Sanzioni a carico dell’amministratore se la società è un mero schermo
Tributi – IREG, IRAP e IVA – Avviso accertamento – Società cartiera – Frode carosello – Società di capitali – Amministratore di fatto – Responsabilità – Sanzioni
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1358 del 18 gennaio 2023 si è nuovamente pronunciata su un particolare tema, quello delle
responsabilità dell’amministratore di fatto, affermando che questi risponde delle maggiori imposte e delle relative sanzioni contestate alla società, se l’impresa è un semplice schermo e la persona fisica ha un diretto interesse nei redditi percepiti.
Dunque, il tema di fondo su cui si è espressa la Corte di legittimità attiene alla verifica delle obbligazioni tributarie, aventi a oggetto IRPEG, IRAP e IVA, gravanti su una società di capitali per le quali possa rispondere, oltre che la medesima società quale autonomo soggetto passivo d’imposta, anche l’amministratore della stessa. Tuttavia, resta pacifico che nelle ipotesi in cui le violazioni siano commesse da amministratori o rappresentanti legali di società con personalità giuridica, queste verranno applicate all’ente se la persona fisica ha agito nell’interesse e a beneficio della prima ma, diversamente, saranno a carico dell’autore materiale se l’ente è stato fittiziamente usato per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti.
Secondo l’interpretazione odierna offerta dagli Ermellini, l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie avviene, pertanto, secondo il principio della responsabilità personale ed è, quindi, a carico dell’autore della violazione.
Ricordiamo che la figura della “società schermo” è una costruzione artificiosa finalizzata a eludere la normativa degli Stati membri; la sua funzione, infatti, non è quella di raggiungere un risultato sostanzialmente economico ma, piuttosto, un vantaggio fiscale ottenuto tramite un raggiro della ratio della norma tributaria. Tale fenomeno elusivo trova collocazione nell’ambito delle strategie di “pianificazione fiscale aggressiva”, adottate dagli obbligati d’imposta per abbattere l’imponibile sfruttando le peculiarità esistenti tra i regimi fiscali, ed è una forma di abuso del diritto, rilevante sia ai fini civilistici, come risultato dell’esercizio di un diritto oltre il limite “funzionale” implicitamente previsto dalla singola norma, sia ai fini tributari, quale strumento asservito al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito.
Gli Ermellini hanno peraltro confermato l’attuale orientamento giurisprudenziale, che ritiene che se l’amministratore agisce nel proprio esclusivo interesse utilizzando l’ente con personalità giuridica solo come schermo per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi, non trova applicazione l’articolo 7 del Dl 269/2003 – che prevede la responsabilità della persona giuridica – ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore del reddito della società interposta, ma l’articolo 37, comma 3, del DPR 600/1973. In base al ragionamento e alle riflessioni svolte dalla Corte, il contribuente non riveste, in questo caso, la posizione di amministratore ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti (ex multis Ord. n. 12334/2019).
In sostanza, assume pertanto preciso rilievo il rapporto fiscale personale, e non quello della società, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano.
Inoltre, sulla base dei principi espressi con sentenza. n. 23231/2022, la Suprema Corte ha quindi riaffermato il seguente principio di dirito: “… in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’IVA, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a IVA, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’IVA; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto». «in tema di sanzioni tributarie, nell’interposizione del gestore uti dominus alla società di capitali interposta ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima ma quello che fa capo direttamente all’interponente in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del d.l. n. 269 Corte di Cassazione – copia non ufficiale 14 di 17 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività”.
Sul medesimo tema ricordiamo anche la posizione simile tenuta dagli Ermellini nella precedente Ordinanza, la n. 8811/2021, nella quale viene spiegato che se la società è stata illecitamente costituta nell’interesse esclusivo dell’amministratore, viene allora meno il principio generale per cui se la violazione è compiuta dalla società, le sanzioni sono irrogabili solo alla persona giuridica. In questa ipotesi la persona fisica che ha agito per conto della società è, nel contempo, trasgressore e contribuente e la società costituisce un mero schermo.
Tanto premesso e tornando alla vicenda odierna essa ha inizio quando un contribuente, ricevuto un avviso di accertamento per IREG, IRAP e IVA, ricorreva alla giustizia tributaria incassando però in entrambi i gradi il rigetto del ricorso presentato. La parte contribuente si rivolgeva allora alla Cassazione, lamentando essenzialmente che all’amministratore di fatto di una società di capitali, soggetto terzo rispetto a quest’ultima, non avrebbero potuto imputarsi direttamente l’attività e le imposte della società di capitali e, tanto meno, le sanzioni per le attività illecite ed evasive dell’ente.
La Suprema Corte ha rigettato tale affermazione ritenendo invece che “…Questa Corte ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, «qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio», verrebbe meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendo essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (Cass. n. 28332 del 7/11/2018; Cass. n. 10975 del 18/04/2019; Cass. n. 32594 del 12/12/2019; Cass. n. 25757 del 13/11/2020; Cass. n. 29038 del 20/10/2021). 2.2.2. Si è osservato, peraltro, che tale ragionamento non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius, rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario. È evidente, infatti, che se l’amministratore di fatto ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge la presunzione che pure dei proventi dell’attività egli abbia tratto esclusivo beneficio. 2.2.3. Come precisato da ultimo (v. Cass. n. 36003 del 22/11/2021) non va trascurato che «la materia delle imposte sui redditi, per effetto dell’art. 19 del d.lgs. n. 46 del 1999, è regolata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973» sicché «in via presuntiva, e secondo l’id quod plerumque accidit, può ritenersi che l’amministratore di fatto di una “cartiera” abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione addebitabile alla società e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria. Con la precisazione che in simili ipotesi è ben possibile l’assenza di evidenze contabili dell’evasione, analogamente a quanto chiarito dalla Corte a proposito dei ricavi occulti di società di capitali a ristretta base, distribuiti ai soci». […] 2.4.4. In altri termini, il possesso del reddito «per interposta persona» costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Ufficio, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo: la rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità del reddito) e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a prescindere dalla sua formale titolarità. 2.4.5. Tale percorso argomentativo e giuridico, per l’ampia latitudine della norma, non è limitato dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende – come recentemente precisato da questa Corte (Cass. n. 5276 del 17/02/2022) – anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto all’effettivo titolare. 2.4.6. Nel caso di reddito d’impresa ha rilievo, di norma, la figura dell’amministratore di fatto del soggetto imprenditoriale formalmente titolare del reddito (i.e. la società); tuttavia, tale ruolo, per assumere incidenza, deve «assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini Irap e Iva) al soggetto persona fisica interponente come se fosse stato prodotto da quest’ultimo» (così Cass. n. 5276 del 2022, cit.). 2.4.7. Ciò significa che la posizione dell’interponente non è quella di mero gestore dell’ente collettivo – condizione che, in quanto tale, sarebbe significativa ai fini reddituali solo nelle società di persone interposte e, in caso di socio, a fondamento del maggior reddito da partecipazione ai fini Irpef – ma di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto. 2.4.8. Come si è osservato, del resto, nell’ipotesi in questione, «si configura, in relazione all’interponente, una fattispecie simile a quella della holding unipersonale, ossia di chi eserciti professionalmente con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società(Cass., Sez. I, 26 febbraio 1990, n. 1439; Cass., Sez. I, 16 gennaio 1999, n. 405; Cass., Sez. I, 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., Sez. I, 13 marzo 2003, n. 3724; Cass., Sez. U., 29 novembre 2006, n. 25275; Cass., Sez. I, 6 marzo 2017, n. 5520; Cass., Sez. I, 3 giugno 2020, n. 10495)» (così, sempre la già citata Cass. n. 5276 del 2022). 2.4.9. Ne deriva che, in tale ipotesi, la prova che incombe sull’Amministrazione finanziaria ha ad oggetto il totale asservimento della società interposta all’interponente, tale, quindi, da dimostrare: a) la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto; b) che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società. 2.4.10. Non ha rilievo, invece, la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia: l’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, infatti, si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico (ex multis, Cass. n. 11055 del 27/04/2021; Cass. n. 17128 del 28/06/2018; Cass. n. 5408 del 03/03/2017). 2.4.11. A fronte di tale prova, che può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass. n. 29228 del 20/10/2021; Cass. n. 5276 del 2022, cit.). 2.5. Va sottolineato, infine, che, in caso di interposizione mediante una società, la traslazione riguarda esattamente il reddito d’impresa nel suo complesso prodotto dal contribuente interposto avuto riguardo alla pluralità di elementi che lo compongono (salva la prova, a carico dell’Ufficio, di un maggior reddito conseguito dall’interponente), che, dunque, è attribuito all’interposto quale effettivo possessore del reddito ed effettivo debitore dei tributi formalmente imputati alla società. 2.5.1. La compiuta traslazione del reddito, del resto, è coerente con il diritto al rimborso dell’interposto, ai sensi dell’art. 37, quinto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per quelle imposte che abbia pagato per redditi imputati all’interponente, condizione che legittima il riconoscimento, ove ne sussistano i presupposti formali e sostanziali, anche del diritto alla detrazione ex art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. n. 27964 del 30/12/2009). 2.6. La traslazione del reddito d’impresa dall’interposto (società) all’interponente ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo per le imposte dovute. 2.7. Quanto all’IVA, più in particolare, va sottolineata la piena convergenza su questo esito dei principi unionali.2.7.1. Nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società (la cui esistenza, come detto, non è scalfita dall’assoggettamento di fatto), infatti, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio ma per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società. 2.7.2. Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali). Orbene, l’art. 6, § 4, della direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (cd. sesta direttiva), corrispondente all’art. 3, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale. 2.7.3. Si realizza, in altri termini, la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente sull’assunto che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi –il commissionario – abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in C-274/15, Commissione c/ Lussemburgo, punto 86; nella giurisprudenza interna, v., ex multis, Cass. n. 30360 del 23/11/2018; Cass. 20591 del 29/09/2020): il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio, rispettivamente, gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante. 2.7.4. Ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’IVA, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’IVA (v. Corte di giustizia, in C-274/15, cit., punto 87). 2.7.5. Giova sottolineare, sul punto, che resta estranea e irrilevante ogni indagine sul carattere oneroso o meno del rapporto di mandato: infatti, ai fini dell’applicazione della disciplina IVA del mandato senza rappresentanza, la norma unionale non contiene alcun riferimento ad un eventuale carattere oneroso della partecipazione alla prestazione di servizi (v. Corte di giustizia, 19 dicembre 2019, in C-707/18, Amărăşti Land Investment SRL, punto 38). 2.7.6. L’irregolarità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’operazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro, ove vengano in rilievo – come nella specie – operazioni soggettivamente inesistenti, ciò refluisce sulla sua posizione, neppure essendo in dubbio la fittizietà delle operazioni e la consapevolezza delle frode. 2.8. La delineata cornice normativa entro cui si colloca la questione in esame ha immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio. 2.8.1. L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive. 2.8.2. La fattispecie è esterna al perimetro dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003: il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, «proprio di società o enti con personalità giuridica» ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio dell’interponente. 2.8.3. Il contribuente, come osservato, non riveste, in questo caso, la posizione di (mero) amministratore di fatto ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, sicché assume rilievo, anche per tale versante, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non quello della società. 2.9. Sulla base della superiore ricostruzione, Cass. n. 23231 del 2022 ha, quindi, enunciato i seguenti principi di diritto: «in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’IVA, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a IVA, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’IVA; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto». «in tema di sanzioni tributarie, nell’interposizione del gestore uti dominus alla società di capitali interposta ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima ma quello che fa capo direttamente all’interponente in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività”.
Corte di Cassazione – Sentenza 18 gennaio 2023, n. 1358
sul ricorso iscritto al n. 17336/2013 R.G. proposto da
S. E., elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli n. 43, presso lo studio dell’avv. Francesco D’Ayala Valva, che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Michele Tiengo giusta procura speciale a margine del ricorso;
-ricorrente –
contro Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 49/34/12, depositata il 21 maggio 2012.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’8 marzo 2022, tenuta nelle forme previste dall’art. 23, comma 8 bis, del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, conv. con modif. nella l. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Giacomo Maria Nonno
Vista la relazione scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Rosa Maria Dell’Erba, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
1. Con la sentenza n. 49/34/12 del 21/05/2012, la Commissione tributaria regionale della Lombardia (di seguito CTR) respingeva l’appello proposto da E. S. avverso la sentenza n. 390/21/09 della Commissione tributaria provinciale di Milano (di seguito CTP), che aveva a sua volta rigettato il ricorso proposto dal contribuente nei confronti di un avviso di accertamento per IREG, IRAP e IVA relative all’anno 2001, oltre alle conseguenti sanzioni.
1.1. Come si evince dalla sentenza della CTR, l’avviso di accertamento era stato emesso nei confronti di U. s.r.l. e notificato, tra l’altro, anche a E. S. quale autore delle violazioni contestate alla società contribuente, ritenuta una mera cartiera.
1.2. La CTR respingeva l’appello del contribuente evidenziando che:
a) il coinvolgimento di S. nella frode carosello posta in essere attraverso U. s.r.l. derivava dalla sua qualità di amministratore di fatto della società ed era documentato dalla applicazione di pena su richiesta in ordine al reato consistito nella omessa presentazione delle dichiarazioni annuali obbligatorie, nonché dalla sentenza della CTP n. 249/18/05 del 20/12/2005, relativa all’anno d’imposta 2000;
b) le somme dovute da U. s.r.l. all’Erario erano imputabili all’amministratore di fatto;
c) la determinazione del reddito d’impresa da parte dell’Ufficio era stata correttamente eseguita;
d) le sentenze prodotte dall’appellante non erano idonee ad escludere la sua personale responsabilità.
2. E. S. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
3. L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso E. S. deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento al coinvolgimento del ricorrente nelle attività di U. s.r.l., evidenziando che la CTR avrebbe tratto il proprio convincimento da una sentenza di applicazione della pena su richiesta, senza specificare i passaggi della sentenza dai quali avrebbe tratto detto convincimento e senza indicare le condotte imputabili al contribuente.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. Come si evince dalla motivazione della CTR, la circostanza che S. sia amministratore di fatto di U. s.r.l. e, conseguentemente, responsabile per le condotte attribuite a quest’ultima viene dedotto:
a) dalla sentenza della CTP n. 249/18/05, che ha respinto il ricorso del contribuente avverso altro avviso di accertamento relativo all’anno 2000;
b) dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta pronunciata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trento, emessa a seguito di un’imputazione di omessa dichiarazione annuale obbligatoria da parte di U. s.r.l., con ciò evidentemente ricollegando al contribuente la responsabilità della presentazione di detta dichiarazione.
1.3. A fronte di tali emergenze probatorie, ritenute sufficienti dal giudice di appello, spetta al contribuente indicare le ragioni per le quali sarebbe estraneo alla compagine sociale e i fatti che non sarebbero stati considerati dalla CTR ai fini dell’esclusione della qualifica di amministratore di fatto e, quindi, della responsabilità per i debiti di U. s.r.l.
1.4. Il ricorrente, invece, si è limitato a generiche contestazioni, inidonee a scalfire la decisione del giudice di merito, anche in relazione alla vecchia formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, applicabile ratione temporis.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione degli artt. 2332 e 2472 cod. civ., dell’art. 87 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi – TUIR), dell’art. 3 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, degli artt. 1 e 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 7 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. con modif. nella l. 24 novembre 2003, n. 326, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., evidenziando che all’amministratore di fatto di una società di capitali, soggetto terzo rispetto a quest’ultima, non avrebbero potuto imputarsi direttamente l’attività e le imposte della società di capitali e tanto meno le sanzioni per le attività illecite ed evasive dell’ente.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Come rilevato da una recente sentenza di questa Corte (Cass. n. 23231 del 25/07/2022), emessa nella medesima udienza e al cui contenuto integralmente ci si riporta, la problematica è stata affrontata, in particolare, con riguardo all’applicazione delle sanzioni all’amministratore di fatto.
2.2.1. Questa Corte ha precisato che l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, «qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio», verrebbe meno la ratio giustificatrice dell’applicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, dovendo essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito (Cass. n. 28332 del 7/11/2018; Cass. n. 10975 del 18/04/2019; Cass. n. 32594 del 12/12/2019; Cass. n. 25757 del 13/11/2020; Cass. n. 29038 del 20/10/2021). 2.2.2. Si è osservato, peraltro, che tale ragionamento non riguarda solo il profilo sanzionatorio in senso stretto, il quale, anzi, costituisce un aspetto ulteriore, un posterius, rispetto alla pretesa sostanziale e al debito tributario.
È evidente, infatti, che se l’amministratore di fatto ha utilizzato lo schermo sociale nel suo esclusivo interesse sorge la presunzione che pure dei proventi dell’attività egli abbia tratto esclusivo beneficio.
2.2.3. Come precisato da ultimo (v. Cass. n. 36003 del 22/11/2021) non va trascurato che «la materia delle imposte sui redditi, per effetto dell’art. 19 del d.lgs. n. 46 del 1999, è regolata dall’art. 36 del d.P.R. n. 602 del 1973» sicché «in via presuntiva, e secondo l’id quod plerumque accidit, può ritenersi che l’amministratore di fatto di una “cartiera” abbia direttamente incamerato i proventi dell’evasione addebitabile alla società e che, conseguentemente, spetti all’amministratore stesso fornire la prova contraria. Con la precisazione che in simili ipotesi è ben possibile l’assenza di evidenze contabili dell’evasione, analogamente a quanto chiarito dalla Corte a proposito dei ricavi occulti di società di capitali a ristretta base, distribuiti ai soci».
2.3. Tale approccio, pur cogliendo un dato innegabile, ossia che, in tali ipotesi, esiste un soggetto che governa uti dominus la società di capitali, il quale fa proprie le attività, i redditi e i proventi dell’ente, cui lascia la formale responsabilità e l’onere delle imposte, non assolte, non appare pienamente soddisfacente dove sembra prefigurare che la società costituisca una mera fictio , dunque priva di realtà giuridica.
2.3.1. Occorre sottolineare, sul punto, che, come affermato da questa Corte, «la simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali, iscritta nel registro delle imprese, non è configurabile in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci, ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell’agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi, donde l’irrilevanza, dopo l’iscrizione della società nel registro delle imprese e la nascita del nuovo soggetto giuridico, della reale volontà dei contraenti manifestata nella fase negoziale; tale fondamento, espressione del valore organizzativo dell’ente, è sotteso all’art. 2332 c.c., imponendosi dunque una lettura restrittiva dei casi di nullità della società da essi previsti, in nessuno dei quali è, quindi, riconducibile la simulazione» (Cass. n. 22560 del 04/11/2015; Cass. n. 20888 del 05/08/2019; Cass. n. 29700 del 14/11/2019, che precisa «tale nuovo autonomo soggetto giuridico, una volta iscritto nel registro delle imprese, agisce coinvolgendo terzi a prescindere dalla volontà effettiva, vive di vita propria ed opera compiendo la propria attività per realizzare lo scopo sociale, a prescindere dall’intento preordinato dei suoi fondatori»).
2.3.2. Ferma, dunque, l’effettività della società di capitali –al di là del proposito dei soci e ideatori di realizzare con essa un mero schermo rispetto ad eventuali attività illecite –, va esaminato se, e a quali condizioni e limiti, in una situazione come quella in considerazione, l’Amministrazione finanziaria possa imputare ad un diverso soggetto i redditi maturati dall’ente e le relative imposte.
2.4. Il meccanismo che, nel nostro ordinamento, mira a riallineare l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi è quello previsto dall’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 che dispone: «In sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona».
2.4.1. La norma prevede che l’Ufficio possa utilizzare elementi indiziari, dotati di pregnanza presuntiva, al fine di accertare il fatto costitutivo dell’imposizione tributaria rappresentato dal possesso effettivo di un reddito «per interposta persona».
2.4.2. Giova sottolineare che, come costantemente ribadito dalla Corte, ai fini del soddisfacimento dell’onere probatorio dell’Ufficio, non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile secondo un criterio di normalità, con riferimento a una connessione probabile di accadimenti in base a regole di esperienza (Cass. n. 13807 del 22/05/2019; Cass. n. 4168 del 21/02/2018; Cass. n. 17833 del 19/07/2017; Cass. n. 25129del 7/12/2016; già Cass. S.U. n. 9961 del 13/11/1996).
2.4.3. L’oggetto della prova incombente sull’Amministrazione finanziaria, peraltro, non attiene agli elementi costitutivi dell’interposizione ma solo – come precisa la norma – che «egli [il soggetto terzo] ne è l’effettivo possessore per interposta persona»: la funzione della norma, dunque, è quella di evitare che il contribuente (effettivo possessore) si sottragga al prelievo occultando all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito.
2.4.4. In altri termini, il possesso del reddito «per interposta persona» costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Ufficio, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo: la rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità del reddito) e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a prescindere dalla sua formale titolarità.
2.4.5. Tale percorso argomentativo e giuridico, per l’ampia latitudine della norma, non è limitato dalla tipologia di reddito oggetto di accertamento e, dunque, si estende – come recentemente precisato da questa Corte (Cass. n. 5276 del 17/02/2022) – anche al reddito d’impresa e all’ipotesi in cui l’interposto sia una società di capitali, salva la necessaria specifica verifica della relazione di fatto tra contribuente e reddito per operare la traslazione del reddito d’impresa prodotto all’effettivo titolare.
2.4.6. Nel caso di reddito d’impresa ha rilievo, di norma, la figura dell’amministratore di fatto del soggetto imprenditoriale formalmente titolare del reddito (i.e. la società); tuttavia, tale ruolo, per assumere incidenza, deve «assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini Irap e Iva) al soggetto persona fisica interponente come se fosse stato prodotto da quest’ultimo» (così Cass. n. 5276 del 2022, cit.).
2.4.7. Ciò significa che la posizione dell’interponente non è quella di mero gestore dell’ente collettivo – condizione che, in quanto tale, sarebbe significativa ai fini reddituali solo nelle società di persone interposte e, in caso di socio, a fondamento del maggior reddito da partecipazione ai fini Irpef – ma di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto.
2.4.8. Come si è osservato, del resto, nell’ipotesi in questione, «si configura, in relazione all’interponente, una fattispecie simile a quella della holding unipersonale, ossia di chi eserciti professionalmente con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società(Cass., Sez. I, 26 febbraio 1990, n. 1439; Cass., Sez. I, 16 gennaio 1999, n. 405; Cass., Sez. I, 9 agosto 2002, n. 12113; Cass., Sez. I, 13 marzo 2003, n. 3724; Cass., Sez. U., 29 novembre 2006, n. 25275; Cass., Sez. I, 6 marzo 2017, n. 5520; Cass., Sez. I, 3 giugno 2020, n. 10495)» (così, sempre la già citata Cass. n. 5276 del 2022).
2.4.9. Ne deriva che, in tale ipotesi, la prova che incombe sull’Amministrazione finanziaria ha ad oggetto il totale asservimento della società interposta all’interponente, tale, quindi, da dimostrare:
a) la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto;
b) che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società.
2.4.10. Non ha rilievo, invece, la dimostrazione che l’interposizione sia reale o fittizia: l’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, infatti, si riferisce a qualsiasi ipotesi di interposizione, anche a quella reale, ed anche ad un uso improprio di un legittimo strumento giuridico (ex multis, Cass. n. 11055 del 27/04/2021; Cass. n. 17128 del 28/06/2018; Cass. n. 5408 del 03/03/2017).
2.4.11. A fronte di tale prova, che può essere fornita anche solo in via presuntiva, incomberà poi al contribuente fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto (Cass. n. 29228 del 20/10/2021; Cass. n. 5276 del 2022, cit.).
2.5. Va sottolineato, infine, che, in caso di interposizione mediante una società, la traslazione riguarda esattamente il reddito d’impresa nel suo complesso prodotto dal contribuente interposto avuto riguardo alla pluralità di elementi che lo compongono (salva la prova, a carico dell’Ufficio, di un maggior reddito conseguito dall’interponente), che, dunque, è attribuito all’interposto quale effettivo possessore del reddito ed effettivo debitore dei tributi formalmente imputati alla società.
2.5.1. La compiuta traslazione del reddito, del resto, è coerente con il diritto al rimborso dell’interposto, ai sensi dell’art. 37, quinto comma, d.P.R. n. 600 del 1973, per quelle imposte che abbia pagato per redditi imputati all’interponente, condizione che legittima il riconoscimento, ove ne sussistano i presupposti formali e sostanziali, anche del diritto alla detrazione ex art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass. n. 27964 del 30/12/2009).
2.6. La traslazione del reddito d’impresa dall’interposto (società) all’interponente ai sensi dell’art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 è idonea ad assicurare la ripresa a tassazione nei confronti di quest’ultimo per le imposte dovute.
2.7. Quanto all’IVA, più in particolare, va sottolineata la piena convergenza su questo esito dei principi unionali.
2.7.1. Nell’esecuzione delle prestazioni di servizi tra il soggetto gestore uti dominus e la società (la cui esistenza, come detto, non è scalfita dall’assoggettamento di fatto), infatti, si instaura, quando il primo agisca in nome proprio ma per conto della seconda, un rapporto riconducibile al mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore e il mandante è la società.
2.7.2. Ciò si verifica, in particolare, quando l’imprenditore, che gestisca delle società cartiere, disponga in autonomia in merito alle attività e alle transazioni e decida, per conto della società, sulla realizzazione delle operazioni commerciali, individuando, ad esempio, i venditori (esteri) e i successivi acquirenti (nazionali).
Orbene, l’art. 6, § 4, della direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (cd. sesta direttiva), corrispondente all’art. 3, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, stabilisce che, qualora un soggetto passivo partecipi, in nome proprio ma per conto terzi, ad una prestazione di servizi, si deve ritenere che egli stesso abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale.
2.7.3. Si realizza, in altri termini, la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente sull’assunto che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi –il commissionario – abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, gli stessi servizi all’operatore per conto del quale agisce (v., tra le varie, Corte di giustizia, 4 maggio 2017, in C-274/15, Commissione c/ Lussemburgo, punto 86; nella giurisprudenza interna, v., ex multis, Cass. n. 30360 del 23/11/2018; Cass. 20591 del 29/09/2020): il mandatario, quindi, assume e acquista in nome proprio, rispettivamente, gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto del mandante.
2.7.4. Ne deriva che se la prestazione di servizi a cui l’operatore partecipa è soggetta all’IVA, pure il rapporto giuridico tra costui e la parte per conto della quale agisce è soggetto all’IVA (v. Corte di giustizia, in C-274/15, cit., punto 87).
2.7.5. Giova sottolineare, sul punto, che resta estranea e irrilevante ogni indagine sul carattere oneroso o meno del rapporto di mandato: infatti, ai fini dell’applicazione della disciplina IVA del mandato senza rappresentanza, la norma unionale non contiene alcun riferimento ad un eventuale carattere oneroso della partecipazione alla prestazione di servizi (v. Corte di giustizia, 19 dicembre 2019, in C-707/18, Amărăşti Land Investment SRL, punto 38).
2.7.6. L’irregolarità delle operazioni riferite al mandante, infine, se, da un lato, non esime il mandatario senza rappresentanza dall’obbligo di provvedere alla fatturazione posto che quale soggetto passivo, nel rapporto con il mandante, è tenuto al vaglio critico dell’operazione (e di verificare, quindi, il regime fiscale e di fatturazione), dall’altro, ove vengano in rilievo – come nella specie – operazioni soggettivamente inesistenti, ciò refluisce sulla sua posizione, neppure essendo in dubbio la fittizietà delle operazioni e la consapevolezza delle frode.
2.8. La delineata cornice normativa entro cui si colloca la questione in esame ha immediate conseguenze anche sul piano sanzionatorio.
2.8.1. L’irrogazione delle sanzioni, difatti, trova il suo diretto riferimento nella condotta dell’interponente, il quale è sanzionato in proprio, in relazione all’avvenuta traslazione del reddito e dei relativi tributi dell’ente collettivo, con conseguente imputazione anche delle condotte evasive.
2.8.2. La fattispecie è esterna al perimetro dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003: il rapporto fiscale che viene in considerazione non è quello, previsto dalla citata norma, «proprio di società o enti con personalità giuridica» ma, in conseguenza della traslazione del reddito all’effettivo possessore ex art. 37, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1970, quello specifico e proprio dell’interponente.
2.8.3. Il contribuente, come osservato, non riveste, in questo caso, la posizione di (mero) amministratore di fatto ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti, sicché assume rilievo, anche per tale versante, il suo rapporto fiscale, con le correlate sanzioni per gli inadempimenti e le violazioni che lo caratterizzano, e non quello della società.
2.9. Sulla base della superiore ricostruzione, Cass. n. 23231 del 2022 ha, quindi, enunciato i seguenti principi di diritto: «in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’IVA, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta; inoltre, in tale ipotesi, tra i due soggetti si instaura un rapporto di mandato senza rappresentanza, dove il mandatario è il gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette a IVA, pure il rapporto giuridico tra il mandatario e la società interposta è soggetto all’IVA; a tali fini incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto». «in tema di sanzioni tributarie, nell’interposizione del gestore uti dominus alla società di capitali interposta ai sensi dell’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima ma quello che fa capo direttamente all’interponente in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività».
2.10. Le doglianze del ricorrente vanno, pertanto, esaminate alla luce dei superiori principi di diritto.
2.11. Come già precedentemente riferito, la CTR ha correttamente ritenuto l’imputabilità – unitamente ad altri soggetti -ad E. S. degli omessi versamenti delle imposte da parte di U. s.r.l. in ragione delle emergenze derivanti: dalla sentenza della CTP n. 249/18/05, che ha respinto il ricorso del contribuente avverso altro avviso di accertamento relativo all’anno 2000; dalla sentenza di applicazione della pena su richiesta pronunciata dal giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trento, emessa a seguito di un’imputazione del ricorrente, quale amministratore di fatto, per omessa dichiarazione annuale obbligatoria da parte di U. s.r.l. 2.11.1. Dai predetti documenti è emerso che E. S. abbia utilizzato U. s.r.l. uti dominus (sia pure in concorso con altri soggetti), al fine di porre in essere una frode consistita nell’acquisto di autovetture in Germania e nella rivendita delle stesse, omettendo il versamento dell’IVA e beneficiando direttamente dei proventi di tale attività illecita. In altri termini, U. s.r.l., irregolarmente costituita, è stato lo strumento attraverso il quale si è esplicata l’attività criminosa facente capo a E. S. e ad altri soggetti, i quali direttamente rispondono delle imposte non versate dalla società (e, quindi, come tali sono stati legittimamente destinatari della notifica dell’avviso di accertamento notificato alla società).
2.11.2. A fronte di tale ricostruzione dell’attività del ricorrente (che implica un accertamento in fatto da parte del giudice di appello, incontestabile in sede di legittimità con la proposizione di un vizio di violazione di legge), neppure si pone una questione di applicabilità dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 (con conseguente assorbimento di tutti i rilievi esposti dal ricorrente anche con la memoria ex art. 378 cod. proc. civ.): le sanzioni, difatti, correttamente sono state irrogate al ricorrente in relazione al rapporto fiscale a lui strettamente riferibile in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa. 3. Con il terzo motivo di ricorso si contesta la violazione degli artt. 112 e 116, secondo comma, cod. proc. civ. e dell’art. 23 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la CTR erroneamente ritenuto la carenza di legittimazione di E. S. all’impugnazione dell’avviso di accertamento.
3.1. Il motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata. 3.2. La CTR, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ha ritenuto che i debiti di U. s.r.l. siano direttamente imputabili agli amministratori di fatto e, quindi, anche all’odierno ricorrente e ha, conseguentemente, ritenuto S. legittimato ad impugnare l’avviso di accertamento rivolto nei suoi confronti, esaminando le contestazioni proposte anche nel merito.
4. Con il quarto motivo di ricorso E. S. deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., motivazione insufficiente e contraddittoria con riferimento:
a) alla quantificazione dei ricavi accertati in capo a U. s.r.l. a fini IRPEG e IRAP per euro 1.048.711,00;
b) alla quantificazione del vantaggio reddituale a fini IRPEG e IRAP e conseguente al mancato versamento dell’IVA, pari ad euro 2.707.935,00. Si contesta, altresì, con riferimento alla ripresa sub a), l’omesso esame delle doglianze dell’appellante, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. 4.1. Sotto il profilo del difetto di motivazione il motivo è inammissibile.
4.2. La CTR ha ritenuto corretta la quantificazione dei ricavi così come determinata in sede di avviso di accertamento e, a fronte di tale accertamento (che ha comportato il recupero a tassazione della sottofatturazione delle vendite e dei vantaggi conseguenti al mancato versamento dell’IVA), per nulla illogico o contraddittorio, il ricorrente fornisce una propria diversa ed alternativa valutazione dei fatti, con conseguente inammissibilità della censura.
4.3. Sotto il profilo della omessa pronuncia il motivo è, invece, infondato, avendo il giudice di appello chiaramente preso in considerazione la ripresa di euro 1.048.711,00.
5. In conclusione, il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo, avuto conto di un valore della lite dichiarato di euro 16.501.503,00.
5.1. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto –ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in euro 25.000,00, oltre alle spese di prenotazione a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma l’8 marzo 2022