decreto legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito con modificazioni dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il quale prevedeva che l’esenzione in discorso si applicasse solo qualora l’attività svolta negli immobili oggetto di esenzione fosse di natura non esclusivamente commerciale.

Sulla questione è opportuno altresì rilevare che nella circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012 non viene effettuato alcun riferimento ai requisiti che le scuole paritarie devono possedere per il riconoscimento dell’esenzione, ma il documento di prassi amministrativa, nel paragrafo 8 intitolato “Le agevolazioni e le esenzioni” si limita semplicemente a riportare il testo dell’art. 91-bis del DL n. 1 del 2012.

In seguito con il Dm 200/2012, il ministero dell’Economia tracciava il confine fra le attività commerciali, quindi paganti, e quelle “svolte con modalità non commerciali”, e quindi esenti, per sostituire le vecchie esenzioni che erano state l’obiettivo delle obiezioni Ue. (v. Cass. n. 10288/2019).

Per riassumere, secondo la giurisprudenza le condizioni necessarie per beneficiare dell’esenzione IMU, gli immobili devono essere utilizzati da enti non commerciali (medesimo requisito soggettivo) e devono inoltre essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate, svolte con modalità non commerciali.

In particolare, la Suprema Corte con sentenze n. 13970/2016 e n. 24308/2019 ha ulteriormente  precisato che in tema di ICI lo svolgimento esclusivo nel cespite  di attività di assistenza o di altre attività equiparate, senza le modalità di un’attività commerciale, costituisce il requisito oggettivo necessario ai fini dell’esenzione dall’imposta e va accertato in concreto, con criteri di rigorosità, seguendo le indicazioni della circolare ministeriale n. 2/DF del 2009 e, dunque, verificando soprattutto l’importo delle rette, che deve essere significativamente ridotto rispetto ai prezzi di mercato onde evitare un’alterazione del regime di libera concorrenza e la trasformazione del beneficio in un aiuto di Stato.

Deve quindi concludersi, dando seguito all’ orientamento di legittimità di recente espresso (Cass. n. 4066 del 2019), che l’esenzione prevista in favore degli enti non commerciali dal citato D.lgs. n. 504/1992 è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa dell’Unione europea solo qualora abbia a oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica nei termini sopra precisati, cioè quando l’attività sia svolta a titolo gratuito ovvero dietro versamento di un corrispettivo simbolico.

La Cassazione, con l’ordinanza n. 10754/2017, aveva precedentemente precisato anche che gli enti interessati sono soggetti al pagamento se non svolgono l’attività a titolo gratuito o con la richiesta di un importo simbolico. Inoltre, aveva chiarito che sono soggetti al pagamento gli immobili utilizzati per lo svolgimento dell’attività didattica, anche se gli istituti interessati rispettano gli standard per l’insegnamento, accolgono gli alunni portatori di handicap, applicano la contrattazione collettiva e reinvestono gli avanzi di gestione l’osservanza di queste condizioni non fa venir meno la natura economica dell’attività svolta.

Peraltro, l’esenzione non spetta anche se le attività operano in perdita, poiché si può esercitare un’impresa con modalità commerciali a prescindere dal risultato della gestione. Anche la convenzione con gli enti pubblici (Stato, Regioni, Enti locali) non esclude la logica del profitto e non conferma che l’obiettivo perseguito sia quello di soddisfare bisogni socialmente rilevanti, che le strutture pubbliche non sono in grado di assicurare.

Successivamente, però, con l’ordinanza 10124/2019 la Cassazione infatti, ha abrogato il decreto del ministero dell’Economia n. 200/2012, che stabiliva in sostanza che le paritarie, essendo le loro rette al di sotto del costo medio sostenuto da quelle statali, non erano considerate enti commerciali, per cui non erano tenute a versare l’IMU. Secondo i giudici il provvedimento del Mef del 2012 era privo del valore di legge per cui le scuole paritarie non potevano più dichiararsi esenti dal pagamento dell’imposta. Quel decreto, scrivevano i Supremi Giudici, “… non ha valore di legge, perché la norma (articolo 91-bis del Dl 1/2012) non demandava al decreto ministeriale il compito di definire autoritativamente il concetto di ‘modalità non commerciali’, ma solo il compito di stabilire modalità e procedure da seguire in caso di utilizzazione mista di un immobile, al fine di individuare il rapporto percentuale tra utilizzazione commerciale e utilizzazione non commerciale dell’immobile stesso”. La pronuncia ha nei fatti rimesso in discussione tutta l’architettura delle esenzioni nel non profit e, come stabilito nelle recenti pronunzie n. 28578/2020 e n. 14317/2021, le attività tassativamente indicate devono essere svolte con modalità non commerciali.

Per concludere, l’esenzione dal tributo comunale (IMU) prevista dall’ordinamento italiano è attualmente fruibile da parte di soggetti che soddisfino contemporaneamente i due requisiti, soggettivo e oggettivo, ai quali si affianca ora il riferimento alle concrete modalità di svolgimento dell’attività effettuata nell’immobile, perché l’esenzione possa infine applicarsi.

Tanto premesso e tornando al fatto in discussione, un istituto d’istruzione paritario riceveva da parte delle competenti autorità municipali un avviso di accertamento per l’IMU in relazione a immobili destinati a scuola. L’istituto si rivolgeva alle Commissioni tributarie, che di fatto negavano il presupposto del riconoscimento all’ente contribuente dell’esenzione. Da qui il ricorso per cassazione affidato a due motivi, nei quali essenzialmente erano riproposti i motivi di contestazione della non esclusione da IMU degli immobili adibiti a scuola paritaria.

La Suprema Corte ha ritenuto che “… Anzitutto, si deve escludere che il ricorso abbia censurato la “commercialità” della sola attività didattica, ma non anche dell’attività ricettiva, sulla cui contemporanea insussistenza il giudice di appello aveva fondato la propria decisione, integrandosi così l’inammissibilità per l’omessa impugnazione delle plurime rationes decidendi. Come è stato accertato dalla sentenza impugnata, infatti, i destinatari dei servizi di ospitalità sono gli stessi fruitori dei servizi di istruzione (cioè, gli studenti della scuola paritaria), non essendo emerso il separato svolgimento di un’attività assimilabile a quella alberghiera con prestazioni dirette ad una generalità indiscriminata di beneficiari. Per cui, è evidente che l’attività ricettiva assume caratteri di accessorietà e strumentalità rispetto all’attività didattica, che costituisce la principale finalità dell’ente contribuente.  Dunque, incentrandosi sulle modalità lucrative di gestione della scuola paritaria, che è stata evinta dalla complessiva entità del volume d’affari realizzato nell’anno d’imposta (pari ad € 96.635,00), la doglianza coglie in pieno la (unica) ratio decidendi della sentenza impugnata.  Per il resto, entrambi i motivi di ricorso – la cui stretta ed intima connessione suggerisce l’esame congiunto – sono fondati.   Secondo il costante orientamento di questa Corte (vedansi, in motivazione: Cass., Sez. 5^, 27 giugno 2019, n. 17256; Cass., Sez. 5^, 11 marzo 2020, n. 6795; Cass., Sez. 5^, 15 dicembre 2020, n. 28578), l’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504, nel testo vigente dall’i gennaio 2003 al 3 ottobre 2005, disponeva l’esenzione dall’I.C.I. per “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”. Tale disposizione è stata, in seguito, integrata e modificata dall’art. 7, comma 2 -bis, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, che ha esteso l’esenzione alle attività indicate dalla medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse. Un’ulteriore modifica è, poi, intervenuta con l’art. 39 del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, nella Legge 4 agosto 2006 n. 248, che, sostituendo il comma 2-bis del citato art. 7 del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, ha stabilito che l’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera “che non abbiano esclusivamente natura commerciale”. Occorre precisare, inoltre, che le condizioni dell’esenzione sono cumulative, nel senso che è richiesta la coesistenza, sia del requisito soggettivo riguardante la natura non commerciale dell’ente, sia del requisito oggettivo in forza del quale l’attività svolta nell’immobile deve rientrare tra quelle previste dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504; deve trattarsi, in particolare, di immobili destinati direttamente ed esclusivamente allo svolgimento di determinate attività, tra le quali quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana (Cass., Sez. 5^, 8 luglio 2016, n. 13966). Con riguardo alla verifica del requisito oggettivo è, pertanto, irrilevante, la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi; tale elemento, costituendo una fase successiva, non fa, infatti, venir meno l’eventuale carattere commerciale dell’attività (Cass. Sez. 5^, 20 novembre 2009, n. 24500).  Sotto il profilo della distribuzione degli oneri probatori è stato affermato, ed è un principio del tutto condiviso da questo collegio, che “il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza, in concreto, dei requisiti dell’esenzione, mediante la prova che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale” (Cass., Sez. 5^, 2 aprile 2015, n.6711). Sul diverso versante della compatibilità della norma in esame con il diritto dell’Unione Europea, da tempo si è affermato un orientamento di legittimità secondo cui l’esenzione prevista in favore degli enti non commerciali dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa dell’Unione Europea solo qualora abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica nei termini sopra precisati: cioè, quando l’attività sia svolta a titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico (Cass., Sez. 5^, 12 febbraio 2019, n. 4066; Cass., Sez. 5^, 12 aprile 2019, n. 10288; Cass., Sez. 6^, 10 settembre 2020, n. 18831).  Ed è questa la disposizione normativa (nell’interpretazione “europeisticamente” orientata di questa Corte) da applicare ratione temporis alla fattispecie in esame, con riguardo al pagamento dell’I.C.I. per l’anno 2011, prima delle modifiche apportate dall’art. 91-bis del D.L. 24 gennaio 2012, n.1, convertito – con modificazioni – nella Legge 24 marzo 2012 n. 27 e dall’art. 11-bis del D.L. 28 dicembre 2013 n. 149, convertito – con modificazioni – nella Legge 21 febbraio 2014 n. 13. 2.2 Per sfuggire ad un assai probabile procedimento per infrazione, il legislatore nazionale ha successivamente provveduto ad abrogare l’imposta comunale sugli immobili (I.C.I.) e ad introdurre rimposta municipale unica (I.M.U.) sulla componente immobiliare.2.3 In definitiva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le condizioni necessarie per beneficiare dell’esenzione da I.M.U. sono le seguenti: 1) gli immobili devono essere utilizzati da enti non commerciali (medesimo requisito soggettivo); 2) devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto); 3) le attività tassativamente indicate devono essere svolte con modalità non commerciali (novità) (Cass., Sez. 5^, 15 dicembre 2020, n. 28578 – a quest’ultima pronunzia, comunque, si rinvia per la precisa e dettagliata enunciazione dei principi sul quadro normativo). 2.4 Occorre ora verificare se la destinazione degli immobili a scuola paritaria da parte dell’ente contribuente consenta di beneficiare dell’esenzione da IMU. Si tratta, dunque, di controllare se il giudice di merito, nell’accertamento dei vari requisiti, abbia correttamente applicato l’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504, nel testo novellato, dapprima, dall’art. 7, comma 2 -bis, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, dall’art. 39 del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, nella Legge 4 agosto 2006 n. 248, nell’accezione compatibile con la decisione adottata dalla Commissione Europea il 19 dicembre 2012, e, poi, dall’art. 91- bis, comma 1, del D.L.. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, nella Legge 24 marzo 2012 n. 27, quale modificato dall’art. 9, comma 6, del D.L. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito, con modificazioni, nella Legge 7 dicembre 2012 n. 213, secondo l’attuazione datane dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200, per l’anno 2012.  A ben vedere, la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto che l’ente impositore non abbia addotto elementi idonei a dimostrare l’esercizio di un’impresa commerciale da parte dell’ente contribuente, finendo, però, col traslare l’onere probatorio a carico della parte che non ne era gravata in relazione ai requisiti dell’esenzione dalla pretesa impositiva. Peraltro, pur avendo accertato che «l’entità dei ricavi non è marginale», il giudice di appello ha apoditticamente escluso che essa possa determinare «un reddito riconducibile alla natura commerciale dell’attività svolta», sul rilievo che «le rette sembrano in linea con quanto richiesto dal MIUR».  Con quest’ultimo inciso, la sentenza impugnata ha implicitamente messo in rilievo l’osservanza da parte dell’ente contribuente (per quanto in relazione ad un precedente periodo di imposta, essendo riferita l’I.M.U. all’anno 2012) dei limiti fissati in seguito dal D.M. 26 giugno 2014 (portante “Approvazione del modello di dichiarazione dell’IMU e della TASI per gli enti non commerciali, con le relative istruzioni”), nella cui redazione si è tenuto conto dei principi sanciti dalla decisione adottata dalla Commissione dell’Unione Europea il 19 dicembre 2012.

Ora, con particolare riguardo alle attività didattiche, la Commissione dell’Unione Europea ha stabilito che «queste si ritengono svolte con modalità non commerciali se sono soddisfatte alcune condizioni specifiche. In particolare, l’attività deve essere paritaria rispetto all’istruzione pubblica e la scuola deve garantire la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; la scuola deve inoltre accogliere gli alunni portatori di handicap, applicare la contrattazione collettiva, avere strutture adeguate agli standard previsti e prevedere la pubblicazione del bilancio. Oltre a ciò, l’attività deve essere svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico, tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso. Al riguardo, la Commissione ricorda che, conformemente alla giurisprudenza, non costituiscono attività economica i corsi offerti da determinati stabilimenti che formano parte del sistema dell’istruzione pubblica e sono finanziati, del tutto o prevalentemente, con fondi pubblici. La natura non economica dell’istruzione pubblica non viene in linea di principio contraddetta dal fatto che talvolta gli alunni o i loro genitori debbano versare tasse scolastiche o di iscrizione, che contribuiscono ai costi di esercizio del sistema scolastico, purché tali contributi finanziari coprano solo una frazione del costo effettivo del servizio e non possano pertanto considerarsi una retribuzione del servizio prestato. Come anche la Commissione ha riconosciuto nella comunicazione sull’applicazione delle norme dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale, tali principi riguardano la formazione professionale, la scuola elementare e gli asili nido privati e pubblici, l’attività d’insegnamento esercitata in via accessoria nelle università, nonché l’offerta di istruzione universitaria. Alla luce di quanto precede, la Commissione ritiene che le rette di importo simbolico cui si riferisce il decreto non possano essere considerate una remunerazione del servizio fornito. Pertanto, nella fattispecie, considerati í requisiti generali e soggettivi di cui agli articoli 1 e 3 del regolamento e i requisiti oggettivi specifici di cui all’articolo 4, la Commissione ritiene che il servizio didattico fornito dagli enti in questione non possa essere considerato un’attività economica». Tali requisiti sono stati successivamente recepiti e confermati dalla normativa nazionale. Difatti, in ossequio alla previsione dell’art. 91 -bis, comma 3, del D.L. 24 gennaio 2012, n.1, convertito – con modificazioni – nella Legge 24 marzo 2012 n. 27, l’art. 4, comma 3, del D.M. 19 novembre 2012 n.200 (portante regolamento in materia di I.M.U. per gli enti non commerciali) ha previsto che: «Lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se:

a) l’attività è paritaria rispetto a quella statale e la scuola adotta un regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni;

b) sono comunque osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, di applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, di adeguatezza delle strutture agli standard previsti, di pubblicità del bilancio; c) l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso». Le istruzioni per la compilazione del modello di dichiarazione a fini dell’IMU per gli enti non commerciali (sempre in allegato al D.M. 26 giugno 2014) hanno chiarito che l’attività didattica è svolta con modalità non commerciali e, quindi, non è assoggettabile a imposizione allorquando il corrispettivo medio (in sigla, CM, il corrispettivo medio percepito dalla scuola paritaria, equivalente alla media degli importi annui che vengono corrisposti alla scuola dalle famiglie) è inferiore o uguale al costo medio per studente (in sigla, CMS, il costo medio per studente secondo la tabella ministeriale per l’anno di riferimento). A ben vedere, la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta ai principi enunciati nel valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento del beneficio tributario con riguardo all’IMU, avendo ravvisato in modo incompleto la ricorrenza sia del requisito soggettivo (con la sola menzione della qualità di ente ecclesiastico) che del requisito oggettivo (con l’apodittica negazione della “commercialità” dell’attività didattica) senza un’adeguata specificazione delle relative connotazioni nella sussunzione dei fatti accertati all’interno dei criteri fissati dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200.  Ne deriva l’esigenza di rinnovare tale accertamento – in base alle emergenze delle risultanze istruttorie – alla luce dei parametri vigenti ratione temporis. Ed a tal fine il giudice di merito dovrà valutare l’osservanza dei criteri predeterminati e standardizzati dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200 per stabilire se le attività didattiche siano svolte con modalità “non commerciali”. Pertanto, apprezzandosi la fondatezza dei motivi dedotti, il ricorso può essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità

Corte di Cassazione – Ordinanza 25 maggio 2021, n. 14317

sul ricorso iscritto al n. 34082/2019 R.G., proposto DA

Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio Ciavarella, con studio in Roma, ove elettivamente domiciliata, giusta procura in calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

RICORRENTE

CONTRO

l’Istituto Suore F.M. d’E., con sede in Roma, in persona della Madre Superiora pro tempore, rappresentato e difeso dalla Prof. Avv. Lidia Salvini, con studio in Roma, e dall’Avv. Giovanni Panzera da Empoli, con studio in Roma, elettivamente domiciliato presso lo studio della prima, giusta procura in margine al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

CONTRORICORRENTE

AVVERSO

la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 15 aprile 2019 n. 2335/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata (mediante collegamento da remoto, ai sensi dell’art. 23, comma 9, del D.L. 28 ottobre 2020 n. 137, convertito nella Legge 18 dicembre 2020 n. 176, con le modalità stabilite dal decreto reso dal Direttore Generale dei Servizi Informativi ed Automatizzati del Ministero della Giustizia il 2 novembre 2020) del 23 marzo 2021 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

RILEVATO CHE

Roma Capitale ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 15 aprile 2019 n. 2335/03/2019, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per l’I.M.U. relativa all’anno 2012 in relazione ad immobili destinati a scuola paritaria (precisamente: scuola materna, elementare e media), ha rigettato l’appello proposto dalla medesima nei confronti dell’Istituto Suore Francescane Missionarie d’Egitto avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma col n. 25216/44/2017, con compensazione delle spese giudiziali.

Il giudice di appello ha confermato la decisione di prime cure sul presupposto del riconoscimento all’ente contribuente dell’esenzione da I.M.U., ai sensi dell’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 in relazione agli immobili destinati a scuola paritaria.

L’Istituto “S.F.M.d’E.” si costituisce con controricorso, deducendo l’inammissibilità del ricorso introduttivo.

Ritenuta la sussistenza delle condizioni per definire il ricorso con il procedimento ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., la proposta redatta dal relatore designato è stata notificata ai difensori delle parti con il decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

In vista dell’odierna adunanza, la controricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO CHE

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504, in combinato disposto con l’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per essere stato erroneamente escluso dal giudice di appello l’assoggettamento ad I.M.U. degli immobili adibiti a scuola paritaria.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per essere stato erroneamente ritenuto dal giudice di appello che l’ente contribuente avesse assolto l’onere di provare il requisito oggettivo del concreto utilizzo degli immobili per lo svolgimento dell’attività didattica con modalità non commerciali.

RITENUTO CHE

1. Preliminarmente, si deve disattendere l’eccezione del controricorrente circa l’inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa impugnazione delle due distinte ed autonome rationes decidendi, ciascuna delle quali di per sé sufficiente a sorreggere la sentenza impugnata.

1.1 Anzitutto, si deve escludere che il ricorso abbia censurato la “commercialità” della sola attività didattica, ma non anche dell’attività ricettiva, sulla cui contemporanea insussistenza il giudice di appello aveva fondato la propria decisione, integrandosi così l’inammissibilità per l’omessa impugnazione delle plurime rationes decidendi.  Come è stato accertato dalla sentenza impugnata, infatti, i destinatari dei servizi di ospitalità sono gli stessi fruitori dei servizi di istruzione (cioè, gli studenti della scuola paritaria), non essendo emerso il separato svolgimento di un’attività assimilabile a quella alberghiera con prestazioni dirette ad una generalità indiscriminata di beneficiari.

1.2 Per cui, è evidente che l’attività ricettiva assume caratteri di accessorietà e strumentalità rispetto all’attività didattica, che costituisce la principale finalità dell’ente contribuente.

Dunque, incentrandosi sulle modalità lucrative di gestione della scuola paritaria, che è stata evinta dalla complessiva entità del volume d’affari realizzato nell’anno d’imposta (pari ad € 96.635,00), la doglianza coglie in pieno la (unica) ratio decidendi della sentenza impugnata.

2. Per il resto, entrambi i motivi di ricorso – la cui stretta ed intima connessione suggerisce l’esame congiunto – sono fondati.

2.1 Secondo il costante orientamento di questa Corte (vedansi, in motivazione: Cass., Sez. 5^, 27 giugno 2019, n. 17256; Cass., Sez. 5^, 11 marzo 2020, n. 6795; Cass., Sez. 5^, 15 dicembre 2020, n. 28578), l’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504, nel testo vigente dall’i gennaio 2003 al 3 ottobre 2005, disponeva l’esenzione dall’I.C.I. per “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’art. 87, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”.

Tale disposizione è stata, in seguito, integrata e modificata dall’art. 7, comma 2 -bis, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, che ha esteso l’esenzione alle attività indicate dalla medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse.

Un’ulteriore modifica è, poi, intervenuta con l’art. 39 del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, nella Legge 4 agosto 2006 n. 248, che, sostituendo il comma 2-bis del citato art. 7 del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, ha stabilito che l’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera “che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Occorre precisare, inoltre, che le condizioni dell’esenzione sono cumulative, nel senso che è richiesta la coesistenza, sia del requisito soggettivo riguardante la natura non commerciale dell’ente, sia del requisito oggettivo in forza del quale l’attività svolta nell’immobile deve rientrare tra quelle previste dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504; deve trattarsi, in particolare, di immobili destinati direttamente ed esclusivamente allo svolgimento di determinate attività, tra le quali quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana (Cass., Sez. 5^, 8 luglio 2016, n. 13966).

Con riguardo alla verifica del requisito oggettivo è, pertanto, irrilevante, la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi; tale elemento, costituendo una fase successiva, non fa, infatti, venir meno l’eventuale carattere commerciale dell’attività (Cass., Sez. 5^, 20 novembre 2009, n. 24500).

Sotto il profilo della distribuzione degli oneri probatori è stato affermato, ed è un principio del tutto condiviso da questo collegio, che “il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza, in concreto, dei requisiti dell’esenzione, mediante la prova che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale” (Cass., Sez. 5^, 2 aprile 2015, n.6711).

Sul diverso versante della compatibilità della norma in esame con il diritto dell’Unione Europea, da tempo si è affermato un orientamento di legittimità secondo cui l’esenzione prevista in favore degli enti non commerciali dall’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504 è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa dell’Unione Europea solo qualora abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica nei termini sopra precisati: cioè, quando l’attività sia svolta a titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico (Cass., Sez. 5^, 12 febbraio 2019, n. 4066; Cass., Sez. 5^, 12 aprile 2019, n. 10288; Cass., Sez. 6^, 10 settembre 2020, n. 18831).

Ed è questa la disposizione normativa (nell’interpretazione “europeisticamente” orientata di questa Corte) da applicare ratione temporis alla fattispecie in esame, con riguardo al pagamento dell’I.C.I. per l’anno 2011, prima delle modifiche apportate dall’art. 91-bis del D.L. 24 gennaio 2012, n.1, convertito – con modificazioni – nella Legge 24 marzo 2012 n. 27 e dall’art. 11-bis del D.L. 28 dicembre 2013 n. 149, convertito – con modificazioni – nella Legge 21 febbraio 2014 n. 13. 2.2 Per sfuggire ad un assai probabile procedimento per infrazione, il legislatore nazionale ha successivamente provveduto ad abrogare l’imposta comunale sugli immobili (I.C.I.) e ad introdurre rimposta municipale unica (I.M.U.) sulla componente immobiliare.2.3 In definitiva, secondo la giurisprudenza di questa Corte, le condizioni necessarie per beneficiare dell’esenzione da I.M.U. sono le seguenti: 1) gli immobili devono essere utilizzati da enti non commerciali (medesimo requisito soggettivo); 2) devono essere destinati esclusivamente allo svolgimento delle attività tassativamente indicate (quelle assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive e di religione o culto); 3) le attività tassativamente indicate devono essere svolte con modalità non commerciali (novità) (Cass., Sez. 5^, 15 dicembre 2020, n. 28578 – a quest’ultima pronunzia, comunque, si rinvia per la precisa e dettagliata enunciazione dei principi sul quadro normativo). 2.4 Occorre ora verificare se la destinazione degli immobili a scuola paritaria da parte dell’ente contribuente consenta di beneficiare dell’esenzione da I.M.U.

Si tratta, dunque, di controllare se il giudice di merito, nell’accertamento dei vari requisiti, abbia correttamente applicato l’art. 7, comma 1, lett. i, del D.L.vo 30 dicembre 1992 n. 504, nel testo novellato, dapprima, dall’art. 7, comma 2 -bis, del D.L. 30 settembre 2005 n. 203, convertito, con modificazioni, nella Legge 2 dicembre 2005 n. 281, dall’art. 39 del D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito, con modificazioni, nella Legge 4 agosto 2006 n. 248, nell’accezione compatibile con la decisione adottata dalla Commissione Europea il 19 dicembre 2012, e, poi, dall’art. 91- bis, comma 1, del D.L.. 24 gennaio 2012 n. 1, convertito, con modificazioni, nella Legge 24 marzo 2012 n. 27, quale modificato dall’art. 9, comma 6, del D.L. 10 ottobre 2012 n. 174, convertito, con modificazioni, nella Legge 7 dicembre 2012 n. 213, secondo l’attuazione datane dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200, per l’anno 2012.

2.5 A ben vedere, la Commissione Tributaria Regionale ha ritenuto che l’ente impositore non abbia addotto elementi idonei a dimostrare l’esercizio di un’impresa commerciale da parte dell’ente contribuente, finendo, però, col traslare l’onere probatorio a carico della parte che non ne era gravata in relazione ai requisiti dell’esenzione dalla pretesa impositiva. Peraltro, pur avendo accertato che «l’entità dei ricavi non è marginale», il giudice di appello ha apoditticamente escluso che essa possa determinare «un reddito riconducibile alla natura commerciale dell’attività svolta», sul rilievo che «le rette sembrano in linea con quanto richiesto dal MIUR».

2.6 Con quest’ultimo inciso, la sentenza impugnata ha implicitamente messo in rilievo l’osservanza da parte dell’ente contribuente (per quanto in relazione ad un precedente periodo di imposta, essendo riferita l’I.M.U. all’anno 2012) dei limiti fissati in seguito dal D.M. 26 giugno 2014 (portante “Approvazione del modello di dichiarazione dell’IMU e della TASI per gli enti non commerciali, con le relative istruzioni”), nella cui redazione si è tenuto conto dei principi sanciti dalla decisione adottata dalla Commissione dell’Unione Europea il 19 dicembre 2012.

Ora, con particolare riguardo alle attività didattiche, la Commissione dell’Unione Europea ha stabilito che «queste si ritengono svolte con modalità non commerciali se sono soddisfatte alcune condizioni specifiche. In particolare, l’attività deve essere paritaria rispetto all’istruzione pubblica e la scuola deve garantire la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni; la scuola deve inoltre accogliere gli alunni portatori di handicap, applicare la contrattazione collettiva, avere strutture adeguate agli standard previsti e prevedere la pubblicazione del bilancio.

Oltre a ciò, l’attività deve essere svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di un importo simbolico, tale da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso.

Al riguardo, la Commissione ricorda che, conformemente alla giurisprudenza, non costituiscono attività economica i corsi offerti da determinati stabilimenti che formano parte del sistema dell’istruzione pubblica e sono finanziati, del tutto o prevalentemente, con fondi pubblici.

La natura non economica dell’istruzione pubblica non viene in linea di principio contraddetta dal fatto che talvolta gli alunni o i loro genitori debbano versare tasse scolastiche o di iscrizione, che contribuiscono ai costi di esercizio del sistema scolastico, purché tali contributi finanziari coprano solo una frazione del costo effettivo del servizio e non possano pertanto considerarsi una retribuzione del servizio prestato. Come anche la Commissione ha riconosciuto nella comunicazione sull’applicazione delle norme dell’Unione Europea in materia di aiuti di Stato alla compensazione concessa per la prestazione di servizi di interesse economico generale, tali principi riguardano la formazione professionale, la scuola elementare e gli asili nido privati e pubblici, l’attività d’insegnamento esercitata in via accessoria nelle università, nonché l’offerta di istruzione universitaria.

Alla luce di quanto precede, la Commissione ritiene che le rette di importo simbolico cui si riferisce il decreto non possano essere considerate una remunerazione del servizio fornito. Pertanto, nella fattispecie, considerati í requisiti generali e soggettivi di cui agli articoli 1 e 3 del regolamento e i requisiti oggettivi specifici di cui all’articolo 4, la Commissione ritiene che il servizio didattico fornito dagli enti in questione non possa essere considerato un’attività economica».

2.7 Tali requisiti sono stati successivamente recepiti e confermati dalla normativa nazionale.

Difatti, in ossequio alla previsione dell’art. 91 -bis, comma 3, del D.L. 24 gennaio 2012, n.1, convertito – con modificazioni – nella Legge 24 marzo 2012 n. 27, l’art. 4, comma 3, del D.M. 19 novembre 2012 n.200 (portante regolamento in materia di I.M.U. per gli enti non commerciali) ha previsto che: «Lo svolgimento di attività didattiche si ritiene effettuato con modalità non commerciali se:

a) l’attività è paritaria rispetto a quella statale e la scuola adotta un regolamento che garantisce la non discriminazione in fase di accettazione degli alunni;

b) sono comunque osservati gli obblighi di accoglienza di alunni portatori di handicap, di applicazione della contrattazione collettiva al personale docente e non docente, di adeguatezza delle strutture agli standard previsti, di pubblicità del bilancio;

c) l’attività è svolta a titolo gratuito, ovvero dietro versamento di corrispettivi di importo simbolico e tali da coprire solamente una frazione del costo effettivo del servizio, tenuto anche conto dell’assenza di relazione con lo stesso».

2.8 Le istruzioni per la compilazione del modello di dichiarazione a fini dell’I.M.U. per gli enti non commerciali (sempre in allegato al D.M. 26 giugno 2014) hanno chiarito che l’attività didattica è svolta con modalità non commerciali e, quindi, non è assoggettabile a imposizione allorquando il corrispettivo medio (in sigla, CM, il corrispettivo medio percepito dalla scuola paritaria, equivalente alla media degli importi annui che vengono corrisposti alla scuola dalle famiglie) è inferiore o uguale al costo medio per studente (in sigla, CMS, il costo medio per studente secondo la tabella ministeriale per l’anno di riferimento).

2.9 A ben vedere, la Commissione Tributaria Regionale non si è attenuta ai principi enunciati nel valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento del beneficio tributario con riguardo all’I.M.U.., avendo ravvisato in modo incompleto la ricorrenza sia del requisito soggettivo (con la sola menzione della qualità di ente ecclesiastico) che del requisito oggettivo (con l’apodittica negazione della “commercialità” dell’attività didattica) senza un’adeguata specificazione delle relative connotazioni nella sussunzione dei fatti accertati all’interno dei criteri fissati dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200.

Ne deriva l’esigenza di rinnovare tale accertamento – in base alle emergenze delle risultanze istruttorie – alla luce dei parametri vigenti ratione temporis.

Ed a tal fine il giudice di merito dovrà valutare l’osservanza dei criteri predeterminati e standardizzati dal D.M. 19 novembre 2012 n. 200 per stabilire se le attività didattiche siano svolte con modalità “non commerciali”.

3. Pertanto, apprezzandosi la fondatezza dei motivi dedotti, il ricorso può essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in

diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

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