Ritenute omesse: minimo della pena per l’imprenditore che ha creato e mantenuto posti di lavoro
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3658 del 25 gennaio 2018, pur ribadendo che la crisi di liquidità aziendale non è una scriminante per il reato di omesso versamento delle ritenute, ha precisato come per la quantificazione della relativa pena devono essere tenuti presenti tutti gli elementi che caratterizzano di volta in volta la fattispecie concreta.
Uno di questi è certamente costituito dal fatto che l’imprenditore imputato abbia creato e mantenuto il più possibile molti posti di lavoro.
Nello specifico un imprenditore, in quanto legale rappresentante di una S.r.l., si rendeva responsabile del mancato versamento delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti d’imposta per il 2009.
L’imputato veniva condannato in primo grado e la sentenza era confermata nel giudizio di appello.
Si ricorda che l’art. 10-bis del D.lgs. 74/2000 punisce chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione di dichiarazione annuale di sostituto d’imposta (in genere 30/09), ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituti, per importi superiori a 50.000 euro per ciascun periodo di imposta.
Il legislatore, con la norma in questione, ha ritenuto di tutelare i tributi dovuti all’erario e trattenuti dal contribuente che, fin dall’origine, avevano un preciso vincolo di destinazione.
Il reato si consuma con il mancato versamento delle ritenute complessivamente risultanti dalla certificazione entro la scadenza del termine finale per la presentazione della dichiarazione annuale.
Il delitto è strutturato, dunque, come reato omissivo proprio istantaneo, posto che si consuma in conseguenza del mancato compimento dell’azione dovuta entro il termine fissato.
Per l’integrazione del reato, sotto il profilo soggettivo, risulta sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza dell’omesso versamento nel termine stabilito dalla norma.
Proprio in relazione all’elemento soggettivo del reato è molto dibattuta ultimamente la questione se la crisi economica dell’impresa sia idonea a scriminare il reato, poiché, per l’appunto, vi sarebbe una causa di forza maggiore idonea a escludere il dolo.
Ricordiamo che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31930, depositata il 22 luglio 2015, aveva peraltro accolto il ricorso dell’imprenditore cui era stato contestato il reato di omesso versamento delle ritenute certificate, previsto e punito dal citato art. 10-bis del D.lgs. 74/2000, rinviando ad altra sezione della Corte di Appello.
I Supremi Giudici allora intervenuti ricordavano che era ormai consolidato l’orientamento di legittimità per cui, nel reato di omesso versamento, l’imputato può invocare l’assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui della crisi economica che ha investito l’azienda, sia l’impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite misure idonee da valutarsi in concreto: occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare le somme necessarie ad assolvere il debito fiscale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.
La sentenza citata confermava l’indirizzo per cui la crisi di per sé non è idonea ad escludere il reato di omesso versamento ma lo diventa se viene provato, con precisi oneri di allegazione, l’effettivo stato di difficoltà economica.
I giudici del merito, quindi, devono prendere in considerazione tutti gli elementi offerti dall’imputato per provare l’esclusione del dolo di omesso versamento.
Tornando al caso in esame, la Suprema Corte di Cassazione, nel confermare la condanna del legale rappresentante della società per il reato di omesso versamento delle ritenute ha chiarito che: “ … del reato in oggetto la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo relativo, ogniqualvolta il sostituto d’imposta effettua le erogazioni degli emolumenti ai dipendenti, deriva a carico dello stesso l’obbligo di accantonare le somme dovute organizzando le risorse disponibili in modo da potere adempiere all’obbligazione tributaria; in altri termini, secondo un indirizzo da tempo seguito, lo stato d’insolvenza non libera il sostituto d’imposta, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute così come adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte. Ed invero, anche il sopravvenuto fallimento dell’agente non è sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute, essendo obbligo del sostituto d’imposta quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (tra le altre, Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, dep. 13/05/2014, Assirelli, Rv. 259741; Sez. 3, n. 11694 del 18/06/1999, dep. 13/10/1999, Tiriticco, Rv. 215518; Sez. 3, n. 11459 del 19/09/1995, dep. 28/11/1995, Rossi, Rv. 203018). Di qui, dunque secondo la lettura successivamente offerta anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n. 37425 del 28/03/2013, dep. 12/09/2013, Favellato, Rv. 255760), poi seguita e sviluppata dalle sezioni semplici, la non invocabilità, al fine di escludere la colpevolezza del soggetto agente, della crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta ovvero, in altre parole, ove non si dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (tra le altre, Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055).E, in particolare con riferimento ai crediti verso terzi che non si sia riusciti ad esigere, si è sottolineato che il mancato pagamento di debiti rientra nel normale rischio d’impresa (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, dep. 15/05/2014, P.G. in proc. Zanchi, Rv. 259190). Ciò posto, nella specie, il ricorso, richiamando gli esiti di prove testimoniali assunte nel giudizio di primo grado, si è limitato fondamentalmente a porre in evidenza, quale elemento idoneo a dimostrare, nel contesto della grave crisi economica generale, una gravissima crisi di liquidità idonea a giustificare il mancato versamento delle ritenute, la circostanza che la società del ricorrente fosse poi risultata, successivamente al fallimento, creditrice di una somma di quattro milioni di euro senza tuttavia, da un lato, come correttamente posto già in evidenza dalla sentenza impugnata, circostanziare meglio temporalmente la insorgenza e lo sviluppo della situazione e dall’altro evidenziare la ragione della solo affermata imprevedibilità di una tale situazione. 2 – E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso. A fronte del motivo di appello con cui l’imputato instava per la riduzione della pena in misura coincidente con il minimo edittale invocando lo stato di incensuratezza, l’età superiore ai settanta anni e l’intervenuta creazione, quale imprenditore, di numerosi posti di lavoro, la sentenza, limitandosi ad affermare essere la pena già stata irrogata in misura prossima ai minimi edittali (fatto, questo, del tutto evidente tanto da essere appunto logico presupposto della richiesta difensiva di ulteriore diminuzione della pena) ed essere già state concesse le circostanze attenuanti generiche nonché riconosciuti i benefici di legge, ha omesso ogni risposta sul punto incorrendo così nel difetto di motivazione denunciato.”
CORTE DI CASSAZIONE Sentenza 25 gennaio 2018, n. 3658
sul ricorso proposto da: SQUICCIARINI ONOFRIO nato il 21/05/1945 a MILANO avverso la sentenza del 19/01/2017 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GASTONE ANDREAZZA
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCO SALZANO che ha concluso per il rigetto
Ritenuto in fatto
- S.O. ha proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano in data 19/01/2017 di conferma della sentenza del Tribunale di Milano in data 03/04/2014 di condanna per il reato di cui all’art. 10 bis del D. Lgs n. 74 del 2000 perché, quale legale rappresentante della società K. s.r.l., non versava, entro il termine del 20/08/2010 previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta, ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per l’anno 2009 per l’ammontare di euro 401.740,00.
- Con un primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 10 bis del D. Lgs. n. 74 del 2000 nonché totale mancanza di motivazione della sentenza, limitatasi ad un generico richiamo alla sentenza di primo grado, quanto alla censura svolta con l’atto di appello in punto di sussistenza dell’elemento soggettivo del reato inteso quale rimproverabilità del fatto all’imputato. Dopo avere premesso le linee di interpretazione della giurisprudenza in ordine alla rilevanza o meno della “crisi di liquidità”, deduce che, pur non essendo normativamente prevista in modo espresso, va inclusa tra le cause di esclusione della colpevolezza, anche al fine di rispettare il principio di personalità del diritto penale ex art. 27 Cost. nonché di assicurare la funzione rieducativa della pena, la non rimproverabilità del fatto all’imputato intesa quale inesigibilità di una condotta diversa, in relazione alle circostanze specifiche della vicenda. Nel caso di specie tale inesigibilità andrebbe tra l’altro dedotta, come emerso dalle deposizioni testimoniali dei professionisti B., curatore fallimentare, e D.F., redattore della domanda di concordato preventivo, dalla presentazione, da parte dell’imputato, non appena insorta la crisi aziendale, di un’istanza di concordato che prevedeva il pagamento, integrale dei debiti all’Erario nonché la cessione di un ramo d’azienda, già affittato dalla T.C., e la vendita dei suoi beni, dal riconoscimento, nell’ambito della procedura fallimentare, di numerosi crediti a favore della K. per una somma di ben 4 milioni di euro, imprevedibilmente non potuti incassare, e dalla intervenuta prestazione da parte dello stesso imputato di garanzie e risorse personali. Si che, in definitiva, la società si era trovata in un imprevedibile ed incolpevole stato di crisi di liquidità da un anno all’altro per una serie concomitante di fattori cui l’imputato aveva reagito tempestivamente senza esito favorevole.
- Con un secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 133 cod. pen. nonché mancanza di motivazione in punto di quantificazione della pena, commisurata partendo da una pena base superiore al minimo edittale e senza considerare l’età avanzata dell’imputato nonché il merito dell’aver creato e mantenuto numerosi posti di lavoro con la sua attività imprenditoriale che avrebbero imposto una pena coincidente con il minimo edittale tout court.
- Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va ricordato come questa Corte abbia in più occasioni affermato che, sufficiente per l’integrazione del reato in oggetto la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo relativo, ogniqualvolta il sostituto d’imposta effettua le erogazioni degli emolumenti ai dipendenti, deriva a carico dello stesso l’obbligo di accantonare le somme dovute organizzando le risorse disponibili in modo da potere adempiere all’obbligazione tributaria; in altri termini, secondo un indirizzo da tempo seguito, lo stato d’insolvenza non libera il sostituto d’imposta, dovendo questi adempiere al proprio obbligo di corrispondere le ritenute così come adempie a quello di pagare le retribuzioni di cui le ritenute stesse sono parte. Ed invero, anche il sopravvenuto fallimento dell’agente non è sufficiente a scriminare il precedente omesso versamento delle ritenute, essendo obbligo del sostituto d’imposta quello di ripartire le risorse esistenti all’atto della corresponsione delle retribuzioni in modo da poter adempiere al proprio obbligo tributario, anche se ciò comporta l’impossibilità di pagare i compensi nel loro intero ammontare (tra le altre, Sez. 3, n. 19574 del 21/11/2013, dep. 13/05/2014, Assirelli, Rv. 259741; Sez. 3, n. 11694 del 18/06/1999, dep. 13/10/1999, Tiriticco, Rv. 215518; Sez. 3, n. 11459 del 19/09/1995, dep. 28/11/1995, Rossi, Rv. 203018). Di qui, dunque secondo la lettura successivamente offerta anche dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U., n. 37425 del 28/03/2013, dep. 12/09/2013, Favellato, Rv. 255760), poi seguita e sviluppata dalle sezioni semplici, la non invocabilità, al fine di escludere la colpevolezza del soggetto agente, della crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alla esigenza predetta ovvero, in altre parole, ove non si dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (tra le altre, Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055).
E, in particolare con riferimento ai crediti verso terzi che non si sia riusciti ad esigere, si è sottolineato che il mancato pagamento di debiti rientra nel normale rischio d’impresa (Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, dep. 15/05/2014, P.G. in proc. Zanchi, Rv. 259190).
Ciò posto, nella specie, il ricorso, richiamando gli esiti di prove testimoniali assunte nel giudizio di primo grado, si è limitato fondamentalmente a porre in evidenza, quale elemento idoneo a dimostrare, nel contesto della grave crisi economica generale, una gravissima crisi di liquidità idonea a giustificare il mancato versamento delle ritenute, la circostanza che la società del ricorrente fosse poi risultata, successivamente al fallimento, creditrice di una somma di quattro milioni di euro senza tuttavia, da un lato, come correttamente posto già in evidenza dalla sentenza impugnata, circostanziare meglio temporalmente la insorgenza e lo sviluppo della situazione e dall’altro evidenziare la ragione della solo affermata imprevedibilità di una tale situazione.
- E’ invece fondato il secondo motivo di ricorso.
A fronte del motivo di appello con cui l’imputato instava per la riduzione della pena in misura coincidente con il minimo edittale invocando lo stato di incensuratezza, l’età superiore ai settanta anni e l’intervenuta creazione, quale imprenditore, di numerosi posti di lavoro, la sentenza, limitandosi ad affermare essere la pena già stata irrogata in misura prossima ai minimi edittali (fatto, questo, del tutto evidente tanto da essere appunto logico presupposto della richiesta difensiva di ulteriore diminuzione della pena) ed essere già state concesse le circostanze attenuanti generiche nonché riconosciuti i benefici di legge, ha omesso ogni risposta sul punto incorrendo così nel difetto di motivazione denunciato.
- Consegue a quanto sopra l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano limitatamente al trattamento sanzionatorio con rigetto nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Rigetta nel resto il ricorso.