CASSAZIONE

Richiesta di documenti dal Fisco: obbligatori termine e conseguenze della mancata risposta

Tributi – Irap, Irpef – Lavoratore autonomo – Accertamento fiscale – Questionario – Produzione in giudizio di documentazione non esibita – Obbligo d’informazione da parte dell’Amministrazione – Conseguenze – Art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6275 del 2 marzo 2023 torna a interessarsi del cosiddetto rifiuto di esibizione di documenti in ambito di un accertamento fiscale e del successivo invio del Questionario fiscale, affermando che il contribuente che non risponde a un questionario in cui non è indicato un termine per l’adempimento e che neppure spiega quali potrebbero essere le conseguenze pregiudizievoli dell’inottemperanza alle richieste, può produrre in giudizio tutta la documentazione utile alla propria difesa, in quanto non può operare la preclusione prevista dall’art. 32, comma 4, del DPR 600/1973. In particolare, l’attenzione degli Ermellini si accentra sulle conclusioni della CTR nella parte in cui aveva sostenuto che, proprio ai sensi dell’art. 32, comma 4, del DPR 600, la mancata risposta del contribuente al questionario inviatogli dall’Ufficio ha comportato l’impossibilità di prendere in considerazione i documenti dal medesimo depositati sia in sede amministrativa sia in giudizio, in mancanza dell’avveramento della condizione indicata dal quinto comma dell’art. 32 cit.: “… Le cause di inutilizzabilità previste dal quarto comma non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando comunque contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile”. Conseguentemente la Suprema Corte non può fare a meno di notare anche che “… La sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che al contribuente che non risponde al questionario inviatogli dall’autorità tributaria è preclusa la produzione, in sede amministrativa e in giudizio, di nuovi documenti, non si attiene al principio di diritto sopra enunciato in quanto trascura che, nella fattispecie concreta, con l’invio del questionario l’amministrazione non aveva fissato al contribuente un termine per l’adempimento né indicato le conseguenze pregiudizievoli in caso di inottemperanza alle richieste”.

In sostanza gli Ermellini, censurando il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito, ammettono essenzialmente la produzione in giudizio di documentazione non esibita all’Agenzia delle Entrate, se quest’ultima omette di fissare un termine per l’adempimento. Gli Ermellini hanno in definitiva confermato, sulla scorta del loro orientamento ormai consolidato, che in tema di accertamento fiscale l’invio del questionario da parte dell’Amministrazione finanziaria per fornire dati, notizie e chiarimenti, ha la  funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria – un dialogo preventivo tra Fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, così da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa. Inoltre, continua la Corte, non si dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, che non è inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante.

E’ peraltro necessario che il Fisco, con l’invio del questionario, fissi un termine minimo per l’adempimento degli inviti o delle richieste, avvertendo delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall’inottemperanza alle stesse, senza che, in caso di mancato rispetto della suddetta sequenza procedimentale (la prova della cui compiuta realizzazione incombe sull’Amministrazione), sia invocabile la sanzione dell’inutilizzabilità della documentazione esibita dal contribuente solo con l’introduzione del processo tributario, trattandosi di obblighi di informativa espressione del medesimo principio di lealtà, il quale deve connotare – come si evince dagli artt. 6 e 10 dello Statuto del contribuente – l’azione dell’ufficio (così, tra le molte, Cass. n. 453/2013, n. 22126/2013, n. 10489/2014, n. 27069/2016 e n. 26646/2020).

Così premesso e tornando alla vicenda odierna, un contribuente professionista, ricevuto un avviso di accertamento redditi non dichiarati ricostruiti sulla base di indagini bancarie, si rivolgeva alla giustizia tributaria.  La CTP accoglieva il ricorso, sentenza che veniva riformata dalla CTR, la quale accoglieva l’appello dell’ufficio. Il contribuente ricorreva con sette motivi per la cassazione della sentenza di appello, in cui essenzialmente si censurava la sentenza impugnata che aveva erroneamente affermato che la mancata risposta al questionario ricevuto in fase di accertamento precludeva al contribuente la possibilità di allegare successivamente ulteriore documentazione, sia in sede amministrativa che nel corso del giudizio.

I giudici della Suprema Corte riconoscono le ragioni della parte contribuente, affermando al riguardo che “… Dall’atto impositivo risulta che al contribuente è stato notificato l’invito a fornire la documentazione contabile rilevante, nonché dati, notizie e chiarimenti sulle operazioni annotate sui conti nella sua disponibilità. Fin da Cass. n. 22126/13, che consolida Cass. n. 453/13, è stato chiarito che «[i]n tema di accertamento fiscale (nella specie, per il maggior reddito non dichiarato per Irap, Irpef e Iva, quest’ultima per maggiori ricavi e recupero di costi non documentati), l’invio del questionario da parte dell’Amministrazione finanziaria, previsto dall’art. 32, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (nonché, in materia di Iva, dall’omologa disposizione di cui all’art. 51, quinto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), per fornire dati, notizie e chiarimenti, assolve alla funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria – un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa. A tal fine, peraltro, è necessario che l’Amministrazione, con l’invio del questionario, fissi un termine minimo per l’adempimento degli inviti o delle richieste, avvertendo delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall’inottemperanza alle stesse, senza che, in caso di mancato rispetto della suddetta sequenza procedimentale (la prova della cui compiuta realizzazione incombe sull’Amministrazione), sia invocabile la sanzione dell’inutilizzabilità della documentazione esibita dal contribuente solo con l’introduzione del processo tributario, trattandosi di obblighi di informativa espressione del medesimo principio di lealtà, il quale deve connotare – come si evince dagli artt. 6 e 10 dello Statuto del contribuente – l’ azione dell’ufficio » (conf., ex multis , Cass. nn. 10489/14, 11765/14, 27069/16, 26646/20). La sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che al contribuente che non risponde al questionario inviatogli dall’autorità tributaria è preclusa la produzione, in sede amministrativa e in giudizio, di nuovi documenti, non si attiene al principio di diritto sopra enunciato in quanto trascura che, nella fattispecie concreta, con l’invio del questionario l’amministrazione non aveva fissato al contribuente un termine per l’adempimento né indicato le conseguenze pregiudizievoli in caso di inottemperanza alle richieste. 10. Con il sesto motivo [«Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, violazione o falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del d.P.R. n. 600/1973, come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale 6 ottobre 2014, n. 228, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, limitatamente alle parole “o compensi”, per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che non ha rilevato che i prelievi dal conto corrente del contribuente, per un ammontare di euro 3.620.649,84, in seguito alla sentenza n. 228 del 2014 della Corte costituzionale non possono costituire reddito imponibile non dichiarato, in assenza di ulteriori elementi probatori idonei a corroborare la pretesa erariale, nella specie del tutto inesistenti. 11. Il sesto motivo è fondato. La premessa è che il contribuente, nel periodo d’imposta accertato (2006), svolgeva l’attività di odontoiatra, ed era quindi un lavoratore autonomo. Detto questo, la sentenza di appello, nel confermare l’avviso di accertamento che attribuisce natura reddituale tanto ai versamenti che ai prelievi operati sui conti bancari intestati al contribuente, si discosta dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. n. 24998 /22) secondo cui «[i] n tema di prelevamenti e versamenti sui conti correnti bancari, la presunzione legale ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 secondo la quale i prelievi non risultanti dalle scritture contabili di cui non siano indicati i beneficiari compongono il reddito imponibile, non si applica nei confronti del lavoratore autonomo». 12. Con il settimo motivo [«Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 13-bis del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nonché dell’art. 97 Cost., e dell’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) in riferimento alla evidente preclusione dell’azione accertativa di tipo sintetico in presenza del c.d. “scudo fiscale” (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che non ha rilevato la nullità dell’avviso di accertamento in quanto le dichiarazioni riservate prodotte dal contribuente nel giudizio di primo grado dimostravano che egli (in data 18/02/2010) aveva “scudato” euro 1,8 mln, quale importo senz’altro idoneo a giustificare i versamenti su conto corrente, per un ammontare di euro 385.842,49, che invece per l’ufficio erano privi di giustificazione. 13. Il settimo motivo è inammissibile.  Nella specie la critica è rivolta alla ricostruzione degli elementi di fatto della vicenda fiscale operata dal giudice tributario di appello. Al riguardo è il caso di riaffermare il principio di diritto ripetutamente enunciato dalla Corte (cfr. Cass. n. 11892/16) per il quale «[i]l cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante».  14. In conclusione, accolti il quarto e il sesto motivo, assorbito il quinto motivo, dichiarati inammissibili il primo, il secondo, il terzo e il settimo motivo, la sentenza è cassata ai motivi accolti, con rinvio al giudice a quo, anche per le spese del giudizio di legittimità”.

Corte di Cassazione – Sentenza 2 marzo 2023, n. 6275

sul ricorso iscritto al n. 23136/2016R.G. proposto da:

C. A., elettivamente domiciliato in Roma Via Sicilia 66, presso lo studio dell’avvocato Francesco Giuliani (GLNFNC64A16H703K) rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Antonio Maria Salvatores (SLVCLN63C29F205R).

– Ricorrente –

contro AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato (ADS80224030587) che la rappresenta e difende.

– Controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 1164/2016 depositata il 02/03/2016.

Udita la relazione svolta dal Consigliere Riccardo Guida nella pubblica udienza del22 febbraio 2023 ex art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, richiamato dall’art. 8, comma 8, d.l. 29 dicembre 2022, n. 198.

Dato atto che il Sostituto Procuratore Generale Aldo Ceniccola ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. A. C., odontoiatra, impugnò l’avviso di accertamento che riprendeva a tassazione Irpef e Irap, per il 2006, redditi non dichiarati per euro 7.322.993,09, ricostruiti sulla base di indagini bancarie.

2. La C.T.P. di Milano accolse il ricorso del contribuente con sentenza (n. 202/2013) che è stata riformata dalla C.T.R. della Lombardia, la quale ha accolto l’appello dell’ufficio così argomentando (cfr. pag. 3 della decisione):

(i) il contribuente non ha presentato la dichiarazione adducendo un problema di ricezione telematica della stessa, ma era suo onere attivarsi per la trasmissione telematica della dichiarazione;

(ii) a norma dell’art. 32, comma 4, d.P.R. n. 600 del 1973, la mancata risposta del contribuente al questionario inviatogli dall’ufficio comporta che non possano essere presi in considerazione successivamente ulteriori documenti dal medesimo depositati sia in sede amministrativa sia in giudizio, posto che il contribuente non ha provato che il mancato adempimento di tale incombente era dovuto a cause a lui non imputabili;

(iii) non sono soddisfatte le condizioni in presenza delle quali il c.d. “scudo fiscale” può precludere l’azione accertatrice del fisco, vale a dire l’esatta corrispondenza tra somme scudate e somme accertate e la produzione della documentazione che provi all’Amministrazione l’adesione allo scudo fiscale.

3. Il contribuente ricorre, con sette motivi, per la cassazione della sentenza di appello; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso [« Nullità della sentenza o del procedimento (art. 360, primo comma, n. 4), c.p.c.»], si denuncia la nullità del processo e della sentenza sul presupposto che la C.T.R. abbia errato nel non considerare valida la costituzione in giudizio del contribuente/appellato, seppure tardiva, in quanto presentata all’udienza di trattazione del 16/04/2015 da Marco Martinelli, consulente del lavoro, quale difensore del contribuente, unitamente alla richiesta di rinvio della trattazione per un impedimento del difensore.

2. Il primo motivo è inammissibile.

Si critica il fatto che, ad avviso della C.T.R., il difensore del contribuente/appellato sarebbe stato privo dello ius postulandi in quanto consulente del lavoro, abilitato all’assistenza tecnica soltanto per materie concernenti le ritenute alla fonte e gli obblighi dei sostituti d’imposta. Ebbene, la sentenza (nella parte relativa allo “svolgimento del processo”) afferma che il contribuente non si è costituito.

Il che è un fatto processuale pacifico. A margine di tale declaratoria, e precisamente nella nota 1 a piè di pagina, la Commissione regionale (testualmente) spiega che «l’autodefinito difensore tecnico» dell’appellato, in data 16/04/2015 (e cioè la stessa data in cui si è svolta la camera di consiglio), ha presentato una richiesta di rinvio per un “attacco influenzale”.

A giudizio di questa Corte, ribadito che è certo che il contribuente non si è costituito in giudizio nei modi e nel termine di cui agli artt. 23, 61, d.lgs. n. 546 del 1992, appare ineccepibile, sul piano processuale, la decisione della C.T.R. di non dare seguito alla richiesta di rinvio del difensore della parte dato che la controversia è stata trattata in camera di consiglio, la quale si svolge senza la presenza delle parti e dei difensori. Inoltre, questa Corte ha chiarito che «nel processo tributario, la violazione del termine previsto dall’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la costituzione in giudizio della parte resistente comporta esclusivamente la decadenza dalla facoltà di proporre eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio e di fare istanza per la chiamata di terzi, sicché permane il diritto dello stesso resistente di negare i fatti costitutivi dell’avversa pretesa, di contestare l’applicabilità delle norme di diritto invocate e di produrre documenti ai sensi degli artt. 24 e 32 del detto decreto» (Cass. n. 2585/19 che dà continuità a Cass. n. 6734/15).

Non è ravvisabile, pertanto, alcuna lesione del diritto di difesa della parte privata visto che il giorno della camera di consiglio il contribuente era decaduto dal potere di depositare:

(i) “documenti”, i quali possono essere depositati fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione (art. 32, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992);

(ii) “memorie illustrative”, le quali possono essere depositate fino a dieci giorni liberi prima della data di trattazione (articolo 32, comma 2);

(iii) “brevi repliche scritte”, le quali, nel solo caso di trattazione della controversia in camera di consiglio (come nella fattispecie in esame), sono consentite fino a cinque giorni liberi prima della data della camera di consiglio (articolo 32, comma 3).

3. Con il secondo motivo [«Irriducibile contraddittorietà e illogicità manifesta della motivazione della sentenza (art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c.»], il ricorrente premette che la sentenza impugnata afferma che i consulenti del lavoro, ai sensi dell’art. 12, d.lgs. n. 546 del 1992, sarebbero abilitati all’assistenza tecnica soltanto per le materie concernenti le ritenute alla fonte e gli obblighi dei sostituti d’imposta; aggiunge che, invece, l’articolo 12, nella formulazione vigente ratione temporis, non prevedeva alcuna limitazione per materia al patrocinio dei consulenti del lavoro. Conclude che la motivazione della sentenza è contraddittoria e illogica da diversi punti di vista, a cominciare dal fatto che se il difensore dello stesso contribuente non fosse stato abilitato al patrocinio in appello, la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell’intero giudizio e rimettere gli atti al giudice di primo grado.

4. Il secondo motivo è inammissibile per due distinte ragioni. In primo luogo, come già indicato (cfr. punto 2), il rilievo in sentenza della mancata costituzione in giudizio dell’appellato non si fonda sulla ravvisata carenza di ius postulandi del difensore del contribuente. In secondo luogo, il vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., non consiste nella contraddittorietà o illogicità della motivazione, bensì, come si evince dal testo della disposizione, «[nell’]omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

5. Con il terzo motivo [«Vizio di violazione o di falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 24 Cost. (diritto di difesa), 111, primo comma, Cost. (giusto processo), del diritto alla effettività della tutela giurisdizionale e dell’art. 53 Cost. (principio di capacità contributiva) (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], il ricorrente lamenta che la trattazione del processo di appello, nonostante il convincimento della Commissione regionale che il consulente del lavoro che difendeva l’appellato non fosse abilitato al patrocinio, integra (cfr. pag. 19 del ricorso) «una […] palese violazione del diritto di difesa, del diritto alla certezza del diritto, del diritto alla effettività della tutela giurisdizionale e del rispetto del principio di capacità contributiva».

6. Il terzo motivo è inammissibile.

Va richiamato l’orientamento di questa Corte (Cass. nn. 15879/18, 3708/ 14), per il quale non è consentito fare valere, direttamente, con il motivo di ricorso per cassazione, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione di norme costituzionali in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre tramite l’applicazione di una norma di legge, deve essere portato a emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata.

7. Con il quarto motivo [«Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 32, commi 4 e 5, del d.P.R. n. 600/73, in combinato disposto con gli artt. 24, 113 e 53 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che ha erroneamente affermato che la mancata risposta al questionario ricevuto in fase di accertamento precludesse al contribuente la possibilità di allegare successivamente ulteriore documentazione, sia in sede amministrativa che nel corso del giudizio. Soggiunge di essersi sempre dichiarato disponibile a produrre tutta la documentazione utile al fine di dimostrare l’infondatezza della pretesa tributaria basata su indagine bancarie.

Al riguardo rileva che, rispetto alle contestate movimentazioni di conto corrente, per oltre euro 7mln, euro 6.611.000,00 non avevano natura reddituale in quanto la somma di euro 3.300.000,00 (maggiorata di euro 11.000,00) corrispondeva a un bonifico bancario a favore del contribuente in seguito alla vendita di un immobile, e lo stesso importo era stato successivamente trasferito, mediante bonifico bancario, su un “conto elvetico in Italia” posseduto dal contribuente, sicché, in definitiva, i versamenti apparentemente non giustificati si riducevano a euro 385.842,49, e i “prelevamenti” apparentemente non giustificati erano pari a euro 307.161,74.

8. Con il quinto motivo [«Violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c. (art. 360, primo comma, n. 4), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che è basata su una lettura parziale, incompleta e insufficiente della documentazione offerta dal contribuente a sostegno della propria linea difensiva.

9. Il quarto è fondato e il quinto motivo è assorbito.

Dall’atto impositivo risulta che al contribuente è stato notificato l’invito a fornire la documentazione contabile rilevante, nonché dati, notizie e chiarimenti sulle operazioni annotate sui conti nella sua disponibilità. Fin da Cass. n. 22126/13, che consolida Cass. n. 453/13, è stato chiarito che «[i]n tema di accertamento fiscale (nella specie, per il maggior reddito non dichiarato per Irap, Irpef e Iva, quest’ultima per maggiori ricavi e recupero di costi non documentati), l’invio del questionario da parte dell’Amministrazione finanziaria, previsto dall’art. 32, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (nonché, in materia di Iva, dall’omologa disposizione di cui all’art. 51, quinto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), per fornire dati, notizie e chiarimenti, assolve alla funzione di assicurare – in rispondenza ai canoni di lealtà, correttezza e collaborazione propri degli obblighi di solidarietà della materia tributaria – un dialogo preventivo tra fisco e contribuente per favorire la definizione delle reciproche posizioni, sì da evitare l’instaurazione del contenzioso giudiziario, rimanendo legittimamente sanzionata l’omessa o intempestiva risposta con la preclusione amministrativa e processuale di allegazione di dati e documenti non forniti nella sede precontenziosa.

A tal fine, peraltro, è necessario che l’Amministrazione, con l’invio del questionario, fissi un termine minimo per l’adempimento degli inviti o delle richieste, avvertendo delle conseguenze pregiudizievoli che derivano dall’inottemperanza alle stesse, senza che, in caso di mancato rispetto della suddetta sequenza procedimentale (la prova della cui compiuta realizzazione incombe sull’Amministrazione), sia invocabile la sanzione dell’inutilizzabilità della documentazione esibita dal contribuente solo con l’introduzione del processo tributario, trattandosi di obblighi di informativa espressione del medesimo principio di lealtà, il quale deve connotare – come si evince dagli artt. 6 e 10 dello Statuto del contribuente – l’ azione dell’ufficio » (conf., ex multis , Cass. nn. 10489/14, 11765/14, 27069/16, 26646/20).

La sentenza impugnata, nella parte in cui afferma che al contribuente che non risponde al questionario inviatogli dall’autorità tributaria è preclusa la produzione, in sede amministrativa e in giudizio, di nuovi documenti, non si attiene al principio di diritto sopra enunciato in quanto trascura che, nella fattispecie concreta, con l’invio del questionario l’amministrazione non aveva fissato al contribuente un termine per l’adempimento né indicato le conseguenze pregiudizievoli in caso di inottemperanza alle richieste.

10. Con il sesto motivo [«Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, violazione o falsa applicazione dell’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del d.P.R. n. 600/1973, come modificato dalla sentenza della Corte costituzionale 6 ottobre 2014, n. 228, che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, limitatamente alle parole “o compensi”, per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost. (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che non ha rilevato che i prelievi dal conto corrente del contribuente, per un ammontare di euro 3.620.649,84, in seguito alla sentenza n. 228 del 2014 della Corte costituzionale non possono costituire reddito imponibile non dichiarato, in assenza di ulteriori elementi probatori idonei a corroborare la pretesa erariale, nella specie del tutto inesistenti.

11. Il sesto motivo è fondato.

La premessa è che il contribuente, nel periodo d’imposta accertato (2006), svolgeva l’attività di odontoiatra, ed era quindi un lavoratore autonomo. Detto questo, la sentenza di appello, nel confermare l’avviso di accertamento che attribuisce natura reddituale tanto ai versamenti che ai prelievi operati sui conti bancari intestati al contribuente, si discosta dalla giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. n. 24998 /22) secondo cui «[i] n tema di prelevamenti e versamenti sui conti correnti bancari, la presunzione legale ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 secondo la quale i prelievi non risultanti dalle scritture contabili di cui non siano indicati i beneficiari compongono il reddito imponibile, non si applica nei confronti del lavoratore autonomo».

12. Con il settimo motivo [«Vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto e, in particolare, dell’art. 13-bis del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nonché dell’art. 97 Cost., e dell’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente) in riferimento alla evidente preclusione dell’azione accertativa di tipo sintetico in presenza del c.d. “scudo fiscale” (art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c.»], si censura la sentenza impugnata che non ha rilevato la nullità dell’avviso di accertamento in quanto le dichiarazioni riservate prodotte dal contribuente nel giudizio di primo grado dimostravano che egli (in data 18/02/2010) aveva “scudato” euro 1,8 mln, quale importo senz’altro idoneo a giustificare i versamenti su conto corrente, per un ammontare di euro 385.842,49, che invece per l’ufficio erano privi di giustificazione. 13. Il settimo motivo è inammissibile.

Nella specie la critica è rivolta alla ricostruzione degli elementi di fatto della vicenda fiscale operata dal giudice tributario di appello. Al riguardo è il caso di riaffermare il principio di diritto ripetutamente enunciato dalla Corte (cfr. Cass. n. 11892/16) per il quale «[i]l cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell ‘ art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante».

14. In conclusione, accolti il quarto e il sesto motivo, assorbito il quinto motivo, dichiarati inammissibili il primo, il secondo, il terzo e il settimo motivo, la sentenza è cassata ai motivi accolti, con rinvio al giudice a quo, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e il sesto motivo di ricorso, dichiara assorbito il quinto motivo, dichiara inammissibili il primo, il secondo, il terzo e il settimo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, in data 22 febbraio 2023

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