CASSAZIONE

Sanzioni tributarie sproporzionate: quando opera la riduzione

Tributi – Accise –  Distilleria – Violazioni tributarie – Causa di forza maggiore – Circostanze eccezionali – Omesso versamento – Sanzioni – Principio di proporzionalità – D.lgs. n. 472/1997

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33097 del 9 novembre 2022, intervenendo in merito agli aspetti legati all’applicazione della sanzione pecuniaria quando è oggettivamente eccessiva rispetto ai rischi per l’Erario e alle violazioni commesse, ha affermato che la sanzione stabilita in misura fissa per il mancato versamento può essere ridotta fino alla metà, se manifestamente sproporzionata all’entità del tributo dovuto. Nello specifico, i Supremi Giudici hanno ricordato che già alcuni importanti precedenti avevano stabilito che “… Ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, di modo che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati (Cass. 17 aprile 2013, n. 9255; 8 febbraio 2016, n. 2406). Ed a maggior ragione il principio vale in relazione all’apprezzamento, tipicamente di merito (in termini, vedi Cass. 4 marzo 2011, n. 5209), in ordine alla ricorrenza delle eccezionali circostanze contemplate dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472/97” (v. Cass. 9 giugno 2017, n. 14406).

A parere degli Ermellini, quindi, non dovrebbe sussistere spazio per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali da parte della magistratura adita. Comunque, va anche rammentato che in base alla versione attuale dell’art. 7, D.lgs. 472/1997, la sanzione può essere diminuita sino alla metà del minimo se c’è sproporzione tra entità del tributo e sanzione, senza che debbano per forza ricorrere circostanze eccezionali, a differenza del passato, e la riduzione per manifesta sproporzione rispetto all’entità del tributo si applica a tutte le sanzioni, anche a quelle che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa.

Inoltre, nelle ipotesi in cui la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi: la Corte di Cassazione, ciò considerato, non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati. A maggior ragione, il principio vale in relazione all’apprezzamento, tipicamente di merito, in ordine alla ricorrenza delle eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo e la sanzione. La condotta, per essere sanzionabile, deve però essere rivelatrice di una volontà di occultare l’imposta, cioè tesa al pagamento del dovuto secondo arbitrio o mera convenienza personale e non in ragione di differenti interpretazioni della disciplina di riferimento. Se tali interpretazioni, anche quando non condivisibili, sono sorrette da argomentazioni logiche sostenibili in punto di diritto, non tenerne conto in sede di irrogazione della sanzione comporterebbe, conseguentemente, la violazione del principio di proporzionalità.

In via generale le sanzioni tributarie sono di due tipi, amministrative e penali, che si collegano, rispettivamente, a un illecito amministrativo o penale. Di solito, secondo il cosiddetto criterio nominalistico, la natura dell’illecito dipende dal tipo di sanzione comminata dalla legge, perciò la scelta dell’uno o dell’altro tipo di sanzione è in definitiva rimessa a valutazioni di opportunità politica. Pertanto, è amministrativo l’illecito per il quale sono previste sanzioni amministrative; è penale l’illecito per il quale è irrogata una delle pene previste dal codice penale (reclusione e multa per i delitti, arresto e ammenda per le contravvenzioni). Tale criterio distintivo è valido anche nel diritto tributario, con l’avvertenza che l’illecito penale tributario è attualmente sanzionato solo con la pena della reclusione. In particolare, le sanzioni amministrative tributarie sono sanzioni pecuniarie, consistenti nel pagamento di una somma di denaro proporzionale rispetto al tributo non dichiarato o non versato (in una percentuale fissata tra un minimo e un massimo). Tale proporzionalità è volta a rendere adeguata la sanzione al vantaggio economico connesso all’illecito. Fanno eccezione le sanzioni per la violazione di obblighi formali, indipendenti dall’evasione di un tributo, e le sanzioni accessorie a contenuto interdittivo (art. 21), che consistono nella limitazione di facoltà, poteri o status riconosciuti e che possono incidere profondamente nella vita dell’azienda.

Il diritto penale tributario considera solamente delitti punibili a titolo di dolo specifico, cioè delitti per la cui punibilità è richiesta non solo la coscienza e volontà del fatto tipico, ma anche il fine specifico di evadere determinate imposte. Al contrario, le sanzioni amministrative tributarie puniscono sia le condotte dolose che colpose e il grado di colpevolezza influisce sulla determinazione della sanzione, che è rapportata alla gravità della violazione, desunta anche dalla condotta dell’agente. Inoltre, le sanzioni penali sono comminate dal giudice penale, laddove è in particolare il PM che deve provare il dolo specifico, mentre le sanzioni amministrative sono irrogate dall’ufficio, che deve provare il dolo o la colpa grave, mentre la semplice colpa è presunta a carico del contribuente che ha coscientemente e volontariamente posto in essere la violazione.

Può risultare utile, sempre in tema di sanzioni tributarie, far riferimento alla recente ordinanza n. 40916/2021, nella quale gli stessi Ermellini segnalavano l’evidente impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica sull’argomento, decretando che “… Quanto poi alla incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione la Corte rileva come “«In tema di sanzioni amministrative tributarie, l’incertezza normativa oggettiva – che deve essere distinta dalla ignoranza incolpevole del diritto, come si evince dall’art. 6 del d.lgs. n. 472 del 1997 – è caratterizzata dalla impossibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e può essere desunta da alcuni “indici”, quali, ad esempio: (1) la difficoltà di individuazione delle disposizioni normative; (2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; (3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; (4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; (5) l’assenza di una prassi amministrativa o la contraddittorietà delle circolari; (6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; (7) l’esistenza di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; (8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; (9) il contrasto tra opinioni dottrinali; (10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di una disposizione implicita preesistente». Quanto al criterio giuridico attraverso cui traguardare gli indici rivelatori (fattuali), questa Corte ha puntualizzato che «In tema di sanzioni amministrative per violazioni di  norme tributarie, sussiste incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria ai sensi dell’art. 10 della I. n. 212 del 2000 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione.» (Cass. 01/02/2019, n. 3108, in connessione con Cass. 1893/2021, cit.); è stato altresì chiarito (da Cass. n. 4169/2020, cit.) che per incertezza normativa obiettiva deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui, in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie; l’incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto come emerge dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, che distingue in modo netto le due figure dell’incertezza normativa oggettiva e dell’ignoranza, pur ricollegandovi i medesimi effetti. Nel caso in esame, la C.T.R. non si è attenuta a questi princìpi di diritto e, in sostanza, ha escluso l’applicazione della sanzione pecuniaria in ragione di aspetti irrilevanti, marginali o generici, come la buona fede del contribuente o l’esistenza di un dibattito sull’incongruenza della sanzione”.

Anche secondo la Corte Ue le sanzioni tributarie non possono essere applicate in modo automatico, senza assicurarsi che non eccedano quanto necessario per conseguire gli obiettivi consistenti nell’assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e nell’evitare l’evasione. Lo ha ribadito, ad esempio, la Corte di Giustizia Ue nella sentenza C-935/19 del 15 aprile 2021 e nella  causa C-205/20 dell’8 marzo 2022, nelle quali è stato ribadito che  le sanzioni sproporzionate già ritenute di carattere penale (si veda il ne bis in idem europeo sentenza Grande Stevens) violano l’art. 49 del CdF che impone il principio della proporzionalità delle sanzioni, ma arriva a riconoscere il potere discrezionale del giudice nazionale di disapplicare le sanzioni in contrasto con il suddetto principio. Quindi, le sanzioni tributarie devono sempre confrontarsi con il principio di proporzionalità. Se da tale analisi dovessero emergere criticità, il giudice ha il dovere, quanto meno, di ridurre la misura edittale fino alla metà del minimo.

Non a caso la sensibilità della giurisprudenza verso l’applicazione del principio di proporzionalità ha nel tempo definito il rapporto che deve sussistere tra la condotta dell’agente e la risposta sanzionatoria dell’ordinamento, fra la gravità del comportamento di questi e l’afflittività della sanzione. Funge, inoltre, quale limite esterno al potere punitivo dello Stato. Infatti, gli artt. 3 e 27 della Costituzione sanciscono il potere-dovere dello Stato di trattare in modo diverso situazioni diverse, e di strutturare la sanzione in modo che essa possa avere effetti rieducativi sull’agente.

Tali poteri-doveri vengono realizzati dal legislatore delegando al giudice il compito di individuare, all’interno della cornice edittale normativamente prefissata, la misura e la tipologia di sanzione da applicare al caso concreto. Il criterio della proporzione, infatti, impone un raffronto tra i mezzi e gli strumenti a disposizione dell’ordinamento, secondo un giudizio ex ante non di tipo aritmetico, ma necessariamente relativistico. Il principio di proporzionalità, come elaborato dalla giurisprudenza europea, vieta alle amministrazioni pubbliche di comprimere la sfera giuridica dei destinatari della propria azione in misura diversa e ultronea rispetto a quanto necessario per il raggiungimento dello scopo al quale l’azione stessa è prefissata.  Rappresenta la giusta misura del potere che si deve adeguare alle circostanze di fatto, senza alterare il corretto equilibrio tra i valori, gli interessi e le situazioni giuridiche.

Come riportato dalla stessa S.C. nelle pronunzia n. 27662/2020 viene ricordato che “… Quanto al criterio giuridico attraverso cui traguardare gli indici rivelatori (fattuali), questa Corte ha puntualizzato che «In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, sussiste incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria ai sensi dell’art. 10 della I. n. 212 del 2000 e dell’art. 8 del d.lgs. n. 546 del 1992, quando è ravvisabile una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita, non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata e neppure all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento a cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione.» (Cass. 01/02/2019, n. 3108, in connessione con Cass. 1893/2021, cit.); è stato altresì chiarito (da Cass. n. 4169/2020, cit.) che per incertezza normativa obiettiva deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui, in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sé ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie; l’incertezza normativa oggettiva costituisce una situazione diversa rispetto alla soggettiva ignoranza incolpevole del diritto come emerge dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, che distingue in modo netto le due figure dell’incertezza normativa oggettiva e dell’ignoranza, pur ricollegandovi i medesimi effetti”.

Tanto premesso e tornando alla vicenda in esame, una società contribuente, ricevuto un accertamento dell’omesso versamento dell’accisa dovuta per i prodotti alcolici immessi in consumo, si era rivolta alla giustizia tributaria ritenendo sussistente la causa di non punibilità per forza maggiore di cui all’art. 6, comma 5, del D.lgs. 472/1997. Ottenuto il parere favorevole in primo grado, la parte contribuente riceveva però un arresto da parte dei giudici regionali, che ritenevano non pertinenti le oggettive difficoltà economiche dell’azienda da cui derivava l’inadempimento degli obblighi tributari, poiché tali problematiche potevano rientrare nell’ordinario rischio di impresa e, perciò, non assumevano i connotati di evento eccezionale o di forza maggiore.

La ricorrente, rivolgendosi ai giudici della Cassazione, lamentava in particolare che la CTR aveva affermato che si trattava di una sanzione applicabile in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, in misura predeterminata dal legislatore, senza spazio alcuno per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali. Secondo gli Ermellini,  però, i giudici tributari non avevano fatto corretta applicazione dei principi di diritto enunciati dalla stessa Suprema Corte, e accogliendo il motivo di ricorso sollevato dalla contribuente, hanno affermato che “… L’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 18 dicembre 1992, n. 472, recante «Criteri di determinazione della sanzione», nella versione applicabile ratione temporis, prima della modifica dall’art. 16, comma 1, lett. c), n. 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (applicabile a decorrere dal 1°gennaio 2016, ex art. 32, comma 1, del medesimo decreto legislativo n. 158/2016) dispone che: «qualora concorrano eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo». 3.3.Questa Corte, in proposito, ha espresso il principio che « In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la disposizione contenuta nel comma quarto dell’art. 7 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – che consente di ridurre la sanzione fino alla metà del minimo, quando concorrono eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione stessa – si applica, in mancanza di specifiche eccezioni, ad ogni genere di sanzioni, comprese quelle che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa, dovendosi in tal caso considerare che il minimo ed il massimo si identificano in detta misura fissa o proporzionale» (Cass., 13 dicembre 2017, n. 29998; Cass., 4 marzo 2011, n. 5209). Inoltre, la Corte ha affermato che «Ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, di modo che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati (Cass. 17 aprile 2013, n. 9255; 8 febbraio 2016, n. 2406). Ed a maggior ragione il principio vale in relazione all’apprezzamento, tipicamente di merito (in termini, vedi Cass. 4 marzo 2011, n. 5209), in ordine alla ricorrenza delle eccezionali circostanze contemplate dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472/97» (Cass., 9 giugno 2017, n. 14406). 3.4.Ciò posto, i giudici tributari non hanno fatto corretta applicazione dei principi enunciati, avendo affermato che,poiché si trattava di una sanzione applicabile in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, non sussisteva alcuno spazio per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali e ciò diversamente dall’ipotesi in cui la determinazione della sanzione era fissata tra un minimo e un massimo graduabile sulla base di parametri oggettivi e soggettivi relativi all’illecito commesso”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 9 novembre 2022, n. 33097

sul ricorso n. 31917/2018 proposto da:

Distilleria C. C. B. C. s.r.l., nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente tra di loro, dagli Avv.ti Salvatore Marotta e Fabio Cramarossa, con domicilio eletto p.e.c. .

– ricorrente-

contro Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del PIEMONTE, n. 573/2018, depositata il 23 marzo 2018, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11 ottobre2022 da l  Consigliere Lunella Caradonna ;

RITENUTO CHE

1. Con sentenza del 23 marzo 2018, la Commissione tributaria regionale di Torino ha accolto l’appello principale (rigettando l’appello incidentale della società contribuente) proposto dall’ Agenzia delle Dogane e dei Monopoli avverso la sentenza n. 233 / 6 /1 6 della Commissione tributaria provinciale di Alessandria, che aveva ritenuto fondato il ricorso proposto dalla società contribuente, ritenendo sussistente la causa di non punibilità di forza maggiore di cui all’art. 6, comma 5, del decreto legislativo n. 472/1997, in relazione all’accertamento dell’omesso versamento dell’accisa dovuta per i prodotti alcolici immessi in consumo nel mese di ottobre 2014 per un importo di euro 65.375,07;

per i prodotti alcolici immessi in consumo nella prima metà del mese di dicembre 2014 per un importo di euro 64.132,22 e per i prodotti alcolici immessi in consumo nella seconda metà del mese di dicembre 2014 per un importo di euro 60.497,40.

2. La Commissione tributaria regionale, sulla sussistenza della forza maggiore come scriminante ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo n.472/1997, ha affermato che le oggettive difficoltà economiche dell’azienda, da cui derivava l’inadempimento degli obblighi tributari, rientravano nell’ordinario rischio di impresa e non assumevano i connotati di evento eccezionale;

che la forza maggiore poteva costituire motivo di giustificato impedimento ad assolvere l’obbligo di tempestivo pagamento dei tributi solo in caso di eventi calamitosi (riconosciuti come tali da decreti ministeriali sospensivi dei termini di pagamento o che avevano previsto la rimessione in termini per il versamento delle imposte senza applicazione di sanzioni) o fatti di terzi;

la carenza di liquidità di per sé non legittimava il ritardo nel pagamento dell’accisa, non potendosi rimettere alla discrezionalità del contribuente la scelta di adempiere agli obblighi di versamento delle imposte nei tempi ritenuti più opportuni senza incorrere in alcuna sanzione;

anche l’indirizzo giurisprudenziale prevalente era nel senso che, in materia di violazioni tributarie,la crisi di liquidità e carenza di mezzi finanziari, il dissesto o la decozione, comportanti la materiale impossibilità di versare i tributi, non erano idonei a giustificare l’inadempimento in quanto rientravano nell’ordinario rischio di impresa e non costituivano forza maggiore; la mancanza di liquidità nell’esercizio di un’attività d’impresa era evento possibile e prevedibile, riconducibile pur sempre alla condotta dell’imprenditore e imputabile alla sua capacità di valutazione dei fattori economici; neppure poteva invocarsi la forza maggiore quando il mancato pagamento dei tributi alle scadenze di legge configurava una situazione di illegittimità.

3. I giudici di secondo grado, poi, per quel che rileva in questa sede, hanno ritenuto infondato il secondo motivo dell’appello incidentale proposto dalla società contribuente, avente ad oggetto la manifesta sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferiva e la sanzione irrogata, poiché la sanzione irrogata era stabilita dall’art. 13 del decreto legislativo n. 472/1997 in misura fissa, pari al trenta per cento del tributo non versato e versato in ritardo rispetto al termine di legge; si trattava, dunque, di una sanzione applicabile in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, in misura predeterminata dal legislatore, senza spazio alcuno per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali, a differenza di quanto avveniva per le ipotesi in cui la determinazione della sanzione era fissata tra un minimo e un massimo, graduabile sulla base di parametri oggettivi e soggettivi relativi all’illecito commesso.

4. La Distilleria C. C. B. C. s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.

5. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli resiste con controricorso.

CONSIDERATO CHE

1. Il primo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 6, comma 5, del decreto legislativo n. 472/1997, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3,cod. proc. civ., in considerazione del fatto che la Commissione tributaria, con affermazione apodittica, aveva ritenuto, in contrasto con la ratio legis della norma richiamata, che la difficoltà economica non rientrava nell’ambito applicativo dell’art. 6, citata, mentre il legislatore aveva individuato, con formula elastica, il concetto di «forza maggiore», intendendo così rimettere all’interprete la valutazione, con un giudizio da affrontare in concreto e sulla base delle effettive circostanze fattuali.

1.1.Il motivo è infondato, dovendosi richiamare, sul punto, il principio statuito da questa Corte secondo cui «In tema di accise, la sussistenza di una situazione di illiquidità o di crisi aziendale non costituisce, di per sé, forza maggiore, ai fini dell’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 472 del 1997, essendo invece necessaria la sussistenza di un elemento oggettivo, costituito da circostanze anormali ed estranee all’operatore, e di un elemento soggettivo, correlato al dovere del contribuente di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, mediante l’adozione di misure appropriate, pur senza incorrere in sacrifici eccessivi» (Cass., 22 marzo 2019, n. 8175).

Questa Corte, nella sentenza richiamata, ha affermato che:

– con riguardo alla materia dell’IVA (Cass., 22 settembre 2017, n. 22153) e con affermazione estesa anche alla materia, pure comunitarizzata, delle accise (Cass., 8 febbraio 2018, n. 3049), il concetto di forza maggiore, richiamato dalla norma in esame deve interpretarsi in modo conforme a quello elaborato dalla giurisprudenza eurounitaria;

– quest’ultima ha chiarito che la nozione di forza maggiore, in materia tributaria e fiscale, comporta la sussistenza di un elemento oggettivo, relativo alle circostanze anormali ed estranee all’operatore, e di un elemento soggettivo, costituito dall’obbligo dell’interessato di premunirsi contro le conseguenze dell’evento anormale, adottando misure appropriate senza incorrere in sacrifici eccessivi (Corte di Giustizia, C/314/06, punto 24, nonché Corte di Giustizia , 18 gennaio 2005, causa C-325/03 P, Zuazaga Meabe/UAMI, punto 25);

– non rilevano, dunque, necessariamente circostanze tali da porre l’operatore nell’impossibilità assoluta di rispettare la norma tributaria bensì quelle anomale ed imprevedibili, le cui conseguenze, però, non possono essere evitate malgrado l’adozione di tutte le precauzioni del caso (Corte di Giustizia, 15 dicembre 1994, causa C- 195/91 P, Bayer/Commissione, punto 31, nonché Corte di Giustizia, 17 ottobre 2002, causa C-208/01, Parras Medina, punto 19);

– sotto il profilo naturalistico, infine, la forza maggiore si atteggia come una causa esterna che obbliga la persona a comportarsi in modo difforme da quanto voluto, di talché essa va configurata, relativamente alla sua natura giuridica, come una esimente poiché il soggetto passivo è costretto a commettere la violazione a causa di un evento imprevisto, imprevedibile ed irresistibile, non imputabile ad esso contribuente, nonostante tutte le cautele adottate.

1.2.Tanto premesso, la Commissione tributaria regionale, nel caso in esame, in relazione al procedimento di sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta di forza maggiore, ha correttamente applicato i superiori principi, affermando, peraltro con alcune autonome ragioni del decidere che non sono state censurate, che le oggettive difficoltà economiche dell’azienda, da cui derivava l’inadempimento degli obblighi tributari, non rientravano nell’ordinario rischio di impresa e non assumevano i connotati di evento eccezionale; che non sussistevano eventi calamitosi, riconosciuti come tali da decreti ministeriali sospensivi dei termini di pagamento o che avevano previsto la rimessione in termini per il versamento delle imposte senza applicazione di sanzioni, o fatti di terzi rilevanti ai fini del riconoscimento della forza maggiore; che non poteva essere rimesso alla discrezionalità del contribuente la scelta di adempiere agli obblighi di versamento delle imposte nei tempi ritenuti più opportuni senza incorrere in sanzione alcuna e che, in ogni caso, la mancanza di liquidità nell’esercizio di un’attività d’impresa era evento possibile e prevedibile, riconducibile pur sempre alla condotta dell’imprenditore e imputabile alla sua capacità di valutazione dei fattori economici, non potendosi configurare la forza maggiore in una situazione (illegittima) di mancato pagamento dei tributi alle scadenze di legge.

2. Il secondo motivo deduce la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., non avendo la sentenza impugnata preso in considerazione le ragioni della società ricorrente tese a spiegare che effettivamente (non) era venuta a sussistere la causa di forza maggiore, alle pagine 6 e 7 del ricorso di primo grado e alle pagine 7 e 8 delle controdeduzioni rese nel giudizio di secondo grado (riportate alle pagine 6 e 7 del ricorso per cassazione).

2.1.Il motivo è infondato.

2.2. In proposito, va richiamato il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili, restando, in ogni caso, esclusa la rilevanza di un’eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (Cass., 18 settembre 2009, n. 20112), mentre nel caso in esame, la motivazione è, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne il percorso logico, con riferimenti specifici e puntuali al rapporto tributario in contestazione e richiamando espressamente, a pagina 1 della sentenza impugnata, le difese svolte relativamente alla situazione di grave illiquidità in cui versava la società contribuente al tempo in cui avrebbe dovuto far fronte al pagamento delle accise per i mesi di ottobre e dicembre 2014, situazione di oggettiva impossibilità di puntuale adempimento, tale da giustificare la condotta omissiva. Non sussiste, pertanto, il dedotto vizio di nullità della sentenza per motivazione apparente.

3. Il terzo motivo deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 7 del decreto legislativo n. 472/1997, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non avendo la Commissione proceduto a valutare le circostanze che rendevano oggettiva la sproporzione, limitandosi ad affermare che detta norma non era riferibile alle sanzioni per omesso versamento in quanto queste erano applicabili in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, in misura predeterminata dal legislatore, senza spazio alcuno per valutazioni soggettive ed apprezzamenti discrezionali; l’art. 7 citato non aveva nulla a che vedere con le norme che prevedevano le sanzioni, essendo invece una norma speciale che consentiva all’Ente di scendere al di sotto dei minimi previsti dalla legge quanto ci si trovava in presenza di sproporzione tra l’entità del tributo e la sanzione.

3.1. Il motivo è fondato.

3.2. L’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 18 dicembre 1992, n. 472, recante «Criteri di determinazione della sanzione», nella versione applicabile ratione temporis, prima della modifica dall’art. 16, comma 1, lett. c), n. 2), del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (applicabile a decorrere dal 1°gennaio 2016, ex art. 32, comma 1, del medesimo decreto legislativo n. 158/2016) dispone che: «qualora concorrano eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione, questa può essere ridotta fino alla metà del minimo».

3.3.Questa Corte, in proposito, ha espresso il principio che « In tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, la disposizione contenuta nel comma quarto dell’art. 7 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – che consente di ridurre la sanzione fino alla metà del minimo, quando concorrono eccezionali circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione stessa – si applica, in mancanza di specifiche eccezioni, ad ogni genere di sanzioni, comprese quelle che la legge stabilisce in misura proporzionale o fissa, dovendosi in tal caso considerare che il minimo ed il massimo si identificano in detta misura fissa o proporzionale» (Cass., 13 dicembre 2017, n. 29998; Cass., 4 marzo 2011, n. 5209).

Inoltre, la Corte ha affermato che «Ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro questa forbice, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, di modo che la Corte di cassazione non può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati (Cass. 17 aprile 2013, n. 9255; 8 febbraio 2016, n. 2406). Ed a maggior ragione il principio vale in relazione all’apprezzamento, tipicamente di merito (in termini, vedi Cass. 4 marzo 2011, n. 5209), in ordine alla ricorrenza delle eccezionali circostanze contemplate dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 472/97» (Cass., 9 giugno 2017, n. 14406).

3.4. Ciò posto, i giudici tributari non hanno fatto corretta applicazione dei principi enunciati, avendo affermato che, poiché si trattava di una sanzione applicabile in un ammontare fisso e proporzionale al tributo, non sussisteva alcuno spazio per valutazioni soggettive e apprezzamenti discrezionali e ciò diversamente dall’ipotesi in cui la determinazione della sanzione era fissata tra un minimo e un massimo graduabile sulla base di parametri oggettivi e soggettivi relativi all’illecito commesso.

4. In conclusione, il terzo motivo va accolto e il primo e il secondo motivo vanno rigettati; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese processuali del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

 La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta il primo e il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese processuali del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, in data 11 ottobre 2022

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