CASSAZIONE FISCALITA

Rinuncia del socio al finanziamento: non genera ripresa reddituale, ha solo evidenza patrimoniale

Tributi – IRAP e IVA – Accertamento – Imposte sui redditi – Riduzioni di debito verso soci finanziatori – Rinuncia del socio al finanziamento – Sopravvenienza attiva tassabile – Art. 88 TUIR – Esclusione

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 20052 del 24 settembre 2020, intervenendo sull’aspetto fiscale generato dalla  rinuncia al finanziamento da parte di un socio, ha stabilito che tale rinuncia non può essere considerata come una sopravvenienza attiva per la società, ai sensi dell’art. 88 TUIR, che così recita all’art.1: “… Si considerano sopravvenienze attive i ricavi o altri proventi conseguiti a fronte di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi e i ricavi o altri proventi conseguiti per ammontare superiore a quello che ha concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, nonché la sopravvenuta insussistenza di spese, perdite od oneri dedotti o di passività iscritte in bilancio in precedenti esercizi”. L’apporto, continuano gli Ermellini, corrisponde al venir meno per la società dell’obbligo di restituzione del prestito, senza alcuna ricaduta a livello reddituale, risultando solo come una mera evidenza patrimoniale.

Tuttavia, occorre prestare molta attenzione alla natura del credito oggetto di rinuncia, in quanto possono sorgere significative insidie fiscali; anche  l’Agenzia delle entrate, peraltro, ha avuto modo di precisare che la rinuncia, che determina evidentemente la cancellazione di un debito nel passivo dello stato patrimoniale, è irrilevante sotto il profilo reddituale rendendo la sopravvenienza attiva, di norma, non tassabile, sempre che la rinuncia del socio trovi giustificazione nella sua volontà di patrimonializzare la società partecipata, perché quando la rinuncia trovi causa invece nell’animus donandi il relativo importo diventa una sopravvenienza attiva rilevante ai fini fiscali.

La neutralità fiscale della rinuncia è però in ogni caso subordinata al rispetto delle condizioni dettate dal comma 4-bis dell’art. 88 del TUIR, secondo cui la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva tassabile per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Letteralmente il comma 4-bis, aggiornato al 30 giugno 2020, così recita: “… La rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva per la parte che eccede il relativo valore fiscale. A tal fine, il socio, con dichiarazione sostitutiva di atto notorio, comunica alla partecipata tale valore; in assenza di tale comunicazione, il valore fiscale del credito è assunto pari a zero. Nei casi di operazioni di conversione del credito in partecipazioni si applicano le disposizioni dei periodi precedenti e il valore fiscale delle medesime partecipazioni viene assunto in un importo pari al valore fiscale del credito oggetto di conversione, al netto delle perdite sui crediti eventualmente deducibili per il creditore per effetto della conversione stessa”.

In base al nuovo comma 4-bis è stata disposta la rilevanza reddituale, a titolo di sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata, della rinuncia al credito del socio per la parte eccedente il valore fiscale dello stesso: di conseguenza sono stati modificati anche gli artt. 94, comma 6, e 101, comma 7, del TUIR, dove è stato previsto che l’ammontare della rinuncia si aggiunge, nei limiti del valore fiscale del credito, al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione e non è ammesso in deduzione.

Ai sensi del comma 4-bis del citato articolo 88, la rinuncia del socio al credito verso la società è tassata in capo alla stessa solo per l’eccedenza rispetto al relativo valore fiscale. Il valore fiscale del credito rinunciato deve essere comunicato dal socio alla società con dichiarazione sostitutiva di atto notorio; in assenza di tale comunicazione il valore fiscale del credito si deve assumere pari a zero, con conseguente integrale tassazione in capo alla società del debito cancellato. Tuttavia, l’adempimento comunicativo non è necessario quando il socio è una persona fisica: in questo caso la sua rinuncia è sempre detassata in capo alla società.

A sostengo dell’irrilevanza fiscale del componente positivo molta dottrina ritiene che l’iscrizione originaria del debito verso il socio non ha comportato la deduzione di alcun costo, pertanto la detassazione della sopravvenienza attiva non determinerebbe alcun saldo d’imposta.

I finanziamenti dei soci, quindi, non rientrano neppure tra le riserve del patrimonio netto; tuttavia, quando il socio finanziatore rinuncia − mediante un atto da qualificarsi quale remissione del debito ex art. 1236 c.c. − alla restituzione del finanziamento erogato alla società, tale finanziamento è considerato “versamento a fondo perduto”.

In questo caso il credito del socio passa dalla voce del bilancio sociale “Debito verso soci per finanziamenti” alla voce “Altre riserve” del patrimonio netto, contribuendo ad assorbire le eventuali perdite di bilancio. La remissione, infatti, determina l’acquisizione definitiva al patrimonio sociale di quanto finanziato e consente il trasferimento di nuove risorse in favore della società, cioè alla collettività dei soci, indipendentemente dal fatto che il finanziamento stesso fosse stato originariamente disposto solo da alcuni dei soci.

La Corte di Cassazione e la giurisprudenza di merito hanno affrontato la questione in alcune sentenze concernenti la normativa antecedente alla riforma del 2015.

Sembra comunque doveroso citare che nella sentenza della Cassazione n. 26842/2014, per esempio, è stato affermato, in ordine al caso della rinuncia ai compensi per royalties da parte del socio di maggioranza, che la stessa “ne presuppone logicamente il conseguimento con ineludibile soggezione al proprio regime fiscale”: ciò in quanto tale rinuncia costituisce “una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e può comportare anche l’aumento del valore delle sue quote sociali”. Ne deriva che “la rinuncia presuppone, in tali casi, il conseguimento del credito il cui importo, anche se non materialmente incassato, viene, comunque, utilizzato”.

Pertanto, ne consegue la tassabilità in capo al socio rinunciatario del credito, anche se non materialmente incassato ma conseguito ed utilizzato, tramite la rinuncia, in favore della società e, quindi, la obbligatorietà in capo a quest’ultima di operare la ritenuta ex art. 25 d.p.r. n. 600/73, a ciò non ostando ma, anzi, imponendo il tenore testuale della norma che individua i destinatari dell’obbligo nei ”soggetti indicati nel primo comma dell’art. 23 che corrispondono a soggetti residenti nel territorio dello Stato compensi comunque denominati, anche sotto forma di partecipazione agli utili”.

Anche nella sentenza n. 1335/2016 i giudici hanno riconosciuto la valenza della teoria dell’incasso giuridico sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, richiamando la sentenza appena citata ed affermando che “in tema di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 55 (oggi art. 88), quarto comma, del [TUIR], che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci nei confronti della società, dovendo essere letto in correlazione con i successivi artt. 61, quinto comma (oggi 94, sesto comma) e 66, quinto comma (oggi 101, settimo comma), non vale ad alterare il regime fiscale del credito che costituisce oggetto di rinuncia, per cui, ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali, sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguiti ed utilizzati, sussiste l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi dell’art. 25 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta”.

In tutte le sentenze menzionate si afferma esplicitamente che la teoria in esame è stata introdotta dall’Amministrazione finanziaria. Il riferimento è, in particolare, alla circolare n. 73/E/1994, nella quale si asserisce che “la rinuncia ai crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali, ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori e gli interessi relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso giuridico del credito e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare, anche mediante applicazione della ritenuta d’imposta”.

L’Amministrazione non ha però esplicitato le ragioni che l’hanno indotta a pervenire a questa conclusione. Ciò che maggiormente sorprende è che essa non ha mutato parere nemmeno a seguito della novella del 2015, per la quale, come detto, la parte eccedente il valore fiscale del credito è da contabilizzare quale sopravvenienza attiva in capo alla società.

Nella Risoluzione n. 124/E del 2017, infatti, trattando della rinuncia al TFM da parte dei soci amministratori, avvenuta nel corso del 2016, l’Agenzia ha ribadito la valenza della teoria dell’incasso giuridico, richiamando in particolare la posizione espressa dalla Suprema Corte nelle sentenze nn. 26842/2014 e 1335/2016, in precedenza riportate, le quali, come detto, si rifacevano, a loro volta, alla circolare n. 73/E/1994.

In dottrina, invece, si è condivisibilmente sostenuto che il valore fiscale di un credito rappresentativo di un reddito assoggettato a imposizione ‘per cassa’ è pari a zero (perché determinabile al momento in cui assume rilevanza) e di conseguenza non incrementa il costo fiscale della partecipazione. Ne consegue che la rinuncia a tale credito comporterebbe la piena tassazione del corrispondente importo del debito in capo alla società e quindi l’interpretazione dell’Agenzia (con la quale si afferma la tassazione in capo al socio) non sarebbe sostenibile.

In altri termini, quanto assunto dall’Amministrazione risulterebbe contra legem, poiché gli effetti della rinuncia, a seguito della riforma normativa in esame, sono stati normativamente ricondotti in capo alla società e la rinuncia da parte dei soci, secondo la prevalente dottrina, in nessun caso può costituire una monetizzazione del credito, anzi è asservita a coprire perdite d’esercizio del debitore partecipato, e in tali fattispecie appare inverosimile presupporre l’insorgenza di un arricchimento da sottoporre a tassazione. Infatti, anche secondo quanto affermato dall’associazione Italiana Dottori Commercialisti, con la norma di comportamento 201 emanata nel 2018, è stato affermato che la mancata percezione di un compenso non manifesta alcuna capacità contributiva e pertanto non può dar luogo ad alcuna debenza d’imposta.

Tanto premesso e tornando al caso in dibattimento, l’Agenzia delle entrate notificava a una società un avviso di accertamento per il recupero a tassazione degli importi derivanti dalla rinuncia parziale dei finanziamenti erogati ai soci, considerati sopravvenienze attive ai sensi dell’art. 88, TUIR.

Il provvedimento veniva impugnato innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale che ne accoglieva le doglianze, per la parte di pretesa fiscale riferita ai finanziamenti erogati ai soci. Tale decisione veniva confermata dai giudici di secondo grado.

L’Agenzia proponeva ricorso in Cassazione composto da due motivi, lamentando essenzialmente la violazione e falsa applicazione dell’art. 1 e dell’art. 36 D.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché dell’art. 132, n. 4 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 88, comma 4, TUIR e dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. nella parte in cui la sentenza impugnata ha accertato che non si considerano a termini dell’art. 88, comma 4, TUIR quali sopravvenienze attive i versamenti in denaro fatti a titoli di finanziamento soci ai quali gli stessi abbiano successivamente rinunciato.

La tesi prospettata dall’avvocatura erariale non ha colpito l’attenzione dei giudici della Suprema Corte che hanno invece sostenuto che: “ … che per ragioni di pregiudizialità occorre esaminare il secondo motivo, evidenziando come la sentenza di appello abbia utilizzato, come autonoma ratio decidendi, l’argomento secondo il quale la rinuncia al finanziamento soci non costituisca a termini dell’art. 88, comma 4, TUIR sopravvenienza attiva ai fini della ripresa reddituale («ai sensi dell’art. 88, co.4 del TUIR non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro fatti a titolo di finanziamento da parte dei soci alla società con successiva rinuncia al vantato credito»); che il motivo, articolato sotto il profilo della nullità della sentenza, appare infondato, posto che la nullità della sentenza ricorre sia nell’ipotesi di assenza di motivazione, sia di motivazione apparente, sia di manifesta ed irriducibile contraddittorietà, sia infine in caso di motivazione perplessa od incomprensibile (Cass., Sez. Lav., 20 giugno 2019, n. 16595), tale da comportare inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (Cass., Sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22598) e da essere incompatibile con l’obbligo costituzionale di motivazione (Cass., Sez. VI, 1° ottobre 2015, n. 19677); la sentenza impugnata, con motivazione assai stringata, nel richiamare l’art. 88, comma 4, TUIR ha, difatti, evidenziato come la rinuncia al finanziamento da parte di un socio non genera una ripresa reddituale, ma ha solo evidenza patrimoniale, atteso che la liberazione della società dall’obbligo di restituzione del finanziamento per effetto di rinuncia del socio a tale credito produce per la società lo stesso effetto dell’apporto di capitale, non diversamente da un conferimento atipico, salvaguardando l’apporto patrimoniale senza una immediata ricaduta reddituale; stante la cointeressenza tra socio e società ai fini della sua patrimonializzazione, tale apporto non costituisce reddito di impresa, come diversamente avverrebbe nel caso in cui la remissione del debito provenisse da un terzo; che per effetto del rigetto del secondo motivo di ricorso e per sopravvivenza di una delle due rationes decidendi, non vi è interesse per il ricorrente all’esame del primo motivo di ricorso, che va dichiarato conseguentemente inammissibile; che il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza”.

Corte di Cassazione – Ordinanza 24 settembre 2020, n. 20052

sul ricorso iscritto al n. 27442/2016 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (C.F. 06363391001), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12

– ricorrente –

contro M.I. SRL (C.F. 01235900725), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. DANTE SANTILLI, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Parioli n. 44

-controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, n. 1999/14/16, depositata il 27 luglio 2016.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 novembre 2019 dal Consigliere Filippo D’Aquino. 

Rilevato che

Parte contribuente ha impugnato un avviso di accertamento relativo al periodo di imposta 2007, con cui venivano recuperati a tassazione componenti negativi di reddito indeducibili (rimborsi spese e spese diverse), componenti postivi di reddito per insussistenza di passività (sopravvenienze attive conseguenti a riduzioni di debito verso soci finanziatori conseguenti al venir meno di finanziamenti soci iscritti in bilancio tra il 2003 e il 2006), nonché apporti simulati di soci volti a ricostruire il conto cassa, volti a dissimulare, come risulta dagli atti, maggiori ricavi non contabilizzati, con recupero di imposte sul reddito, IRAP e IVA;

che la CTP di Bari ha accolto parzialmente il ricorso in relazione al recupero a tassazione della sopravvenienza attiva da riduzione finanziamento soci;

che la CTR della Puglia, con sentenza del 27 luglio 2016, nel rigettare l’appello della contribuente, ha rigettato anche l’appello dell’Ufficio, ritenendo che l’Ufficio fosse decaduto dal potere di accertamento in relazione al recupero a tassazione delle sopravvenienze attive, posto che l’accertamento, risalente al 2012, doveva riferirsi a ricavi non contabilizzati relativi all’esercizio chiuso al 31 dicembre 2006, non considerandosi – a termini dell’art. 88, comma 4, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR) sopravvenienze attive i versamenti in denaro fatti a titolo di finanziamento dai soci con successiva rinuncia;

che propone ricorso per cassazione l’Ufficio affidato a due motivi, cui resiste con controricorso parte contribuente, ulteriormente illustrato da memoria.

Considerato che

Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 88, comma 1 TUIR, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che l’Ufficio fosse decaduto dal potere di accertamento in relazione al recupero a tassazione della sopravvenienza attiva conseguente a riduzione di finanziamento soci;

deduce il ricorrente come le sopravvenienze attive derivino necessariamente da precedenti fatti di gestione e rappresentano componenti di reddito di carattere straordinario che concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, derogando al principio di autonomia dei singoli periodi di imposta, il cui recupero a tassazione decorre dalla loro concreta emersione in bilancio, benché successiva rispetto all’effettivo esercizio di competenza;

deduce l’Ufficio ricorrente come il potere di accertamento vada agganciato al risultato di esercizio evidenziato nel conto economico, al quale vanno apportate le variazioni in diminuzione derivanti da tale componente positiva straordinaria; ne consegue, ad avviso del ricorrente, che è dalla emersione nel conto economico del bilancio al 31 dicembre 2007 della riduzione ingiustificata del debito da finanziamento soci che l’amministrazione legittimamente ha potuto recuperare quali ricavi occulti le passività di bilancio evidenziate nelle precedenti annualità conseguenti ai finanziamenti soci, posto che è da tale momento che tali sopravvenienze attive acquisiscono i requisiti di certezza e determinazione;

che con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1 e dell’art. 36 d. Igs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché dell’art. 132, n. 4 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., dell’art. 88, comma 4, TUIR e dell’art. 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., nella parte in cui la sentenza impugnata ha accertato che non si considerano a termini dell’art. 88, comma 4, TUIR quali sopravvenienze attive i versamenti in denaro fatti a titoli di finanziamento soci ai quali gli stessi abbiano successivamente rinunciato; deduce il ricorrente come tale motivazione sia apparente, soprattutto in relazione alle motivazioni contenute nell’atto di appello, dove si evidenziava, tra le altre cose, che i finanziamenti fossero stati corrisposti in conto capitale;

che per ragioni di pregiudizialità occorre esaminare il secondo motivo, evidenziando come la sentenza di appello abbia utilizzato, come autonoma ratio decidendi, l’argomento secondo il quale la rinuncia al finanziamento soci non costituisca a termini dell’art. 88, comma 4, TUIR sopravvenienza attiva ai fini della ripresa reddituale («ai sensi dell’art. 88, co.4 del TUIR non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro fatti a titolo di finanziamento da parte dei soci alla società con successiva rinuncia al vantato credito»);

che il motivo, articolato sotto il profilo della nullità della sentenza, appare infondato, posto che la nullità della sentenza ricorre sia nell’ipotesi di assenza di motivazione, sia di motivazione apparente, sia di manifesta ed irriducibile contraddittorietà, sia infine in caso di motivazione perplessa od incomprensibile (Cass., Sez. Lav., 20 giugno 2019, n. 16595), tale da comportare inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (Cass., Sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22598) e da essere incompatibile con l’obbligo costituzionale di motivazione (Cass., Sez. VI, 1° ottobre 2015, n. 19677);

la sentenza impugnata, con motivazione assai stringata, nel richiamare l’art. 88, comma 4, TUIR ha, difatti, evidenziato come la rinuncia al finanziamento da parte di un socio non genera una ripresa reddituale, ma ha solo evidenza patrimoniale, atteso che la liberazione della società dall’obbligo di restituzione del finanziamento per effetto di rinuncia del socio a tale credito produce per la società lo stesso effetto dell’apporto di capitale, non diversamente da un conferimento atipico, salvaguardando l’apporto patrimoniale senza una immediata ricaduta reddituale; stante la cointeressenza tra socio e società ai fini della sua patrimonializzazione, tale apporto non costituisce reddito di impresa, come diversamente avverrebbe nel caso in cui la remissione del debito provenisse da un terzo;

che per effetto del rigetto del secondo motivo di ricorso e per sopravvivenza di una delle due rationes decidendi, non vi è interesse per il ricorrente all’esame del primo motivo di ricorso, che va dichiarato conseguentemente inammissibile;

che il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza;

P.Q.M.

Rigetta il secondo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo, condanna l’AGENZIA DELLE ENTRATE al pagamento delle spese processuali in favore di M. SRL delle spese processuali del giudizio di legittimità, che liquida in € 10.000,00 per compensi, oltre 15% spese generali, IVA e CPA.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 27 novembre 2019.

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